Pensioni, sta al sindacato prendere l'iniziativa

Il negoziato si sta trascinando in modo confuso e comunque, anche se arriverà a buon fine, si sarà trattato di semplice "manutenzione", che non affronta i pesanti problemi ancora aperti. Il movimento sindacale, che è quello che ha la maggiore competenza in materia, dovrebbe elaborare proposte meno confuse e contingenti

Il negoziato sulla riforma delle pensioni sta procedendo con esiti del tutto incerti, in un contesto nel quale appare sempre meno chiaro l’oggetto del contendere, e risulta difficile capire l’effettiva distanza delle posizioni in campo.

A Palazzo Chigi è aperto un tavolo con una pluralità di interlocutori, con posizioni diverse anche dentro le parti che tradizionalmente si confrontano per arrivare ad un’intesa. Così si procede per strappi, pressioni, ricatti politici ed il percorso oltre che accidentato subisce svolte e deviazioni che rendono sempre più problematico l’approdo.

A questa situazione siamo arrivati perché gli interlocutori fondamentali, governo e parti sociali, non hanno le idee chiare su dove vogliono arrivare. Il punto di partenza, sul quale tutti appaiono d’accordo è il superamento dello scalone della Legge Maroni, ma sono profondamente divisi sulle concrete modalità di soluzione. Si va da chi, come la sinistra radicale e gran parte della Cgil, vuole la cancellazione totale a carico della finanza pubblica, a chi, come la Cisl, è disponibile ad accettare un primo scalino e incentivare la permanenza al lavoro ad età superiori.

Il ministro del Lavoro ha sostenuto quest’ultima impostazione rendendola peraltro sperimentale per un triennio, ma il Tesoro e l’Unione europea sollevano serie perplessità circa la tenuta finanziaria futura del sistema. Nel complesso però non c’è accordo e quindi tutto ritorna in discussione.

In questi frangenti l’esperienza del passato dimostra che nella materia previdenziale il ruolo decisivo per uscire dalle secche della contrapposizione compete al sindacato confederale, che normalmente ha la cognizione più realistica degli interessi in gioco, conosce in profondità i meccanismi del sistema, ed è quindi maggiormente in grado di formulare la soluzione più praticabile.

Ho presente, a tale riguardo, per avervi partecipato direttamente, il difficile negoziato che si fece, su questa materia, con il governo Berlusconi, la notte tra il 30 novembre ed il 1° dicembre 1994, dopo gli scioperi e le grandi manifestazioni in tutto il paese. Anche in quella occasione il sindacato aveva al proprio interno idee diverse, e c’era anche chi non considerava praticabile un accordo con un governo di centrodestra, che oltretutto aveva presentato un progetto di tagli radicali del sistema in vigore.
Sia pur attraverso momenti drammatici di scontro interno tra le confederazioni, alla fine prevalse la volontà di trattare, e, dopo non poche difficoltà, si raggiunte un accordo.

Quell’intesa fu sottoscritta soltanto dai sindacati mentre Confindustria la rifiutò perché considerata eccessivamente blanda dal punto di vista finanziario ed onerosa per le imprese. Ricordo che in margine al negoziato un autorevole rappresentante dell’organizzazione imprenditoriale ci disse: “Con questo accordo avete realizzato, nei confronti del governo, un atto di circonvenzione d’incapace”. Quel giudizio, che tendeva a giustificare la mancata firma, rifletteva però un dato di fatto, cioè la maggiore conoscenza del sindacato dei meccanismi del sistema previdenziale, e degli effetti delle varie scelte discusse. Comunque, quella fu una netta vittoria del sindacato  che l’anno successivo venne trasferita nella legge Dini, che certamente è stata una delle leggi di riforma più avanzate in ambito europeo.

Sarebbe stato perciò opportuno che, nel negoziato attuale, il sindacato avesse manifestato la forza e la coerenza di riconoscere le sue conquiste del passato, e quindi  avesse rivendicato il superamento dello scalone attraverso il ripristino dei meccanismo di uscita flessibile dal lavoro previsto dalla Dini, con i relativi incentivi e disincentivi, secondo che l’uscita avvenga dopo o prima dell’età pensionabile. Ovviamente  negoziando le modalità di ottenere effetti finanziari analoghi allo scalone, agendo sull’età pensionabile e/o sui coefficienti di trasformazione in relazione all’aumento della speranza di vita.

Rimango convinto che il sindacato, così come è avvenuto in passato, era in grado di sostenere una linea del genere spiegandola ai lavoratori e ai pensionati. A tale riguardo va precisato che nel 1994/95  il mantenimento delle pensioni di anzianità (35 anni di anzianità contributiva e 57 anni di età anagrafica) allora si giustificava per una diffusa presenza di processi di ristrutturazione produttiva con l’espulsione di migliaia di lavoratori con basso livello di scolarizzazione e quindi di difficile ricollocazione. Oggi, a oltre dieci anni di distanza, la situazione è molto cambiata; i giovani iniziano a lavorare più tardi e lasceranno il lavoro pure più tardi, e, anche a fronte dell’aumento della speranza di vita, il problema dell’età pensionabile viene oggettivamente ridimensionato. Le barricate su questo problema acquistano perciò un chiaro segno di pura difesa corporativa, che può creare qualche illusione di ripresa in una sinistra radicale in caduta libera di consenso elettorale, ma che certamente non fa crescere la considerazione del sindacato tra i lavoratori e nella società.

L’altro punto in discussione, cioè l’aumento delle pensioni basse e la rivalutazione delle pensioni a fronte della perdita di potere d’acquisto che hanno subito dopo il 1992, ha invece una solida motivazione di equità sociale e può rappresentare la parte più positiva di un accordo che, data la materia, sarà in ogni caso complesso e formato da partite di dare ed avere.

Almeno su questo punto è sperabile che sulle modalità applicative dello stanziamento previsto (1,3 miliardi di euro) si riescano a superare le difficoltà sorte circa le categorie di pensionati a cui applicare gli aumenti ed in che misura. Come è sperabile che finalmente si trovi una soluzione adeguata al problema del trattamento previdenziale dei lavori usuranti, facendolo uscire dalle contrapposizioni paralizzanti tra gli eccessi restrittivi e le fughe demagogiche in avanti.

Comunque, è sperabile che questo negoziato, che sta procedendo in un mare di  difficoltà, si concluda rapidamente perché oltre a mantenere una situazione iniqua, un mancato accordo avrebbe anche effetti di ulteriore precarizzazione di questo governo che già si trova in evidente sofferenza.

Anche con un accordo ragionevole, si tratterà comunque di una più o meno buona manutenzione dell’attuale sistema, che non risolve le questioni strutturali lasciate aperte dalle riforme precedenti.
Le tre riforme degli anni 90, (Amato, Dini e Prodi) hanno certamente migliorato la sostenibilità del sistema previdenziale ed introdotto diversi elementi di equità tra le diverse categorie di lavoratori. Ciò che invece in questo negoziato è stato tralasciato, anche se costituisce il maggiore problema strutturale ancora irrisolto del nostro sistema previdenziale, è quello dell’equità intergenerazionale. E dopo tre riforme, e con un governo di centrosinistra, sarebbe stato opportuno metterci mano.

Innanzitutto sulle aliquote contributive. Con l’ultima finanziaria si è fatto un ulteriore e significativo passo in avanti nell’avvicinamento dei livelli contributivi tra lavoratori subordinati e parasubordinati. Ma fin d’ora appare quanto mai difficile che la  necessaria equiparazione contributiva possa avvenire al 33%, livello attuale dei lavoratori subordinati. Se teniamo presente che ai medesimi lavoratori viene richiesta la destinazione del Tfr a previdenza complementare, credo sia ben difficile in futuro, ipotizzare una struttura del salario con oltre il 40% del suo ammontare destinato alla previdenza. Rimane perciò aperto il problema del livello di equiparazione contributiva e, di conseguenza l’evoluzione del tasso di sostituzione del sistema, che in ogni caso è destinato a ridursi. In tale contesto acquista maggior valore la previdenza complementare e, a questo riguardo, l’esito del trasferimento del Tfr desta non poche preoccupazioni, stante la percentuale di coloro che hanno scelto un Fondo pensione.

Il futuro del sistema previdenziale appare quindi quanto mai incerto e denso di problemi. A mio modesto parere il sindacato dovrebbe sentire maggiormente il dovere di costruire e proporre soluzioni meno confuse e contingenti, per riacquistare quel ruolo decisivo che lo ha reso protagonista anche di fronte alle incertezze dei governi, avendo presente che in campo previdenziale esso si gioca una parte rilevante della sua sovranità nei confronti degli interessi dei rappresentati.
Venerdì, 13. Luglio 2007
 

SOCIAL

 

CONTATTI