Pensioni: in Europa quel che già abbiamo fatto

Sostenibilità finanziaria e processo d’invecchiamento non giustificano le misure del governo. Quel che fanno in Francia e Germania e Gran Bretagna. Le bugie sulla “gobba”. La drastica e progressiva riduzione del valore delle pensioni.

La riforma pensionistica proposta dal governo non cerca e non trova le sue motivazioni principali nelle presunte anomalie e nei problemi di sostenibilità finanziaria che strumentalmente vengono attribuiti al sistema attuale; né il pur innegabile processo d’invecchiamento demografico giustifica le recenti misure presentate per le pensioni d’anzianità. Gli obiettivi del governo travalicano il sistema previdenziale; essi sono funzionali alle finalità di ridurre il costo del lavoro e di fare cassa per cercare di compensare gli effetti di una politica di bilancio deficitaria.

Dai commentatori vicini alle posizioni governative o da quanti comunque condividono la necessità di un nuovo e significativo intervento in campo previdenziale viene spesso sostenuto che, mentre in alcuni Paesi europei si starebbero facendo riforme per adeguare i sistemi pensionistici all’evoluzione demografica e alle esigenze macroeconomiche, nel nostro Paese non si riuscirebbe ad andare oltre i dibattiti per gli ostacoli frapposti dai sindacati e dalle opposizioni, entrambi animati da conservatorismo e contrarietà alle riforme. In realtà, gli interventi decisi di recente o anche solo in discussione in altri Paesi spesso equivalgono a quelli che – con maggiore organicità e completezza - in Italia sono già stati adottati nel corso del passato decennio; in altri casi, sulla base di esperienze fatte, ci si avvia verso scelte che contraddicono quelle proposte per il nostro Paese.

Ad esempio, in Francia, anche dopo la recente riforma varata nell’estate scorsa, l’età di pensionamento rimane fissata a 60 anni per uomini e donne e per diverse e numerose categorie di lavoratori il limite scende anche a 55 e a 50 anni; per i dipendenti pubblici il calcolo della pensione viene fatto in base alle retribuzioni percepite negli ultimi sei mesi. In Germania, la gran parte dei risparmi finanziari che si vogliono ottenere con la riforma attualmente in discussione sarebbe ottenuta riducendo l’indicizzazione delle pensioni, ma mantenendo ancora il loro legame con la crescita reale delle retribuzioni; dunque verrebbero adottati criteri ancora molto più vantaggiosi di quanto avviene in Italia dal 1992, cioè da quando è stato abolito del tutto il collegamento delle pensioni all’andamento della dinamica retributiva. In Gran Bretagna, nei progetti di riforma attualmente in discussione si sta pensando, tra l’altro, di abolire l’obbligatorietà del pensionamento che oggi è fissato a 60 anni per i dipendenti pubblici e a 65 anni per i dipendenti privati. L’esperienza fatta in quel Paese, con i negativi effetti del passaggio di molti lavoratori dalla previdenza pubblica a quella privata, sta ora spingendo alla creazione di nuovi istituti che assicurino le prestazioni pensionistiche dai sempre più ricorrenti fallimenti di aziende e di fondi pensione che mettono a repentaglio la sicurezza delle prestazioni pensionistiche.

Per chiarire la questione della sostenibilità finanziaria del nostro sistema pensionistico e della sua presunta anomalia è opportuno richiamare, anche se sinteticamente, alcuni dati. La spesa pensionistica rapportata al Pil, che nel 1997 aveva raggiunto il valore massimo del 13,9%, a seguito delle riforme degli anni ’90, è andata diminuendo fino al 13,5% registrato sia nel 2000 che nel 2001; nel 2002, dopo alcuni provvedimenti decisi dal governo in carica e anche per effetto della bassa crescita del Pil, il rapporto è risalito al 13,8%.

La verifica dei risultati delle riforme degli anni ’90, effettuata dall’attuale governo, ha stabilito che i risparmi di spesa sono e saranno superiori a quelli previsti: del 10% (pari a 2,87 miliardi di euro) per il periodo 1996-2000 e del 17% (7,92 miliardi di euro) nel periodo 2001-2005. Le analisi comparative, svolte su basi statistiche omogenee, smentiscono una anomala superiorità della spesa pensionistica italiana rispetto a quella media europea. Infatti, a fronte della nostra maggiore spesa di 3,4 punti di Pil segnalata dall’Eurostat, va considerato che il dato italiano è relativamente sovraccaricato: dall’indebito inserimento del Tfr (pari a circa 1,4 punti); dall’inclusione delle trattenute fiscali sulle pensioni (pari a circa 2 punti di Pil) che negli altri Paesi o non esistono affatto (Germania) o sono di gran lunga inferiori; dall’inserimento nella voce pensionistica di misure (come i prepensionamenti) che in altri Paesi sono contabilizzate tra gli ammortizzatori sociali.

Il saldo tra le prestazioni pensionistiche previdenziali e i corrispondenti contributi sociali è negativo per una somma pari a circa lo 0,9% del Pil. Ma tenendo conto delle trattenute Irpef operate sulle pensioni, per il bilancio pubblico le uscite effettive sono inferiori alle entrate per una somma pari a circa 1,1 punti di Pil. Dunque il bilancio pubblico ricava benefici e non oneri dal funzionamento del sistema pensionistico pubblico. Prima delle riforme degli anni ’90, le previsioni per il prossimo mezzo secolo segnalavano che il rapporto tra spesa pensionistica e Pil sarebbe salito fino al 23%. Dopo le riforme, nella proiezione della Ragioneria Generale dello Stato che segnala la cosi detta “gobba”, il valore massimo previsto è di circa il 16%.

Dallo studio comparativo effettuato dal Comitato per la Politica economica della Commissione europea, quell’aumento previsto per l’Italia è pari solo ai due terzi di quello previsto per la media dei Paesi dell’Unione. Dunque, pur adottando la proiezione di spesa che prevede la “gobba, la dinamica italiana è la migliore in Europa. Tuttavia, la riduzione del grado di copertura pensionistica, derivante dal progressivo dispiegarsi delle riforme degli anni ’90 e il contemporaneo stimolo, esercitato dal sistema contributivo, a ritardare l’età di pensionamento, tenderanno ad abbassare il profilo temporale della spesa pensionistica.

D’altra parte, con l’espansione delle nuove figure di lavoratori “atipici”, matureranno pensioni sensibilmente più basse che ridurranno la dinamica del valore medio delle pensioni. Tenendo conto di queste circostanze, l’ampiezza della “gobba” si dimezza. Se poi si considerasse anche la possibilità che la crescita media annua del Pil nel prossimo mezzo secolo sia del 2%, cioè 0,5 in più rispetto a quella considerata nella previsione della Ragioneria, la “gobba” sparirebbe del tutto.

Un sistema pensionistico, oltre che per la sua sostenibilità finanziaria, deve essere valutato anche per la capacità di corrispondere alla sua ragion d’essere, cioè di fornire un’adeguata copertura di reddito ai lavoratori nella vecchiaia. Anche a questo riguardo è utile richiamare alcuni dati. Prima delle riforme degli anni ’90, indipendentemente dall’età, un lavoratore dipendente con 35 anni di anzianità contributiva, maturava una pensione pari al 67% o al 77% dell’ultima retribuzione, rispettivamente se impiegato nel settore privato o in quello pubblico. Nel sistema contributivo a regime, tenendo conto del previsto adeguamento del metodo di calcolo all’aumento atteso della vita media, un lavoratore dipendente (indifferentemente se impiegato nel settore pubblico o nel privato) che andrà in pensione con 35 anni di contributi a 60 anni di età, avrà una pensione pari al 48,5% dell’ultima retribuzione. Nell’ipotesi massima di 40 anni d’anzianità e 65 anni d’età, il tasso di sostituzione salirà al 64%. Per un lavoratore parasubordinato, nelle due combinazioni di pensionamento prima esemplificate, il tasso di sostituzione sarà, rispettivamente, di quasi il 30% e il 39%. L’eliminazione dell’indicizzazione delle pensioni all’andamento reale delle retribuzioni introdotta nel 1992 fa si che la distanza tra il reddito di un pensionato e quello medio dei lavoratori aumenta progressivamente nel periodo di pensionamento. Immaginando un aumento medio annuo delle retribuzioni pari al 2%, il valore di una pensione che fosse inizialmente pari al 60% della retribuzione media dei dipendenti, dopo venti anni sarebbe pari al 41%. Qualunque sia lo scenario previsivo adottato per le proiezioni de rapporto tra spesa pensionistica e Pil: in ogni caso il valore relativo delle pensioni rispetto a tutti gli altri redditi diminuisce drasticamente.

Possiamo adesso esaminare la riforma proposta dal governo. I suoi aspetti più strutturali sono costituiti dalla riduzione degli oneri contributivi attualmente a carico delle imprese e dal dirottamento del flusso di risparmio che oggi alimenta il trattamento di fine rapporto (Tfr) verso il finanziamento della previdenza privata a capitalizzazione. Entrambi i provvedimenti erano già inclusi nel disegno di legge delega presentato all’inizio della legislatura; con il recente emendamento sono stati aggiunte le misure che, dal 2008, sostanzialmente eliminano le pensioni di anzianità aumentando di cinque anni l’età di pensionamento.

La decontribuzione degli oneri pensionistici a carico delle imprese, pur avendo effetti anche significativi sul sistema pensionistico, è motivata dall’obiettivo primario di abbassare il costo del lavoro. Questo obiettivo costituisce l’asse portante di una impostazione di politica economica che privilegia la competitività di prezzo rispetto a quella di qualità la quale, invece, richiederebbe continui ed elevati investimenti in ricerca ed innovazione. Venuta meno con l’euro la possibilità delle svalutazioni competitive, la ricerca della competitività limitata al contenimento dei costi si concentra adesso sulla riduzione degli oneri salariali.

Questa politica, oltre a suscitare disagi sociali, accentua l’insufficienza della domanda interna e aggrava il declino qualitativo della nostra capacità produttiva che viene declassata a dover competere con quella delle economie Per il sistema pensionistico, se la decontribuzione avrà effetti attuarialmente corrispondenti sull’ammontare delle prestazioni, queste ultime si ridurranno di un ulteriore 17% rispetto ai livelli di copertura sopra ricordati.

Se invece i minori contributi versati dalle imprese verranno compensati dalla fiscalità generale, l’equilibrio attuariale del sistema pensionistico risulterà consistentemente alterato e per il bilancio pubblico si determinerà un peggioramento strutturale. In ogni caso, per le casse della pubblica amministrazione ci sarà una progressiva riduzione delle entrate la cui dimensione annua arriverà in breve tempo allo 0,8 % del Pil.

Venendo al secondo aspetto strutturale della riforma, il trasferimento del Tfr ai fondi pensioni privati implicherà per questi ultimi la gestione di risorse finanziarie che in sette anni arriveranno ad essere pari a circa 100 miliardi di euro. Si avrà dunque un consistente sviluppo di nuovi investitori istituzionali. Tuttavia, dato il numero strutturalmente scarso di nostre imprese quotate in Borsa, già oggi, le risorse relativamente esigue gestite dai fondi pensione esistenti (circa 4 miliardi di euro) vengono impiegate solo per il 3,6% in titoli azionari di imprese nazionali.

Lo sviluppo che si prospetta per i fondi pensione, che ha carattere sostitutivo e non integrativo, sottrarrà alla attuale disponibilità dei lavoratori e delle imprese il salario differito accantonato per il Tfr e lo trasferirà all’estero per una quota superiore a quella attuale, senza poter sperare in fenomeni di reciprocità. Per quanto riguarda la funzionalità del sistema pensionistico, la consistente sostituzione della previdenza pubblica a ripartizione con quella a capitalizzazione farà aumentare i costi di gestione e trasferirà anche sui redditi da pensione la accresciuta instabilità dei mercati finanziari mondiali.

A titolo esemplificativo, va tenuto presente che negli USA, nel periodo 1981-2000, il rendimento dei fondi pensione ha superato il tasso di crescita del Pil; ma dopo il 1995 l’esito del confronto si è invertito e negli ultimi anni i rendimenti dei fondi sono diventati fortemente negativi Nel triennio 2000-2003, l’insieme dei fondi pensioni operanti in tutti i Paesi sviluppati hanno subito una riduzione patrimoniale del 20% , per un ammontare di perdite pari a 1400 miliardi di dollari. In Italia, nel biennio 2001-02, i fondi pensione di categoria hanno subito perdite del 3,9% mentre i fondi pensione aperti a tutti hanno subito perdite del 18%.

Dal punto di visto della crescita economica, lo sviluppo sostitutivo della previdenza a capitalizzazione aumenterà i già preoccupanti problemi di finanziamento esistenti sia per i consumi dei lavoratori, sia per il nostro sistema produttivo. Si accresceranno dunque i problemi di domanda che sono alla base della nostra stagnazione economica. L’obiettivo di migliorare strutturalmente la sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico è stato molto sottolineato dal governo nel recentissimo dibattito che ha accompagnato i provvedimenti aggiuntivi al disegno di legge iniziale. La motivazione centrale delle nuove misure sarebbe costituita dagli effetti dell’invecchiamento demografico.

Non v’è dubbio che l’invecchiamento della popolazione sia un problema reale, che, per il settore pensionistico, si traduce in maggiori problemi finanziari. L’invecchiamento demografico rende più oneroso, per la quota decrescente della popolazione in età attiva, finanziare le pensioni del maggior numero di anziani. Tuttavia, fino a quando permangono gli attuali elevati tassi di disoccupazione, e fino a quando le imprese cercano di liberarsi di lavoratori anche solo cinquantenni, diventa inutile preoccuparsi della riduzione relativa della popolazione in età attiva, ed è anche contraddittorio cercare di aumentare l’età di pensionamento.

Si aggiunga che nel nostro Paese, poiché non esistono adeguati sussidi per la disoccupazione, è proprio con le pensioni che, erroneamente, si cerca di sostenere il reddito dei disoccupati ultracinquantenni. In prospettiva, gli effetti economici dell’aumento del rapporto tra anziani e giovani va contrastato con l’aumento dei tassi di attività e d’occupazione, con politiche innovative miranti ad aumentare la produttività e favorendo un ordinato inserimento di lavoratori stranieri nel nostro sistema produttivo e sociale. L’aumento dell’età di pensionamento è una questione da affrontare in una più complessiva riorganizzazione del tempo di vita che consideri anche il tempo d’istruzione e di formazione, oltre che, naturalmente, il tempo di lavoro e il tempo libero.

Va tuttavia considerato che l’applicazione del metodo contributivo, riducendo il grado medio di copertura pensionistica e premiando attuarialmente chi va in pensione in età più elevata, sta già innescando una tendenza spontanea a prolungare la vita attiva. Lo slittamento forzoso a 40 anni dell’anzianità contributiva e a 60 (donne) o 65 (uomini) anni dell’età per il pensionamento a partire dal 2008 non può essere accreditato – come il governo sostiene - della capacità di generare futuri ingenti risparmi di spesa, pari ad un punto di Pil, perché la tendenza spontanea va già in quella direzione.

In realtà, l’obbiettivo di questa misura sembra esaurirsi nel poterla esibire alla Commissione europea come una pretesa “riforma strutturale” e ottenere in cambio l’approvazione di un bilancio pubblico infarcito di condoni e cartolarizzazioni. Coerentemente allo filosofia di molte altre misure di politica economica già prese, il governo cerca di anticipare al presente benefici finanziari derivanti da possibili eventi futuri che, in questo caso, dovranno essere applicati (con evidenti oneri politici) dal governo in carica nella prossima legislatura. Non solo la decontribuzione implicherà un aggravio strutturale per il bilancio pubblico, ma anche gli incentivi a rimanere a lavoro nel periodo 2004-2008 si tradurranno in un aumento delle uscite per quanto riguarda i dipendenti pubblici. E’ per questo che i dipendenti pubblici sono esclusi almeno da un’applicazione immediata del provvedimento, nonostante la evidente incostituzionalità della discriminazione.  Felice Roberto Pizzuti   Stato Sociale 26/11/2003 19.05.00 26/11/2003 19.05.00
Il futuro delle pensioni  “Eguaglianza & Libertà”, la rivista on line di critica sociale, promossa da Pierre Carniti e Antonio Lettieri, ha organizzato un incontro per discutere del tema: “Il futuro delle pensioni”.

Tale incontro avrà luogo martedì due dicembre a Roma, nell’aula del Parlamentino del Cnel, in viale Lubin 2.

E’ assicurata la partecipazione dei tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil: Luigi Angeletti, Guglielmo Epifani, Savino Pezzotta e, inoltre, di due dirigenti politici, Pier Luigi Bersani per i Democratici di sinistra ed Enrico Letta per la Margherita.

La discussione avrà inizio alle ore dieci, mentre le conclusioni sono previste per le ore 14. 

Mercoledì, 26. Novembre 2003
 

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