Pensioni, i sette nodi ancora da sciogliere

Quando si tornerà a discutere di questo tema non si potrà evitare di affrontare una serie di problemi che le varie modifiche degli ultimi anni hanno lasciato tuttora irrisolti
I giorni a cavallo di agosto e settembre sono stati caratterizzati da uno scontro sulle pensioni già visto in anni passati. "Rigoristi" e "portatori di no" secondo la reciproca definizione, si sono affrontati sul tema e si è assistito nuovamente ad un gioco delle parti, come nella precedente legislatura a maggioranza centrosinistra, tra istituzioni europee e istituzioni italiane. E' l'Unione Europea che ci chiede la riforma delle pensioni o siamo noi a chiedere all'UE di chiedercela?. L'interrogativo sorge quando si riflette sul fatto che Commissione e BCE hanno approvato solo due anni fa la riforma Maroni/Tremonti giudicandola positivamente e concedendo in cambio al governo Berlusconi tempi maggiori di rientro dal disavanzo. Le istituzioni europee hanno modificato il loro parere su quella riforma e sui suoi effetti finanziari? Sarebbe lecito saperlo e ci si può interrogare sui motivi per i quali nessun esponente del governo italiano abbia sollevato il problema con Almunia e la BCE.

Il governo poteva affrontare con calma il tema pensioni partendo, appunto, dal consenso europeo sulla riforma Maroni e utilizzando il tempo che precede l'entrata in vigore di quella riforma (ancora 16 mesi) per discuterne i contenuti e procedere ad eventuali modifiche. Si è tentato di bruciare i tempi per l'esigenza di trovare le risorse necessarie per la manovra di finanza pubblica prospettando un anticipo e un peggioramento della riforma Maroni. Errore non da poco e da evitare se solo si rifletteva sulla composizione della maggioranza e sul necessario apporto del sindacato a questo governo.

L'approvazione del DPEF con una manovra annunciata di 33,5 miliardi è avvenuta all'insegna dell'equivoco favorito dalla mancanza di indicazioni specifiche sulle misure da prendere. Era difficile, infatti, pensare di effettuare una tale manovra senza intervenire su pensioni, sanità e pubblico impiego. Appena le misure specifiche hanno iniziato a prendere forma la bagarre è iniziata.
 
Alla fine si è deciso per un rinvio. Quando si deciderà di mettere mano a un nuovo intervento, questo dovrebbe essere preceduto da una riflessione sui problemi del sistema pensionistico che sono certamente quelli legati alla sua sostenibilità finanziaria, ma anche quelli legati all'adeguatezza delle pensioni erogate in futuro e al suo rapporto con il mercato del lavoro. Una riforma dovrebbe inoltre affrontare la forte differenza contributiva esistente tra le diverse categorie di lavoro e risolvere il problema dei lavori usuranti. Materia di discussione c'è ne dunque parecchia.

Vi è certamente la necessità di innalzare l'età pensionabile. La riforma Maroni la porta a 60 anni nel 2008 e a 62 nel 2014. Nel contributivo a regime, a partire quindi dai primi anni trenta, a 65 anni. Non vi è poi molta differenza con gli obiettivi posti dalle riforme tedesche, francesi e inglesi, che raggiungono gli obiettivi finali di innalzamento dell'età tra il 2020 e il 2040. Non vi è ragione di rendere più pesanti gli obiettivi, ma si tratta solo di razionalizzarli e di renderli meno punitivi per alcune generazioni. Non è chiaramente accettabile un incremento di tre anni dell'età pensionabile a partire dal 2008 e l'intervento va diluito nel tempo. Nel contributivo va ripristinata la flessibilità in uscita eliminata da Maroni, ma il problema andrebbe affrontato rivisitando il sistema misto, attualmente legato per l'età pensionabile al sistema retributivo.

Il ministero del Lavoro propone come strumento alternativo/integrativo per elevare l'età pensionabile l'introduzione di incentivi/disincentivi nel sistema retributivo e, si suppone, in quello misto (un'età pensionabile più bassa di quella prevista da Maroni con l'aggiunta di disincentivi e incentivi). Il punto è quali obiettivi si vogliono raggiungere. Se si vuole ottenere un innalzamento dell'età effettiva di pensionamento i disincentivi non possono essere lievi, se si vuole ottenere un risparmio di spesa gli incentivi non possono essere alti, esattamente il contrario di quanto spesso affermato dal ministro Damiano. Dare incentivi sostanziosi a 61/62 anni può far crescere nel medio periodo la spesa previdenziale, darli ad età superiore vuol dire premiare categorie che già oggi vanno in pensione ad età elevate (sopra i 65 anni si premierebbero gruppi ristretti che già godono di posizioni di privilegio, magistrati, professori universitari, dirigenti dello Stato, che non hanno bisogno di incentivi per ritardare il pensionamento). La fissazione dell'età neutra e del valore degli incentivi/disincentivi dipende da quali obiettivi si vogliono raggiungere e questo andrebbe specificato. Il sistema di disincentivi/incentivi deve poi essere armonizzato nel sistema misto con quello esistente nella parte contributiva della pensione.

L'innalzamento dell'età di pensionamento non può prescindere da una riforma degli ammortizzatori sociali e dalla soluzione del problema dei lavori usuranti. Cassa integrazione e mobilità sono stati gli strumenti usati dalle medie e grandi imprese per continuare a prepensionare di fatto molti lavoratori (il 25% almeno dei pensionati di anzianità secondo ricerche del ministero del Lavoro e dati Inps). L'innalzamento dell'età pensionabile rende più difficile l'operazione (cosa non necessariamente negativa nei confronti delle imprese) e corre il rischio di colpire i lavoratori ultracinquantenni considerati obsoleti dalle imprese. Vanno rafforzate le tutele per i lavoratori ultracinquantenni sia rendendone meno favorevole la sostituzione, sia rafforzando le politiche di reinserimento al lavoro, sia assicurando loro adeguati ammortizzatori sociali.

Per i lavori usuranti vanno superati il decreto legislativo 374/93 e la 335/95. In particolare va modificata la norma che pone a carico della singola categoria i costi delle agevolazioni per i lavoratori addetti a lavori usuranti. Questa norma, che stride con tutta l'impostazione solidaristica del sistema pensionistico pubblico, ha di fatto impedito fino ad oggi la soluzione del problema per i costi che graverebbero sulle singole categorie, in particolare per quelle più caratterizzate dalla presenza di lavori usuranti. Il costo delle agevolazioni per questo settore va posto a carico dell'intero sistema pensionistico e, ove necessario, dell'intera collettività nazionale, come del resto accade per alcuni lavori già considerati usuranti (polizia, esercito, miniere ad esempio). Le risorse potrebbero essere trovate nell'equiparazione tra l'aliquota di finanziamento contributivo, pari al 32,7%, e quella di computo, 33%. Equiparazione che dovrebbe, naturalmente, riguardare tutti i settori portando in un breve lasso di tempo gli autonomi al 20% e non al 19% come oggi previsto.

Resterebbe da affrontare la diversità di aliquote contributive esistenti che contribuisce a creare distorsioni nel mercato del lavoro e a rendere più competitive tipologie di lavoro diverse da quella di lavoro dipendente. La scelta di ridurre il cosiddetto cuneo fiscale attraverso l'Irap (ad oggi questa appare l'intenzione) esclude tuttavia una possibilità di intervento in questo ambito, salvo un incremento ancora non quantificato del contributo dei parasubordinati. Resta in piedi per il futuro il problema dell'adeguatezza delle pensioni considerando la prevista, per legge, progressiva riduzione dei coefficienti di trasformazione, in particolare, ma non solo, per le tipologie di lavoro debole e/o a bassa contribuzione.

La revisione decennale dei coefficienti è difficilmente eludibile, non solo perché prevista dalla legge 335, ma perché una sua non attuazione porterebbe ad un netto incremento delle previsioni di spesa e porrebbe, questo sì, problemi con l'Unione europea. Tuttavia le revisioni decennali, secondo le proiezioni effettuate dalla Ragioneria generale dello Stato nel suo ultimo rapporto, porteranno a tassi di sostituzione sensibilmente inferiori al 50% per i lavoratori regolari e a risultati drammatici per i lavoratori non regolari. E' difficile affermare in questa situazione che il sistema pensionistico italiano sia in grado di assicurare in futuro pensioni adeguate per buona parte dei lavoratori. La revisione decennale pone poi alcuni problemi concreti come la prevedibile fuga nei periodi precedenti la revisione e, per i lavoratori impossibilitati a pensionarsi, una sensibile riduzione della pensione per un prolungamento anche minimo dell'attività lavorativa dopo la revisione dei coefficienti. Una soluzione possibile, che può conciliare sia le esigenze di controllo della spesa che i problemi di adeguatezza, è quello di un sistema pro-quota con i "vecchi" coefficienti applicati ai periodi precedenti ogni revisione e i "nuovi" applicati alle anzianità successive.

Ai fini dell'adeguatezza va poi affrontato, in rapporto con le misure da adottare per il mercato del lavoro, il problema delle discontinuità di lavoro con i conseguenti buchi contributivi.

Altri nodi da affrontare ci sono nella previdenza complementare, ferma restando l'intenzione del governo di mantenerla come secondo pilastro accanto a quella pubblica. Il pubblico impiego è escluso dall'applicazione del decreto legislativo 252. Questo significa che ai lavoratori pubblici dal 2008 continueranno ad essere applicate le norme del Decreto legislativo 124 non più applicate ai lavoratori del settore privato, aggiungendo ulteriori diversità normative ad una situazione che già vede un conferimento del Tfr nel settore pubblico solo virtuale. Questa diversità dovrebbe essere eliminata prima del 2008.

La legge 252 ha profondamente modificato la tassazione delle prestazioni della previdenza complementare assoggettandole tutte, anche quelle in rendita, a tassazione separata con aliquota variante dal 9% al 15% per la rendita e le prestazioni in capitale a seconda degli anni di permanenza nei Fondi e dal 9% al 23% per anticipazioni e riscatti a seconda della tipologia degli stessi e a seconda degli anni di permanenza nei Fondi. Il vantaggio introdotto in termini di prestazioni nette è evidente. Con la normativa attuale la prestazione in rendita è sottoposta ad aliquota marginale Irpef superiore al 23%. Anche per le prestazioni in capitale il vantaggio sul Tfr è sensibile dato che l'aliquota di tassazione di quest'ultimo è del 23% fino ad importi pari a circa 120.000 euro. Basterebbe questo vantaggio fiscale per rendere conveniente l'adesione alla previdenza complementare, anche col semplice silenzio/assenso. La stessa proposta di Roberto Pizzuti di dare ai lavoratori la possibilità di dirottare il loro Tfr, in alternativa ai fondi pensioni, alla previdenza pubblica sarebbe perdente: la pensione pubblica "aggiuntiva" ottenibile con questi contributi sarebbe tassata al margine con aliquote del 23%, 33%, 39%, contro il 15% o meno della prestazione derivante dalla previdenza complementare.

Ed è proprio questo il problema: una cosa è creare una normativa anche fiscale di sostegno alla previdenza complementare, altro è rendere appetibile la previdenza complementare unicamente o principalmente grazie alle regole fiscali di favore. In questo modo si deresponsabilizzano i Fondi e i gestori e si crea una previdenza complementare che basa le sue prestazioni principalmente sull'aiuto dello Stato. L'introduzione di questa nuova normativa rende forte nella previdenza complementare il cosiddetto "rischio politico", assoggettando le prestazioni erogate a decisioni politiche. Mutamenti delle regole fiscali porterebbero a sensibili modifiche nelle prestazioni aggiungendo al "rischio mercati" un rischio politico che nella previdenza privata dovrebbe quantomeno essere limitato.

Questo tipo di tassazione, inoltre, non è neutrale rispetto al reddito ma favorisce in misura maggiore quanto più alto è il reddito già percepito (i percettori di reddito superiore ai 26.000, 33.000 e 100.000 euro passerebbero da aliquote marginali rispettivamente del 23%, del 33% e del 39% ad una aliquota del 15% o inferiore), accentuando, quindi, il limite già presente nella attuale normativa non orientata a favorire tramite gli incentivi fiscali sulla contribuzione i redditi bassi a cui più sarebbero necessari. Sotto questo aspetto, inoltre, è una normativa che reca vantaggi soprattutto ai potenziali iscritti ai Fondi aperti e alle polizze individuali, generalmente dotati di redditi più alti di quelli medi dei lavoratori dipendenti.

In ogni caso prima dell'entrata in vigore della 252 il governo, vista l'opinione negativa espressa sulla nuova normativa dai collaboratori di Visco, dovrebbe esplicitare le sue intenzioni in materia dato che sarebbe inaccettabile procedere ad una campagna di adesioni alla previdenza complementare non avendo certezza sulla normativa fiscale.
Venerdì, 15. Settembre 2006
 

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