Pensioni, non basta la 'manutenzione'

Coefficienti e "scalone" sono i problemi da risolvere per la sostenibilità finanziaria, ma c'è anche un serio problema di sostenibilità sociale. Indicizzazione, lavori usuranti, contributi troppo bassi per alcune categorie, versamenti discontinui sono alcune delle questioni che è necessario affrontare

Il ministro Damiano continua ad affermare che non vi è alcuna necessità di una nuova riforma pensionistica, ma che occorre fare solo della manutenzione dell’esistente. E’ un modo di vedere la questione su cui paradossalmente potrebbero trovarsi d’accordo sia l’ex ministro Maroni che la Commissione Ue. Se non si tocca lo scalone in vigore e si modificano i coefficienti di trasformazione secondo quanto previsto dalla legge 335, anch’essa in vigore, non ci sarebbe bisogno di nessun intervento, almeno dal punto di vista finanziario. E’ stata la Commissione europea ad affermare più volte che con la riforma Maroni, e la revisione dei coefficienti, l’Italia aveva completato il processo di riforma. Diversa sarebbe, naturalmente, la situazione in caso di abolizione dello scalone e di mancata revisione dei coefficienti.

 

L’aspetto finanziario non è, tuttavia, il solo in base al quale giudicare un sistema pensionistico, ma, come del resto afferma la stessa l’U.E., esso va giudicato anche in base alla sua capacità di assicurare pensioni adeguate. Sotto questo aspetto il sistema pensionistico italiano presenta non pochi problemi.

 

Non siamo, quindi, in presenza di problemi di sola manutenzione, ma di problemi di maggiore peso e gravità che richiedono interventi non semplici. I problemi sul tappeto sono di natura diversa: alcuni riguardano il breve-medio periodo, altri il lungo periodo: è utile tenerli distinti.

 

L’eliminazione dello scalone appare l’obiettivo principale di una parte delle forze di maggioranza e di una parte del sindacato. Non vi è dubbio che lo scalone in sé presenti aspetti non accettabili, come l’innalzamento repentino e non graduale dell’età di pensionamento e la mancata esclusione da questo innalzamento di alcune particolari categorie di lavoratori. L’innalzamento di fatto obbligatorio dell’età pensionabile è tuttavia previsto per i lavoratori più giovani inseriti nel sistema misto e in quello contributivo: questi lavoratori non potranno andare in pensione a 57 anni, ma solo ad età sensibilmente superiori se vorranno pensioni accettabili, a prescindere dalla revisione dei coefficienti. In caso contrario subiranno forti penalizzazioni in termini pensionistici. L’innalzamento progressivo dell’età pensionabile è stato accettato nel processo di riforma degli anni novanta (i lavoratori andati in pensione negli ultimi dieci anni vi sono andati con requisiti di età diversi e progressivamente più alti rispetto a coloro che sono andati in pensione prima del 1995) ed è accettato per il futuro; questo processo dovrebbe, invece, subire una pausa nel presente.

 

Se Maroni anziché rinviare furbescamente l’applicazione dell’innalzamento di età al 2008 avesse applicato da subito, 2005, gli scalini ogni diciotto mesi, nel 2008 avremmo i 60 anni senza il problema del salto imposto dallo scalone.

 

Il vero problema nei processi di innalzamento dell’età pensionabile è quello dei lavoratori occupati in lavori usuranti e dei lavoratori espulsi dal mercato del lavoro, così come quello dell’uniformità di trattamento tra tutti gli altri lavoratori con l’eliminazione di trattamenti di favore non giustificati da ragioni oggettive. La legge 252 prevedeva nell’ambito dell’aumento dell’età pensionabile decreti legislativi volti a tutelare le categorie che svolgono attività usuranti. Nulla è stato fatto. La legge consentiva una deroga dai nuovi limiti di età per i lavoratori collocati in mobilità con accordi antecedenti al 1° marzo 2004, ma nei limiti del numero di 10.000 lavoratori beneficiari. E’ una norma chiaramente insufficiente sia nel numero massimo di lavoratori beneficiari che nella data degli accordi. Chi è espulso dal mercato del lavoro perché considerato anziano non può trovarsi senza retribuzione e senza pensione.

 

La legge Maroni esenta dall’applicazione dell’innalzamento di età alcune categorie (personale delle Forze armate, di polizia, del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché dei rispettivi dirigenti) per le quali, come per altre gestioni speciali, era attribuita al governo la potestà di emanare uno o più decreti legislativi con l’obiettivo dell'elevazione dell'età media di accesso al pensionamento, tenendo conto delle obiettive peculiarità ed esigenze di questi settori. Anche in questo caso nulla è stato fatto.

 

Questi dovrebbero essere i punti su cui intervenire: tutela dei lavoratori sottoposti ad attività usuranti e dei lavoratori che perdono il lavoro, armonizzazione delle regole tra i vari settori. Diversamente la battaglia sullo scalone diventa solo uno scontro di bandiera, che lascia inalterati i privilegi, non tutela i lavoratori effettivamente bisognosi e pone inutili problemi finanziari.

 

Il sistema pensionistico italiano è caratterizzato dalla presenza di milioni di pensionati che percepiscono pensioni basse. Non tutte le situazioni sono simili e sono da considerare alla stesso modo. Tra questi pensionati, infatti, vi sono numerosi lavoratori autonomi che hanno volontariamente versato pochi contributi e che continuano nella loro attività o che hanno comunque altre risorse reddituali, così come vi sono, pensiamo alle pensioni baby nel settore pubblico, pensioni frutto di scelte autonome di lavoratori con altre risorse individuali o familiari. Vi sono, tuttavia, molti pensionati che hanno pensioni insufficienti per vivere e il cui potere di acquisto è stato falcidiato soprattutto dagli effetti del passaggio lira/euro. Vi è certamente una necessità di intervento immediata su queste pensioni. Il governo ha annunciato di voler stanziare 1,3 miliardi di euro per una rivalutazione delle pensioni più basse. E’ certamente un annuncio positivo, anche se nel concreto bisognerà valutare le modalità di applicazione del provvedimento.

 

Il problema della rivalutazione delle pensioni non si limita tuttavia a questo. L’intervento annunciato riguarda un incremento delle pensioni più basse, mentre il nodo più complesso da affrontare è quello della rivalutazione annua delle pensioni. Fino al 1992 i trattamenti pensionistici godevano di una doppia indicizzazione: la prima legata al costo della vita, la seconda legata all’andamento dei salari contrattuali dell’industria. La riforma Amato ha abolito questa seconda rivalutazione prevedendo la possibilità per il governo, nell’ambito della legge finanziaria, di concedere ulteriori incrementi oltre a quello del costo della vita. Mai nessuna finanziaria lo ha fatto.

 

La rivalutazione ai soli prezzi (rivalutazione peraltro applicata nell’anno successivo e al 100% solo per gli importi fino a tre volte l’integrazione al minimo, 1.282 euro lordi), significa in concreto che con il passare degli anni dal pensionamento la pensione perde di valore rispetto all’andamento delle retribuzioni che godono mediamente dell’incremento di produttività. In altre parole il pensionato non partecipa all’aumento della ricchezza nazionale e vede progressivamente diminuire il valore della sua pensione rispetto a chi lavora. In termini di tasso di sostituzione una pensione pari al 70% al momento del pensionamento, si riduce al 63% dopo dieci anni se le retribuzioni crescono l’1% in terminino reali, al 60% se crescono dell’1,5%. Dopo quindici anni il tasso di sostituzione nelle due ipotesi scenderebbe rispettivamente al 60 % e al 56%.

 

La perdita relativa subita dalle pensioni è particolarmente grave oggi per le pensioni più basse e lo sarà per buona parte delle pensioni nel futuro sistema contributivo. Diverso infatti è perdere in valore partendo da tassi di sostituzione elevati, altro è subirlo con tassi di sostituzione già bassi in partenza. Nello stesso modello svedese spesso indicato ad esempio, la rivalutazione annua delle pensioni è legata anche alla crescita delle retribuzioni sia pure depurata dalla quota (1,6%) considerata per il calcolo dei coefficienti di trasformazione. Nel nostro sistema contributivo per il calcolo dei coefficienti di trasformazione è considerato un valore pari all’1,5%. Si potrebbe prevedere per le pensioni contributive un’ulteriore rivalutazione delle pensioni in caso la crescita del Pil fosse superiore all’1,5%. Resta il problema delle pensioni attuali. Una maggiore indicizzazione sarebbe sicuramente molto costosa dato che agirebbe sull’intero stock. Andrebbe pertanto ridotto il suo ambito di applicazione (limiti di età e di reddito) e/o andrebbe reso effettivo quanto previsto dalla riforma Amato.

 

Va comunque migliorata l’indicizzazione rispetto ai prezzi. Il limite entro il quale la rivalutazione è totale, 1.282 euro lordi, è troppo basso e decrescente nel tempo rispetto alle nuove pensioni. Questo limite infatti cresce in base al costo della vita, mentre le nuove pensioni risentono positivamente anche degli incrementi retributivi reali. Le nuove pensioni sono quindi rivalutate in misura minore di quelle già in vigore.

 

Al momento dell’approvazione della legge Dini che istituiva il sistema contributivo non fu considerato il problema delle nuove figure presenti nel mercato del lavoro. Il problema era quello di assicurare ai lavoratori regolari una pensione adeguata, non inferiore in termini di tasso di sostituzione a quella derivante dalla riforma Amato del 1992, sia pure ad una età anagrafica più alta. La stessa introduzione del contributo sui parasubordinati fu in parte dovuto all’esigenza di far quadrare i conti tra entrate ed uscite. In quella stessa ottica si diede poco peso alla revisione dei coefficienti di trasformazione. Il confronto fu sempre fatto tra i tassi di sostituzione derivanti dai coefficienti 1995 e quelli derivanti dalla riforma Amato.

 

E’ solo successivamente, anche per la proliferazione dei lavoratori irregolari nel mercato del lavoro, che si è posto il problema dell’adeguatezza delle pensioni. A prescindere dalla revisione dei coefficienti, infatti, per i lavoratori che avranno carriere irregolari e/o aliquote contributive basse i tassi di sostituzione saranno molto bassi. La revisione dei coefficienti accentua il problema, non lo crea.

 

In termini pensionistici il problema sta negli anni di vuoto contributo e nelle basse aliquote pensionistiche. Sono questi i nodi da affrontare. La riforma del 1995 si è basata su di un’aliquota contributiva del 33%. E’ questa aliquota che assicura, considerati 35/37 anni di contribuzione, pensioni adeguate. Con aliquote inferiori i risultati sono per definizione insufficienti. Le associazioni dei lavoratori autonomi hanno accettato pensioni molto basse per i giovani pur di non aumentare eccessivamente la loro aliquota contributiva (allora del 15%). Non si sono certo occupati dei giovani autonomi, ma per l’insieme di queste categorie la pensione pubblica ha rappresentato fino ad oggi solo una parte del reddito disponibile dopo la pensione.

 

Diversa è la situazione per molti lavoratori non regolari e, probabilmente, oggi anche per una parte degli stessi autonomi. Vi è necessità di aumentare le aliquote contributive, ottenendo così anche l’effetto di uniformare il mercato del lavoro diminuendo le convenienze economiche dei datori di lavoro ad assumere lavoratori a più basso costo. Vi è la necessità di assicurare comunque importi di pensioni sufficienti in caso di carriere irregolari e ridotte. Nell’attuale sistema retributivo questa ultima funzione è parzialmente assicurata dall’integrazione al minimo, prestazione non prevista nel contributivo.

 

I modi per assicurare un livello minimo di pensione possono essere diversi: l’integrazione al minimo rapportata all’aliquota di contribuzione e agli anni di lavoro, contributi figurativi, interventi fiscali, una pensione di base. Sono sistemi diversi, ognuno con pregi e difetti, ma tutti in grado di assicurare un certo livello di tutela pensionistica in presenza di un mercato del lavoro con forte presenza di precarietà, comunque da ridurre, e comunque destinato ad essere caratterizzato da una forte flessibilità.

 

E’ in questa ottica che andrebbe affrontato il problema della revisione dei coefficienti di trasformazione assicurando una tutela alle pensioni più basse. La revisione è insita nel sistema contributivo, metterla in discussione significa mettere in discussione l’intero sistema. I coefficienti servono a rendere attuarialmente uguali le pensioni in funzione di diverse età al pensionamento, mentre la loro revisione serve ad assicurare la sostenibilità finanziaria del sistema.

 

Si può naturalmente rimettere in discussione la scelta del 1995. Il contributivo è stato adottato oltre che dall’Italia e dalla Svezia essenzialmente dagli ex paesi dell’est. Germania, Francia, Inghilterra per la parte pubblica e altri paesi mantengono il retributivo. In questo paesi tuttavia il problema dell’equilibrio finanziario è risolto, o comunque affrontato, attraverso un forte innalzamento dell’età di pensionamento, sia pure diluito nel tempo. Si può abbandonare il sistema contributivo, ma l’alternativa è quello di far crescere progressivamente ed obbligatoriamente l’età pensionabile unica (senza distinzione tra vecchiaia e anzianità e tra uomini e donne) a 65/67 anni. Nei paesi rimasti al retributivo nei casi in cui è prevista la possibilità di un pensionamento anticipato vi è una penalizzazione sensibile nell’importo di pensione. Alla fine il risultato non sarebbe sensibilmente diverso dal contributivo che comporta un innalzamento di fatto dell’età pensionabile con la possibilità di pensionamento anticipato con penalizzazioni nell’importo di pensione.

 

Anche in un sistema retributivo si porrebbe egualmente il problema dei lavoratori irregolari e con minori aliquote contributive. Il calcolo della pensione sarebbe comunque fatto sull’intera vita lavorativa e non sarebbero possibili per questi lavoratori e per gli autonomi rendimenti annui uguali a quelli di chi versa il 33%. Rendimenti annui inferiori e carriere brevi darebbero comunque tassi di sostituzione bassi.

 

La revisione dei coefficienti pone, tuttavia, problemi di metodo e di merito. Quelli di metodo riguardano la procedura prevista dalla legge e la prassi che si è determinata. La procedura è soggetta a variabili politiche, la prassi è un classico esempio di forte opacità della pubblica amministrazione. Il processo di revisione va reso automatico, trasparente e va affidato, togliendolo alla Ragioneria che lo esercita di fatto, ad un organismo indipendente. Va ridotta la scadenza temporale prevista, dieci anni, e va assicurata la stabilità dei coefficienti a chi raggiunge l’età minima prevista per il pensionamento per non costringerlo ad andare anticipatamente in pensione in previsione di una modifica peggiorativa dei coefficienti. Va rivista la formula di calcolo semplificandola e agendo sul rapporto tra tasso di crescita del Pil incorporato e indicizzazione delle pensioni.

 

Va soprattutto affrontato il problema della reale equità del sistema. La presunzione di equità del contributivo si basa su di un meccanismo, i coefficienti appunto, che dovrebbe rendere uguale l’importo della pensione complessivamente percepita rispetto ad una speranza di vita media, a prescindere dall’età di pensionamento. L’equità è effettivamente assicurata se la speranza di vita media non copre differenze forti tra categorie di lavoratori. In caso contrario sarebbero avvantaggiate le categorie con speranza di vita più elevata e danneggiate le categorie con speranza di vita più bassa. In altre parole il sistema non sarebbe equo, ma fortemente sbilanciato a favore dei primi.

 

Nel nostro paese, a differenza di altri, non sono diffusi a livello complessivo dati sulle speranze di vita per categorie professionali. Le fonti disponibili indicano, tuttavia, una speranza di vita maggiore al crescere del reddito e del livello di istruzione. Traducendo sommariamente questi dati possiamo dire che i lavoratori delle pulizie hanno mediamente una speranza di vita inferiore di almeno cinque anni rispetto ai professori universitari, o che gli operai hanno una speranza di vita inferiore a quella dei dirigenti. I dati di altri paesi confermano questa situazione. Un’applicazione a tutti degli stessi coefficienti di trasformazione non produce in questo caso equità, ma determina proprio quelle ineguaglianze che il sistema contributivo vorrebbe eliminare, assicurando ai più fortunati pensioni superiori a quanto dovuto e ai meno fortunati pensioni inferiori a quanto versato. Questo problema, che investe di fatto i lavori usuranti, andrebbe posto con forza al tavolo della trattativa. I tempi per una sua soluzione vi sono tutti, compreso lo sviluppo da parte dell’Istat di ricerche apposite. L’applicazione dei coefficienti, e quindi la loro revisione, produrrà effetti macroeconomici apprezzabili solo a partire dal 2014.

 

La scelta che si presenta al governo e al sindacato non è quindi quella di sola manutenzione del sistema, ma di un intervento più profondo che, fermi restando i problemi di sostenibilità finanziaria, affronti anche quelli di sostenibilità sociale a breve e lungo termine, lasciando possibilmente da parte le bandiere utili forse in termini di popolarità, ma che corrono il rischio di nascondere i problemi più importanti.

Venerdì, 22. Giugno 2007
 

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