Perché i salari hanno perso terreno

Fra il 1993 e il 2001 hanno tenuto il passo con l'inflazione ma non con l'aumento della produttività. Le indicazioni per la strategia futura
Pubblichiamo la sintesi che Gabriele Olini, dell’Ufficio studi Cisl, ha premesso a una ricerca sull’andamento delle retribuzioni e della produttività in Italia dal 1993 al 2001. L’intera ricerca è consultabile (e "scaricabile”) nel sito confederale www.cisl.it, cercando nella sezione “Dipartimenti” la voce “Ufficio studi”.
 
Le retribuzioni contrattuali tengono rispetto all’inflazione, ma non in tutti i settori
Tra il 1993 e il 2001 in Italia le retribuzioni contrattuali sono aumentate di circa il 25% nella media del sistema economico, a fronte di una inflazione effettiva del 26% . Si è avuta, quindi, una sostanziale tenuta del loro potere d’acquisto. I contratti nazionali sono riusciti a recuperare una larga parte della differenza tra inflazione effettiva e inflazione programmata.
 
Non in tutti i settori, però, le retribuzioni contrattuali sono riuscite a tenere il passo della crescita dei prezzi. Hanno avuto maggiore difficoltà i settori:
1. più esposti alla delocalizzazione nei paesi a più basso costo del lavoro (è il caso del tessile/abbigliamento);
2. soggetti ad una forte ricomposizione nella manodopera impiegata con un crescente ricorso ai lavoratori extracomunitari (come per l’agricoltura e, nella prima parte del periodo, le costruzioni);
3. interessati da forti processi di ristrutturazione, che hanno modificato profondamente gli assetti competitivi e di regolazione. Si tratta, in particolare, dei settori investiti dalla privatizzazione e dall’apertura al mercato, per i quali gli anni Novanta hanno segnato la rottura di un assetto in cui prevalevano situazioni prossime al monopolio o al cartello (dalle telecomunicazioni al credito).
 
Le situazioni più favorevoli nel bilancio del periodo si hanno nel settore metalmeccanico (+26,5%) e nel commercio (+27,5%). Relativamente al settore pubblico, la dinamica più elevata è da attribuire esclusivamente al contratto della sanità (+35 %); gli altri contratti pubblici presentano una crescita inferiore all’evoluzione dei prezzi. Pure sotto l’effetto di spinte contrastanti, si è avuta una diminuzione della dispersione salariale: il contratto metalmeccanico nell’industria e quello del commercio nei servizi sembrano, in tale movimento, funzionare nel sistema come baricentri e punti di attrazione.
Le retribuzioni di fatto crescono più di quelle contrattuali
 
Le retribuzioni pro capite sono solo in parte determinate dai contratti collettivi definiti a livello nazionale; una quota deriva dalla negoziazione aziendale o territoriale, dallo straordinario, da indennità specifiche corrisposte a condizioni definite (turni, ecc.). Infine un’altra parte proviene dagli aumenti discrezionali decisi dai datori di lavoro.
Nel periodo 1993-2001 la retribuzione determinata a livello nazionale ha dato un contributo via via decrescente rispetto a quella stabilita a livello aziendale, sia attraverso la negoziazione, sia tramite le autonome politiche retributive definite dalle imprese.
 
Le retribuzioni di fatto crescono così per quasi tutto il periodo più delle retribuzioni contrattuali definite a livello nazionale; si registra una crescita annua in termini reali intorno allo 0,4 %, a saldo di andamenti opposti negli anni tra il 1993 e il 1996 (-0,4%) e dal 1996 a oggi (+0,9%). In molti settori (tessili, credito, poste, telecomunicazioni) le dinamiche delle retribuzioni di fatto riducono sensibilmente, e in qualche caso recuperano, le perdite di potere d’acquisto determinatesi a livello di contrattazione nazionale.
 
Lo slittamento dalla retribuzione fissata nel contratto nazionale alla retribuzione di fatto è molto più contenuto nel settore metalmeccanico. Anche per le retribuzioni di fatto si è avuta nel periodo 1993-2001 una sensibile riduzione dei differenziali settoriali sia nell’industria che nei servizi.
 
I dati disponibili non ci consentono, comunque, di delimitare, nell’andamento della retribuzione di fatto, l’apporto specifico della contrattazione decentrata e quello dato dalla discrezionalità delle politiche aziendali.
 
La contrattazione decentrata: rimane diffusa poco e a pelle di leopardo
 
Le fonti evidenziano però che la contrattazione decentrata nel nostro paese copre solo una parte minoritaria degli occupati (poco più di 3 milioni di lavoratori e un terzo dei dipendenti delle imprese con almeno 10 addetti) ed è diffusa a macchia di leopardo; la dimensione d’impresa risulta il fattore largamente prevalente nel determinare le differenze nella copertura.
 
Nonostante che gli accordi del luglio 1993 avessero  affidato al livello decentrato il compito di distribuire i guadagni di produttività, la diffusione nell’ultimo decennio della contrattazione aziendale integrativa è stata molto limitata. La stragrande maggioranza dei dipendenti delle piccole e medie imprese sono, quindi, ancora esclusi da tale possibilità.
 
A livello settoriale la situazione è decisamente variegata. Se infatti l’80% degli occupati nelle imprese con almeno 10 addetti della costruzione dei mezzi di trasporto e il 75 % nella produzione di energia elettrica, gas e acqua è coperto dalla contrattazione aziendale, si trova nella stessa condizione solo il 10 % dei dipendenti dell’industria delle pelli e calzature e il 26 % del legno-mobilio. Nel terziario circa un quarto degli addetti del commercio è coinvolto nella contrattazione integrativa; la percentuale è ancora più bassa nel settore del turismo (con l’11%), mentre i valori percentuali più elevati sono registrati dal settore della intermediazione finanziaria (con il 52%).
 
Non vi è dubbio che solo tenendo conto di questa fortissima articolazione settoriale, può arrivare in porto una revisione del sistema di relazioni industriali che ampli la quota della contrattazione decentrata e riduca quella della contrattazione nazionale. Si rischierebbero altrimenti perdite di potere d’acquisto dei dipendenti delle piccole imprese e/o un ampliamento della quota di salario discrezionale.
 
Le ricerche che sono state fatte sulle funzioni svolte dalla contrattazione decentrata non danno le stesse indicazioni in merito agli effetti sulla dispersione salariale; vi è chi rileva che i vantaggi retributivi sono maggiori per i livelli salariali più elevati e, conseguentemente, la contrattazione aziendale tende ad aumentare i differenziali salariali interni. Altri, invece, mettono in evidenza che la contrattazione decentrata amplia i differenziali tra gli stessi livelli professionali impiegati in aziende diverse, ma non quelli interni all’azienda; si sarebbero avuti finora modesti effetti nei differenziali Nord/Sud.
 
Le retribuzioni crescono meno della produttività
 
La limitata diffusione della contrattazione decentrata è, quindi, una delle cause per cui i salari aumentano meno della produttività. Nel periodo 1993-2001 le retribuzioni di fatto per occupato sono aumentate in media in Italia in termini reali dello 0,5 % l’anno, mentre la produttività per unità di lavoro è cresciuta dell’1,4 %. La situazione è stata particolarmente divaricata nel periodo 1993-1996, negli anni di maggiore crisi economica, mentre è stata più equilibrata nel quinquennio successivo, quando le dinamiche salariali appaiono rapportarsi più strettamente a quelle della produttività.
Peraltro nella seconda metà degli anni Novanta la dinamica della produttività, in Italia come in altri paesi europei, ha subito un rallentamento a fronte di una crescita relativamente sostenuta dell’occupazione. La principale, anche se non unica, spiegazione di tale fenomeno sta nell’allentamento della regolazione del mercato del lavoro, che ha determinato una crescita dell’elasticità dell’occupazione al Pil nella forma del lavoro atipico; l’altra faccia della medaglia è, però, proprio la riduzione della crescita della produttività.
 
Nonostante questo la crescita del valore aggiunto per occupato presenta valori elevati nell’insieme del periodo sia nei settori industriali (tessile, metalmeccanico) che nel terziario (credito, poste/telecomunicazioni).
 
Negli anni Novanta in Italia si è avuta una notevole riduzione del divario nell’aumento della produttività tra industria e servizi. La spinta verso una maggiore competitività di sistema ed i vincoli di finanza pubblica hanno imposto di andare verso un terziario più snello con forti interventi di ristrutturazione che hanno riguardato, soprattutto, il settore commerciale, il credito, i trasporti, le telecomunicazioni.
 
Perché si riduce la quota di reddito da lavoro? Spiegazioni a confronto
 
Nella letteratura economica le spiegazioni del declino della quota del lavoro nel valore aggiunto sono numerose. Alcune tendono a restringere il campo di osservazione all’interno del mercato del lavoro. Gli spostamenti delle curve di offerta e di domanda di lavoro sarebbero dovuti o ai mutati rapporti di forza tra le parti in causa o ai mutamenti della tecnologia. Nel breve e medio periodo sarebbero i rapporti di forza a definire la distribuzione del reddito; nel lungo termine la tecnologia consentirebbe, invece, agli imprenditori di sostituire il fattore relativamente più caro.
 
Seguendo quest’impostazione la caduta della quota del lavoro nella distribuzione nel reddito negli ultimi due decenni per i paesi dell’Europa continentale sarebbe stata determinata dall’esplosione salariale degli anni Settanta e dalla conseguente riduzione della profittabilità del capitale.
 
Anche gli altri interventi di sostegno del fattore lavoro contribuirebbero a rendere tale fattore troppo costoso e rigido: le eccessive garanzie per i lavoratori occupati, il sostegno al reddito e i disincentivi al lavoro per i disoccupati, le norme sui minimi salariali e l’egualitarismo sindacale che spiazzerebbero i lavoratori meno qualificati. Diventato il lavoro troppo costoso, gli imprenditori avrebbero scelto tecnologie destinate a utilizzare meno fattore lavoro (labour saving) per ristabilire i rendimenti del capitale. Questo sarebbe la causa dell’aumento della disoccupazione negli anni Ottanta e Novanta nell’Europa continentale.
 
Quale controprova di tale analisi vi sarebbe anche l’andamento delle quote del reddito nei paesi anglosassoni, che non hanno registrato particolari perdite dal lato del fattore lavoro. La maggiore flessibilità salariale e normativa di tali sistemi avrebbe preservato il calo soprattutto dal lato dell’occupazione.
 
Varie obiezioni si possono fare ad una tale impostazione, ma in particolare non sembra corretto isolare la determinazione delle quote distributive all’interno del mercato del lavoro. Si perdono le connessioni con i fattori strutturali di crescita dello sviluppo e dell’occupazione. Vi è chi rileva il forte impatto delle politiche monetarie. I bassi tassi di interesse praticati negli Stati Uniti e non la flessibilità del lavoro sarebbero la causa dell’accelerazione dello sviluppo americano; come gli alti tassi di interesse reali europei sarebbero all’origine della crescita della quota del capitale nella distribuzione del reddito.
 
Nuovo sistema salariale, calo della quota del lavoro e ruolo del sindacato
Anche l’esperienza italiana dell’ultimo decennio va letta alla luce di tali osservazioni. In verità il sistema di determinazione salariale che è uscito dagli accordi del 1992-93 non ha interrotto la riduzione della quota del lavoro, che è stata di oltre 5 punti percentuali tra il 1993 e il 2001. Ma questo non autorizza ad accogliere le linee interpretative, che vedono il fenomeno tutto interno al mercato del lavoro.
 
È il caso dell’impostazione neoclassica, che fa risalire alle rigidità del lavoro e agli shock salariali precedenti lo scivolamento della quota. Ma anche una lettura di derivazione marxiana accredita l’idea che i salari hanno perduto potere d’acquisto rispetto alla crescita della produttività, perché vi sarebbe stata da parte del sindacato all’inizio degli anni Novanta una scelta rinunciataria e di acquiescenza alle logiche del capitale, che ne avrebbe minato la forza contrattuale. Basterebbe, quindi, oggi disconoscere tale scelta per recuperare potere negoziale e salario.
 
Quest’idea sottovaluta la complessità dei fenomeni che hanno attraversato nell’ultimo decennio il sistema economico con i profondi cambiamenti strutturali e in particolare i fenomeni della globalizzazione e della liberalizzazione. Ignora le connessioni, evidenziate da altri filoni della stessa scuola marxiana, tra contesto economico e forza sindacale.
 
Parallelamente vi è chi, anche dentro il sindacato, ispirandosi più o meno consapevolmente al pensiero neoclassico, pensa che la partita vada tutta giocata sul mercato del lavoro, pagando i prezzi che occorre pagare in termini di flessibilità del lavoro. Si tratta di una sorta di logica di “arretrare per avanzare” nell’attesa che la crescita dell’occupazione così ottenuta, riporti il sindacato sugli scudi anche nei meccanismi di distribuzione del reddito. Un risultato tutt’altro che garantito, sia perché si prescinde da quello che avviene fuori dal mercato del lavoro, sia perché la nuova occupazione, nel caso in cui la flessibilità dovesse diventare precarietà, non ripagherebbe le attese di recupero della forza contrattuale. Occorre inoltre tener conto che una flessibilità del lavoro troppo ampia riduce la crescita del prodotto per occupato.
 
Vi è, infatti, un trade off, una relazione inversa tra flessibilità e produttività. Una flessibilità molto bassa favorisce – entro certi limiti – l’aumento della produttività, ma frena quello dell’occupazione. Una flessibilità accentuata riduce l’incentivo a introdurre miglioramenti tecnici che possano far crescere la produttività.
 
Infatti, da un lato i manager non sono particolarmente incentivati a migliorare le tecniche di produzione, dall’altro i lavoratori si sentono poco legati alle imprese. Se la produttività per occupato cresce a tassi troppo bassi, nel medio-lungo termine ne risente la competitività internazionale del paese e si riduce il tasso di crescita potenziale in condizioni di equilibrio dei salari.
 
Sviluppo e conflitto distributivo: un sistema da implementare
 
La concertazione e gli accordi del 1992-93 erano largamente immuni dagli errori sia dell’impostazione marxiana, sia di quella neoclassica e ci appaiono assai più avveduti al riguardo. Essi non sono la causa della riduzione delle quote di lavoro nella distribuzione del reddito; anzi l’hanno contrastata favorendo l’aggiustamento di finanza pubblica e tassi di interesse reali più bassi rispetto alla tendenza spontanea. Keynesianamente si può dire che la scelta sindacale è stata il tentativo riuscito, anche se non completamente, di forzare i rilevanti fattori strutturali per poter stimolare lo sviluppo e l’occupazione.
 
Il limite dell’accordo del 1993 è stato, invece, quello di affidare alla forza spontanea delle relazioni e del mercato il completamento del nuovo sistema di determinazione salariale e, in particolare, la diffusione della contrattazione decentrata, mirata a obiettivi di produttività, redditività, qualità.
 
Occorre superare tale limite. La mancata diffusione della contrattazione decentrata non significa solo una dinamica dei redditi da lavoro inferiore alla produttività; rivela che gran parte della struttura produttiva italiana si muove in un’organizzazione del lavoro piuttosto tradizionale, basato su una netta divisione dei ruoli tra datore di lavoro e dipendenti.
 
La piccola impresa, la meno taylorista delle forme di organizzazione, mantiene le logiche di distribuzione del valore aggiunto tipiche del periodo fordista, mentre appare impermeabile a sperimentare nuove forme di partecipazione, che pure aiuterebbero a sviluppare responsabilizzazione, coinvolgimento e cooperazione dei dipendenti, sottraendoli al ruolo di semplici esecutori.
 
L’attuale sistema le dà un vantaggio in termini di costo, ma è anche un fattore che pesa sull’efficienza microeconomica e che riduce le opportunità di crescita del valore aggiunto e della produttività.
 
La sfida che abbiamo di fronte è proprio quella di rafforzare il sistema uscito dagli accordi del 1993 con una moderazione retributiva che non deve essere intesa come costrizione salariale nelle forme di un riferimento a tassi di inflazione programmata irrealistici oppure di una mancata partecipazione agli incrementi di produttività.
Ma la moderazione salariale deve essere un segnale di un ruolo diverso dei dipendenti nei luoghi di lavoro, che in quanto virtuoso, non è un gioco a somma zero, ma porta nuove opportunità e vantaggi per tutti i fattori della produzione.
 
Il nuovo sistema dovrà osare di più in termini di definizione del contesto, restando legato a due regole di buon senso per una realtà, come quella italiana, troppo complicata. Un principio da rispettare sarà quello della complementarietà tra il livello nazionale e quello decentrato. Occorrerà chiedersi che cosa succede nel caso in cui non sia stato attivato il livello decentrato.
L’altra regola sarà quella dell’adattabilità, perché, fermi gli orientamenti comuni, presumibilmente le regole non potranno essere le stesse in tutte le situazioni. Sarà una ricerca difficile, lunga, che avrà probabilmente necessità di correzioni in corso d’opera. Ma sarà certamente un percorso di innovazione reale, positivo, che richiederà ai protagonisti nuovi comportamenti, ma soprattutto nuovi modi di essere. Ripartendo dall’accordo del luglio 1993, perché è giusto ricominciare da quella che è stata per atteggiamenti ed esiti un’esperienza molto positiva per il nostro paese. Puntando ad un nuovo accordo di luglio, che possa orientare positivamente i comportamenti di tutti verso l’equità e lo sviluppo.
Mercoledì, 19. Febbraio 2003
 

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