Pensioni, un accordo non bello ma neanche da buttare

Vari punti possono essere criticati, ma nelle non facili condizioni date si è riusciti per vari punti a coniugare la necessità della sostenibilità finanziaria con alcuni elementi di equità

Il protocollo su previdenza, lavoro e produttività proposto dal governo e sottoscritto con diversa soddisfazione dai sindacati confederali sconta in molti punti il modo in cui è stata condotta la trattativa e l’attenzione prestata da alcune forze politiche e sindacali più a bandiere da difendere che ai problemi concreti. Si è pagato in generale, sia rispetto ad alcuni nodi previdenziali non affrontati o risolti, sia rispetto al mercato del lavoro, l’eccessiva attenzione posta sul superamento dello scalone. In effetti la maggiore resistenza e attenzione sindacale e politica è stata posta su questo punto e non, ad esempio, sul mercato del lavoro e sul precariato. Si è fatto dello scalone, anche se con significative differenze tra i sindacati, un problema prioritario ignorandone volutamente le dimensioni in termini di lavoratori concretamente coinvolti e rifiutando di considerarne i costi.

 

Che l’eliminazione/revisione dello scalone avrebbe comportato un costo era noto fin dal primo momento. Il costo non deriva dalla presenza di Tommaso Padoa Schioppa, qualunque ministro del Tesoro avrebbe infatti presentato il conto, ma dal fatto che il limite dei 60 anni a partire dal 2008 era già legge dello Stato e che la trattativa, pertanto, non era diretta ad aumentare l’età pensionabile, ma a ridurla. Affermare oggi che nella finanziaria scorsa sono stati aumentati i contributi sui lavoratori dipendenti e che quindi l’eliminazione dello scalone era, almeno in parte, pagata non ha alcun senso. Quelle entrate sono già in bilancio e sono servite a finanziare altri interventi. Era durante la finanziaria che chi propugnava l’eliminazione/revisione dello scalone doveva chiedere che quelle risorse fossero indirizzate a tale fine. La stessa creazione del Fondo di tesoreria con il Tfr non indirizzato a previdenza integrativa poteva essere usato per il finanziamento della revisione dello scalone, ma bisognava pensarci allora. Posto oggi il problema dello scalone, le risorse da trovare sono risorse nuove. Se qualcuno non se n’era accorto dovrebbe andare a casa.

 

Il Dpef approvato da tutti i partiti della coalizione lo scorso anno si poneva degli obiettivi di risanamento del debito pubblico, obiettivi che l’attuale Dpef, ancora approvato all’unanimità, parzialmente ridimensiona, non includendo tuttavia i costi della riduzione dello scalone. I ministri e i partiti che oggi dissentono dove erano quando questi obiettivi sono stati posti? Come coprirebbero, visti gli obiettivi di finanza pubblica accettati, i costi di ulteriori revisioni dello scalone? Sarebbe gradita un’indicazione, anche di massima, da parte di chi ritiene negativo l’accordo sullo scalone. Si rimette in discussione il Dpef, si mettono nuove tasse, oppure cosa si taglia nella spesa pubblica? I costi indicati dalla Ragioneria sono troppo alti? Ci sono stati mesi di trattativa, qualcuno nei partiti politici o nel sindacato ha mai chiesto una verifica di questi costi?

 

L’accordo raggiunto ha eliminato l’aumento immediato di tre anni dell’età pensionabile, sostituendolo con scalini e quote che introducono alcuni elementi di flessibilità in uscita consentendo a chi ha più anni di contribuzione di uscire prima rispetto a requisiti di età e contribuzione fissi. Scansione degli scalini e valori delle quote sono stati determinati in base ai costi e alle possibilità di copertura. Difficile fare diversamente e meglio dati i limiti finanziari.

Rispetto all’aumento dell’età pensionabile la legge Maroni prevedeva deleghe particolari per affrontare il problema dei lavori usuranti, deleghe che non sono mai state attuate. L’accordo prevede un requisito anagrafico ridotto di tre anni per i lavoratori impegnati in attività usuranti, per lavoratori addetti a produzione di serie, per lavoratori vincolati a determinati ritmi produttivi, per lavoratori su ciclo lavorativo continuo. E’ la prima volta che per questi lavoratori è previsto e applicato un regime diverso di pensionamento (le norme sui lavori usuranti non hanno mai trovato fino ad oggi definitiva applicazione).

 

L’accordo prevede, inoltre, di affrontare il problema delle finestre per i lavoratori che vanno in pensione con 40 anni di contribuzione, riportandole dalle due previste dalla Maroni a quattro, sia pure scambiandolo con l’eventuale introduzione delle finestre nella pensione di vecchiaia.

 

Sui coefficienti di trasformazione la partita è ancora da giocare. Il governo ha ottenuto la conferma del principio della revisione inserito nella 335 portandola da decennale a triennale e rendendola quasi automatica; il sindacato ha ottenuto la costituzione di una commissione con il compito di proporre modifiche per il calcolo dei coefficienti. Importanti sono soprattutto due aspetti che dovranno essere valutati dalla commissione: il rapporto intercorrente tra l’età media di vita attesa e quella dei singoli settori di attività e l’adeguatezza del meccanismo di tutela delle pensioni più basse data l’incidenza dei percorsi lavorativi discontinui.

 

Sono due aspetti non affrontati dalla 335 e praticamente non affrontati nella trattativa, mentre questi avrebbero dovuto costituirne il punto centrale. E’ comunque importante averli posti alla base del lavoro della commissione. Il primo punto affronta il problema legato alle diverse speranze di vita di gruppi di lavoratori aprendo la strada a possibili differenziazioni dei coefficienti di trasformazione (possibile risposta anche ai lavori usuranti); il secondo punto apre la strada ad una riflessione alla copertura pensionistica dei lavoratori con percorsi lavorativi discontinui, problema che può trovare soluzione sia con differenziazioni dei coefficienti sia con altre strade. L’aspetto positivo è non avere ignorato il problema, l’aspetto negativo è averlo confinato nei lavori di una commissione e non averlo posto tra i problemi centrali.

 

Dato l’andamento della trattativa e la focalizzazione posta sullo scalone era difficile ottenere una conclusione migliore. Di fatto l’accordo raggiunto sulla previdenza era l’unico possibile e contiene diversi elementi positivi. Non tutto è stato affrontato e non tutto è stato risolto, mentre sulla copertura finanziaria degli interventi sono legittimi alcuni interrogativi.

 

Una delle maggiori critiche rivolte alla Maroni era che l’aumento dell’età pensionistica era esteso al contributivo eliminando la flessibilità di quel sistema. L’accordo non affronta questo problema e non distingue tra i diversi sistemi (retributivo, misto, contributivo) nel fissare i nuovi limiti di età. Nel contributivo vigerà quindi quota 97 con un minimo di 61 anni di età e un minimo di 35 anni di contribuzione. Questo secondo limite in particolare mantiene tutta la rigidità imposta dalla Maroni.

 

La razionalizzazione degli Enti previdenziali è condivisibile, ma qualche ragionevole dubbio vi è sull’ammontare dei risparmi ottenibili. Vi sono certamente spazi di risparmio per gli ammontari indicati, ma solo se si cambiano le regole, e le consuetudini, sulle nomine in questi enti e se si cambiano le regole di gestione del pubblico impiego. La clausola di salvaguardia, aumento della contribuzione, scaricherebbe di fatto il costo della revisione dello scalone su chi non ne usufruisce.

 

Più di 1/3 delle fonti di copertura della modifica dello scalone deriva dall’aumento di contribuzione dei parasubordinati. L’aumento è di per se positivo dato che assicura a questi lavoratori una pensione più alta, ma non appare molto equo che quest’incremento, che riduce in parte la loro retribuzione, debba essere usato oggi per consentire un’età pensionabile più bassa ad altri lavoratori che viceversa non pagano alcun costo. Più equo sarebbe stato riservare l’attivo della gestione parasubordinati per creare un fondo per il finanziamento dell’integrazione delle pensioni più basse di questa gestione, ma questo avrebbe posto un problema di reperimento di altre risorse.

 

Da condividere il contributo di solidarietà posto sugli iscritti, attivi e pensionati, degli ex fondi speciali e dell’Inpdai confluiti nel Fondo lavoratori dipendenti.

 

A completamento dell’accordo sulla previdenza vi è l’aumento delle pensioni più basse. Questa parte dell’accordo ha visto un protagonismo forte dei sindacati dei pensionati che per la prima volta hanno partecipato direttamente alle trattative con il governo. Aver ottenuto 1,3 miliardi –  già stanziati nel decreto legge appena emanato dal governo –  per questo obiettivo è un risultato notevole. Gli aumenti dovrebbero riguardare circa 3 milioni di pensionati con pensioni fino a 654 euro e saranno erogati, come richiesto dai sindacati, differenziando gli importi per anzianità contributiva e tra dipendenti e autonomi.

Mercoledì, 25. Luglio 2007
 

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