Pensioni, i problemi nascosti sotto il tappeto

Il prossimo governo si troverà alle prese con una serie di problemi che sono stati finora accantonati, ma che non sono eludibili. A cominciare da quello dei lavoratori "flessibili", che avranno vitalizi sotto la soglia di povertà
L'ultima furbata governativa consegna al prossimo governo una non facile decisione in merito al sistema previdenziale pubblico e integrativo.

Nel 2008 dovrebbe entrare in vigore la riforma del sistema pensionistico pubblico con l'innalzamento del requisito anagrafico delle pensioni di anzianità e dovrebbe entrare in vigore la riforma della previdenza complementare appena approvata dal Consiglio dei ministri. A questo si può aggiungere la, probabile, mancata revisione dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo in rendita prevista per quest'anno dalla legge 335/1995.

Il prossimo governo, in particolare se dell'Unione, dovrà decidere cosa fare in merito.
In particolare dovrà decidere se confermare l'innalzamento dell'età di pensionamento di anzianità e la pratica eliminazione della flessibilità in uscita nel sistema contributivo, dovrà decidere se confermare il silenzio-assenso, i limiti alla portabilità del contributo datoriale e la prevista tassazione separata della pensione complementare, dovrà decidere se aggiornare o meno i coefficienti di trasformazione.

Quest'ultima misura non ha effetti immediati, ma la mancata revisione potrebbe produrre problemi con l'Unione europea. Il governo attuale ha infatti venduto bene la riforma della previdenza obbligatoria a Bruxelles indicandone gli effetti in una diminuzione della cosiddetta "gobba". Ma questa diminuzione ingloba la revisione dei coefficienti: una loro mancata revisione comporterebbe un innalzamento non irrilevante (superiore a 1 punto di Pil) delle previsioni di spesa. Sarebbe certamente più difficile per il prossimo governo trattare con Bruxelles per i tempi di rientro dal deficit annuo.

E' una ragione questa che rende anche difficile pensare alla possibilità di tornare indietro rispetto all'innalzamento dell'età pensionabile per l'anzianità (soprattutto se unita all'opinione espressa da una parte degli esperti unionisti di un anticipo temporale dell'innalzamento stesso). Andrebbe invece ripristinata la flessibilità di uscita prevista in precedenza dal sistema contributivo, anche se, per le ragioni espresse, è molto difficile pensare di poter tornare a un intervallo pensionistico tra i 57 e i 65 anni. Naturalmente in campagna elettorale si può dire (quasi) di tutto, ma bisogna vedere quanto si è credibili e quanto, soprattutto, si è in grado di mantenere considerando i vincoli europei.

Una riflessione complessiva andrebbe fatta sulla capacità del nostro sistema pensionistico di assicurare in futuro pensioni adeguate, secondo la terminologia europea, a tutte le tipologie di lavoratori assicurati tra sistema pubblico obbligatorio e sistema integrativo così come delineati dal processo di riforma.

La diminuzione dei tassi di sostituzione per le giovani generazioni è stata operata dalla riforma Amato del 1992 con l'estensione a tutta la vita lavorativa del calcolo della retribuzione pensionabile. Questo taglio di rendimenti è stato confermato con il sistema contributivo introdotto dal 1996: nel contributivo a regime il lavoratore dipendente regolare, con carriera cioè continua e retribuzione sostenuta dai contratti collettivi, dovrebbe percepire a 62 di età una pensione una pensione tra il 50 e il 60% dell'ultima retribuzione a seconda degli anni di contribuzione (35 o 40). Si tratta di tassi di sostituzione che possono variare anche sensibilmente, in più o in meno, a seconda della dinamica di carriera, ma che ci danno un'indicazione di massima dei rendimenti attesi nel futuro. La possibilità di tornare a tassi di sostituzione simili a quelli attuali è data, per questi lavoratori, dalla previdenza complementare scontando la perdita/trasformazione del Tfr.

Questo schema, tuttavia, non funziona per i soggetti diversi dai dipendenti regolari. Il limite maggiore del processo di riforma è stato quello di essere modellato sulla figura del lavoratore tipo in un momento in cui il mercato del lavoro opera una differenziazione sempre maggiore nelle tipologie di lavoratori aumentando le differenze tra settori protetti e settori non protetti.

Per i lavoratori con carriere lavorative/contributive discontinue e irregolari il calcolo della pensione comunque esteso a tutta la vita lavorativa comporterà tassi di sostituzione sensibilmente bassi. Se a questo si aggiunge un'aliquota contributiva sensibilmente più bassa del 33% dei dipendenti, ne deriva come conseguenza tassi di sostituzione inferiori al 30% anche con età di pensionamento a 65 anni.

Non si tratta solo dei parasubordinati, ma anche degli associati in partecipazione, di molti dei titolari di partita Iva, di molti lavoratori autonomi marginali, di lavoratori dipendenti con continui contratti a tempo determinato. Si tratta di un mix di figure che tende, secondo alcuni studiosi, a stabilizzarsi nel numero e di situazioni di lavoro che tendono a perpetuarsi negli stessi soggetti nel tempo, anziché configurarsi come situazioni di lavoro transitorie.

Se si considera che nel sistema contributivo è stata eliminata l'integrazione al minimo, si configura per questi soggetti una pensione pubblica sotto i livelli di povertà.

La risposta a questa situazione non può derivare dalla previdenza integrativa, data la mancanza del Tfr per buona parte di questi lavoratori e, comunque, la limitata disponibilità di risorse a disposizione per finanziare il ricorso alla previdenza integrativa. Inoltre il sistema fiscale incentivante sui contributi favorisce i redditi alti e medi e non aiuta minimamente i redditi bassi, spesso addirittura incapienti. Queste figure di lavoratori insomma avranno una bassa pensione pubblica e non potranno tutelarsi con la previdenza integrativa.

Abbiamo, quindi, un sistema pensionistico che non risponde in modo adeguato alle diverse tipologie di lavoratori presenti nel mercato del lavoro. Vi è, inoltre, un secondo aspetto negativo nel rapporto tra il sistema pensionistico e quello del mercato del lavoro, quello derivante dalla forte differenziazione esistente nelle aliquote contributive.
E' difficile immaginare che un imprenditore non colga la possibilità di risparmiare sul costo del lavoro offertagli dalle differenti aliquote contributive a seconda della tipologia di lavoro (ma anche alle diverse aliquote contributive esistenti tra anziani e giovani ad esempio). Questa difformità alimenta ed aumenta la frammentazione esistente nel mercato del lavoro e rende difficile se non impossibile limitare la presenza di tipologie di lavoro "precarie".

Abbiamo, quindi, due problemi, quello di ridurre/eliminare la diversità di aliquote contributive e quello di assicurare pensioni adeguate ai lavoratori non regolari.
Per Fernando Di Nicola (vedi) la risposta a questi due problemi si può dare portando le aliquote contributive dei  parasubordinati al 32,7%, come per i dipendenti, e al 25% per i lavoratori autonomi considerando la diversa base contributiva. Dubito che questo risolverebbe il problema della differenziazione nel mercato del lavoro. A mio avviso costituirebbe una spinta ulteriore al sommerso e provocherebbe una rivalsa dei datori di lavoro sui parasubordinati in termini di retribuzione.
 
Se efficace e non marginale, l'intervento assistenziale previsto da Di Nicola per coprire figurativamente periodi di non contribuzione non dovrebbe avere un costo contenuto, ma su questo bisognerebbe fare qualche calcolo non a naso. Rimarrebbe comunque il nodo della previdenza completare sia negli aspetti della sua forma rispetto ai dipendenti regolari, sia rispetto alla concreta possibilità di accesso da parte dei "precari".

Sarebbe forse necessario essere più audaci riducendo il legame tra carriera lavorativa e importo della pensione, introducendo una pensione di base e rimodellando le aliquote contributive.

In questo quadro potrebbe/dovrebbe essere ridiscusso il tema della previdenza complementare.

 
Giovedì, 8. Dicembre 2005
 

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