Pensioni complementari: paghi due e prendi uno

Dieci anni di diete dimagranti per la previdenza pubblica ed ora un nuovo assalto, motivato da dati che divergono a seconda dei centri d’elaborazione. Le esperienze negative dei fondi obbligatori come quelli ipotizzati dal governo.

A partire dagli inizi degli anni ’90 il sistema di previdenza pubblica viene ripetutamente sottoposto a diete dimagranti. Le diete, che si fanno via via sempre più drastiche, vengono impropriamente chiamate “riforme”. Impropriamente, perché per “riforma” si dovrebbe intendere: il mutare più o meno profondo di un assetto, di un’istituzione, di una struttura, “ai fini di migliorarla”. In realtà gli interventi che si sono susseguiti nell’ultimo decennio ed a cui il governo Berlusconi, per fare “buon peso” vorrebbe ora aggiungere il suo, hanno avuto lo scopo di modificare “in peggio” l’ordinamento della previdenza pubblica. Naturalmente non è che mancassero delle ragioni. Le speranze di vita degli italiani si sono fortunatamente allungate. Questo fatto positivo implicava, però, anche una conseguenza negativa. Anzi due. Primo, un peggioramento del rapporto tra “attivi” (che contribuiscono) e “pensionati” (che invece percepiscono). Secondo, un tendenziale aumento del peso della spesa previdenziale rispetto al Pil. Al problema reale, derivante dall’evoluzione demografica, si poteva rispondere in due modi: ridurre il valore medio delle pensioni rispetto ai salari (peggiorando cioè quello che gli esperti chiamano il “tasso di sostituzione”), allungare l’età pensionabile. A voler essere pignoli ci poteva essere anche una terza soluzione: aumentare i contributi previdenziali. Ma, ad onore del vero, bisogna dire che quest’ipotetica terza soluzione non è mai stata formulata, o presa in considerazione, da nessuno. Per non sbagliare, gli altri due modi sono stati invece adottati entrambi. La dinamica delle pensioni è stata, infatti, ridotta, intervenendo sul meccanismo d’indicizzazione; l’età per la pensione di vecchiaia, che in precedenza era di 55 anni per le donne e di 60 per gli uomini, è stata elevata, rispettivamente a 60 e 65 anni. Contemporaneamente è stata anche aumentata l’età anagrafica per accedere alla pensione d’anzianità. Nessun Paese europeo aveva adottato prima (e nemmeno dopo) misure tanto drastiche. Tuttavia erano sembrate misure in qualche modo necessarie, tenuto conto che il tasso d’invecchiamento della popolazione italiana risultava più accelerato rispetto a quello degli altri Paesi europei. Il governo Berlusconi torna ora all’assalto delle pensioni, sostenendo che la spesa pensionistica, rispetto al Pil, continuerebbe ad essere fuori linea in rapporto alla media europea. Considerato che le persone anziane in Italia costituiscono, appunto, una percentuale maggiore rispetto a quella d’altri Paesi, non ci dovrebbe essere nulla di sorprendente se questo fatto risultasse confermato. Tuttavia, sui dati di spesa c’è controversia ed alcuni hanno persino la sgradevole sensazione che essi costituiscano un semplice pretesto per fare il gioco delle “tre carte” a danno dei pensionati.

A voler essere benevoli, bisogna riconoscere che sui dati c’è perlomeno una grande confusione. Ad intorbidire l’informazione contribuisce notevolmente la permanente commistione tra spesa previdenziale e spesa assistenziale. Così, a seconda dei centri d’elaborazione e degli aggregati presi in considerazione, le cifre di spesa variano considerevolmente. Ed in effetti, anche prendendo in considerazione i soli i dati forniti dalle istituzioni pubbliche è difficile raccapezzarsi e farsi un’idea precisa dei reali termini della situazione. Infatti: secondo l’Istat la spesa sarebbe pari al 14,9 del Pil. Il dato include: le rendite infortunistiche, le pensioni di guerra, le pensioni d’invalidità non collegate ad alcuna forma di contribuzione, le indennità d’accompagnamento, le pensioni sociali senza contributi. Nei conti della Pubblica amministrazione, contenuti nella relazione generale sulla situazione economica del Paese, sempre l’Istat calcola però nel 14,3 per cento il costo delle pensioni e delle rendite (comprese quelle infortunistiche). Invece, per Eurostat la spesa per la “Funzione vecchiaia” è pari al 15,6 cento del Pil e comprende: le pensioni d’invalidità, il Tfr, le prestazioni in natura (?), le pensioni private, le rendite infortunistiche e le pensioni di guerra ai superstiti. Mentre per la Ragioneria Generale dello Stato, le pensioni d’invalidità, vecchiaia e superstiti, comporterebbero una spesa pari al 14,1 per cento del Pil. Infine, per il Nucleo di Valutazione della Spesa Pensionistica (istituito nel 1995 e composto da 15 esperti nominati dal Ministero del Lavoro, con il compito di monitorare la spesa previdenziale), la spesa pensionistica, al netto di quella assistenziale, si collocherebbe all’11,6 per cento del Pil. Come si può vedere gli scostamenti sono piuttosto rilevanti, considerato che per ogni punto in più o meno ballano circa 25 mila miliardi delle vecchie lire. Per di più non è affatto pacifico che la spesa assistenziale sia riferibile solo a particolari categorie di prestazione e non debbano invece essere considerati tali anche i disavanzi d’esercizio di alcuni fondi (a cominciare dai coltivatori diretti, per finire ai dirigenti d’azienda) fatti confluire nell’Inps, con decisione politica e per motivazioni politiche. In ogni caso, di che cosa stiano parlando quanti sostengono che la spesa pensionistica italiana debba essere ulteriormente tagliata, per mettere l’Italia in linea con il resto dei paesi europei, non è affatto chiaro. Non fosse altro perché il raffronto tra dati disomogenei non consente di comparare un bel nulla. Appare quindi piuttosto evidente che dietro il proposito di tosare periodicamente le pensioni pubbliche non ci sono solo fattori oggettivi (come le dinamiche demografiche) e nemmeno solo veri (o presunti) vincoli tecnico-finanziari, ma c’è dell’altro. Ci sono anche motivazioni politico-ideologiche. In particolare, c’è l’idea liberal thatcheriana (declinata in versione più ragionevole o più radicale, secondo la diversa cultura politica d’appartenenza) che sia desiderabile ridurre l’ambito delle decisioni collettive e dell’intervento normativo dello Stato e massimizzare l’ambito delle decisioni private.

Non a caso, orientandosi su questa stella polare, gli interventi sulle pensioni pubbliche sono stati accompagnati dall’avvio di un processo di “privatizzazione” della previdenza. Evoluzione che per alcuni, Confindustria in testa, presentava anche il non piccolo merito di promettere e di permettere una parallela diminuzione dei contributi previdenziali a carico delle imprese, consentendo, per questa via, un “miglioramento della competitività del sistema produttivo”. Diversi storici della società italiana ritengono che la costanza non sia mai stato il requisito principale degli italiani. Bisogna però riconoscere che almeno negli errori e nelle cattive abitudini riusciamo ad essere particolarmente tenaci. Infatti, nell’ultimo quarto del secolo scorso, la politica più praticata per “recuperare competitività” è stata quella delle svalutazioni. Oggi che quella strada è sbarrata (perché, per nostra fortuna, la moneta non è più nazionale), anziché sull’aumento di produzioni a più alto contenuto tecnologico ed a più alto valore aggiunto, si scommette tutto sulla riduzione del costo del lavoro. Evidentemente restiamo un Paese con un’idea singolare della “competizione". Nel senso che competere con chi ci sta davanti non sembra essere il nostro forte, e quindi preferiamo competere solo con quanti ci stanno dietro.

Nella campagna per affiancare alla previdenza pubblica (in contrazione) una previdenza privata a capitalizzazione (in espansione) sono stati utilizzati anche alcuni argomenti di contorno che meritano qualche considerazione critica. Si è, ad esempio, insistito parecchio sul fatto che la costituzione dei “fondi integrativi”, avrebbe finalmente consentito l’ammodernamento e l’allargamento della strumentazione finanziaria disponibile. Così che l’economia italiana, per il suo sviluppo, non avrebbe più dovuto dipendere soltanto dalla discrezionalità “usuraia” delle banche. Le cronache degli ultimi tempi, che hanno riferito di numerosi episodi in cui i “mercati finanziari” assomigliano a bische ed i “finanzieri” a biscazzieri, sembrano però avere consigliato maggiore circospezione su questo aspetto, che è perciò stato allontanato dal proscenio. Ma il punto, per così dire, di forza della “propaganda” a favore della previdenza “privata” è consistito nell’affermazione che essa avrebbe “garantito” rendimenti migliori di quella “pubblica”. A conferma, veniva fatto notare che molti americani anziani, proprio grazie ai fondi pensione, potevano permettersi di godere la loro pensione al sole della Florida, anziché nell’umidità di Detroit o tra i fumi di Pittsburg, dove erano stati costretti a passare la loro vita lavorativa. Si deve supporre che questa immagine solare fosse funzionale ad incoraggiare anche qualche Co.co.co. di casa nostra a non immalinconirsi nelle tribolazioni con il lavoro, coltivando, grazie alla prospettiva della previdenza complementare, il sogno di una piacevole vecchiaia. Da passare magari a Capri, come Tiberio. Da sempre, purtroppo, la “propaganda” non è altro che l’arte di creare “bugie intere da mezze verità”. E la previdenza privata non poteva certo costituire un’eccezione alla regola.

In realtà, la previdenza privata (o complementare, che dir si voglia) ha il non piccolo inconveniente di rivelarsi più costosa e più rischiosa della previdenza pubblica. Per motivare questa affermazione dovrebbero bastare pochi dati e poche considerazioni.

1. Com’è noto, la previdenza complementare si articola in: Fondi negoziali (operativi sono 34, di cui 6 per i lavoratori autonomi e 28 per i lavoratori dipendenti i quali costituiscono ben il 90 per cento dei 1.050.000 iscritti complessivi); Fondi aperti (95 autorizzati all’attività, con 311.000 iscritti a fine giungo 2002; di questi il 13,5 per cento sono lavoratori dipendenti, per i quali non operano fondi contrattuali); Forme pensionistiche individuali, attuate mediante polizze d’assicurazione (a fine giugno 2002 erano 295.000)

2. Sul totale dei contributi versati ai fondi negoziali il Tfr incide mediamente per il 50 per cento e sale al 70 per cento per i lavoratori assunti dopo l’aprile 1993.

3. Poiché in base alla delega (che il governo si accinge a presentare in Parlamento) il conferimento del Tfr nel Fondi diventerà obbligatorio per tutti i lavoratori, è utile fare un raffronto tra tasso di rendimento del Tfr e quello dei fondi pensione. Ebbene, nel 2001, il rendimento generale lordo degli otto fondi negoziali che hanno conferito le risorse in gestione è stato negativo (meno 0,8 per cento, ridotto a meno 0,5 per cento grazie al credito d’imposta riconosciuto dall’erario per il risultato di gestione negativo). Nello stesso anno il Tfr accantonato ha avuto invece un rendimento positivo pari 3,2 per cento. Ancora peggiore è il confronto tra il rendimento dei Fondi con il tasso di rivalutazione dei contributi accantonati nel sistema contributivo obbligatorio, che è stato pari al 4,78 per cento. La morale che questi dati suggeriscono è che sarebbe assai meglio lasciare il Tfr dov’è oggi e, semmai utilizzarlo per aumentare i contributi all’Inps.

4. Per i fondi aperti la gestione nel 2001 è stata ancor più negativa. Essi hanno infatti registrato una perdita del 5,6 per cento del capitale investito, risultato del maggior peso della componente azionaria rispetto ai fondi contrattuali.

5. Per quanto riguarda le forme pensionistiche individuali (polizze emesse da 63 diverse compagnie d’assicurazioni, utilizzando una notevole varietà di schemi contrattuali) basterà dire che i costi medi che gravano sull’assicurato sono pari al 23,5 per cento dell’intero ammontare dei suoi versamenti del primo anno. L’elevata penalizzazione pagata all’entrata viene giustificata con la necessità di remunerare ed incentivare la rete di vendita assicurativa a collocare il prodotto. Comunque, questo gravoso “balzello” in entrata rende praticamente impossibile esercitare la prevista “libertà di trasferimento” tra le diverse forme previdenziali. Tanto più se si tiene conto che, in caso di trasferimento, non poche compagnie assicurative fanno pagare anche costi d’uscita.

Rebus sic stantibus, l’affermazione che la previdenza privata “rende” più di quella pubblica risulta alquanto audace, per non dire apertamente falsa. Si può naturalmente (ed a giusta ragione) obiettare che i risultati della previdenza privata non possono essere valutati nel solo arco di un anno, ma vanno misurati su un tempo medio-lungo. Sebbene Keynes sostenesse che “nel lungo periodo siamo tutti morti”, cerchiamo allora di capire, per quanto possibile, come sono andate le cose. Alla metà degli anni ’90 la promessa di maggiori rendimenti della previdenza privata rispetto a quella pubblica sembrava poter essere confermata dalla realtà. La ragione andava però ricercata in quella che successivamente verrà definita una “bolla speculativa” che aveva artificialmente fatto impennare gli indici delle Borse. Coincidendo con un periodo di rendimenti finanziari anomali, la previdenza a capitalizzazione ha potuto essere più facilmente prospettata come la terra promessa del “latte e del miele”. Le apparenze non avrebbero però dovuto trarre in inganno. Almeno i più informati. O che avevano il dovere di informarsi. Sarebbe, infatti, bastato dare un’occhiata ai risultati mediamente offerti, nell’arco della seconda metà del secolo scorso, dai Fondi a capitalizzazione esistenti in giro per il mondo per accorgersi che quelli che erano andati meglio avevano realizzato un rendimento “lordo” non superiore all’andamento del Pil. Lordo, perché anche a prescindere dai trattamenti fiscali (che, naturalmente variano da Paese a Paese e da periodo a periodo) non bisogna mai dimenticare che nei fondi a capitalizzazione, la svalutazione prodotta dall’inflazione ed i costi amministrativi e di gestione vengono (ovviamente!) messi a carico degli iscritti.

Per quanto riguarda invece la particolare fattispecie dei Fondi aziendali a “prestazione garantita” (presenti soprattutto negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna e che, per altro, non hanno nulla a che vedere con quelli istituiti da noi) sono per la maggior parte in crisi. Al punto che sono allo studio interventi di salvataggio finanziario. Interventi che includono anche drastiche riduzioni delle prestazioni. Senza tenere conto dei casi più clamorosi (basti pensare alla Enron) dove i lavoratori con il lavoro, hanno perso il salario, i contributi e la pensione, è bene ricordare che i Fondi aziendali da “prestazione garantita” si stanno faticosamente trasformando a “contribuzione definita”. Il che significa che il valore della pensione verrà determinato esclusivamente sulla base dei contributi versati e, per far quadrare i conti, si sta concretamente discutendo (in particolare in Gran Bretagna) di eliminare sia l’indicizzazione che la reversibilità. In ogni caso, il dato comune a tutti i Fondi a capitalizzazione è che, passata la breve euforia coincisa con la “bolla speculativa” in Borsa, si trovano nei guai. Guai che si riflettono pesantemente sui loro iscritti e sui loro pensionati.

Tutto dovrebbe quindi indurre a prendere atto che la tendenza a dare un peso maggiore alla previdenza a capitalizzazione, fino ad includervi l’uso obbligatorio del Tfr, apre non irrilevanti problemi di certezze e di garanzie per i lavoratori. Nel sistema pensionistico pubblico il rischio relativo alla previdenza obbligatoria è coperto dalla collettività. Salvo, naturalmente, il rischio “politico” di un mutamento delle regole. Che però, di norma, non prescinde da un negoziato con le parti sociali. E, quando questo non si verifica, si reagisce giustamente in modo collettivo. Mentre, il conferimento obbligatorio del Tfr alla previdenza privata a capitalizzazione ed un aumento del peso di quest’ultima sposta tacitamente sul lavoratore il rischio per una parte della pensione, sopprimendo contemporaneamente il rendimento, attualmente garantito, del Tfr. Ovviamente, in una situazione d’adesione volontaria il lavoratore è del tutto libero di accettare, o meno, una diversa configurazione del rischio e delle garanzie. Ma in una situazione d’obbligatorietà il lavoratore si trova vincolato ad una scelta imposta che può essere (come in effetti è) peggiorativa della sua situazione. Dovrebbe poter disporre d’adeguate garanzie e tutele. Non dimentichiamo che per molti lavoratori il risparmio pensionistico (tanto più se vi si include il Tfr) è l’unica forma di risparmio, ed in ogni caso quella da cui dipende il tenore di vita alla conclusione dell’attività lavorativa. Il sistema a capitalizzazione cambia significativamente la prospettiva. Perché scarica sul singolo lavoratore (almeno per la parte rappresentata dalla pensione a capitalizzazione) i rischi del mercato e lo espone all’eventualità di trovarsi privo di risorse adeguate durante gli anni del pensionamento. Anche perché ai rischi connessi alla pensione complementare si somma la perdita progressiva (anno dopo anno, come conseguenza dell’attuale meccanismo d’indicizzazione) del potere d’acquisto della pensione pubblica.

Dunque, chi guarda alla realtà delle cose senza lenti deformanti non può non rendersi conto che, non solo la previdenza a capitalizzazione non è in grado di offrire nessuna soluzione miracolistica ai problemi del sistema pensionistico, ma soprattutto che in assenza d’appropriati correttivi i futuri pensionati rischiano di scoprire tardivamente, ed a proprie spese, che in realtà essa non è molto dissimile della pietra “elitropia” di cui è rimasto vittima Calandrino. In astratto, è ovvio che una diversificazione del risparmio pensionistico può essere utile per una migliore utilizzazione delle risorse, individuali e complessive. Ma se il peso di questa operazione ricade sul singolo lavoratore, diminuendo il suo reddito disponibile, perché aumenta la contribuzione a suo carico, ed in compenso diminuisce la pensione su cui potrà fare conto nella sua vecchiaia, dovrebbe essere non meno ovvia la necessità di chiarire con quali misure ed in che modo si pensa di scongiurare questa deplorevole deriva.

Una discussione sul punto è da ritenere preliminare ad ogni altro dibattito (soprattutto se general-generico) sul sistema pensionistico. Anche per la buona ragione che se si va tacitamente verso “l’obbligatorietà” della previdenza integrativa, il suo maggiore peso nel reddito pensionistico, riduce proporzionalmente per i lavoratori i benefici solidaristici propri del sistema pubblico. Compreso il corredo dei trattamenti per maternità, malattia, disoccupazione, invalidità, premorienza. Quindi, in particolare, chi ritiene che la previdenza a capitalizzazione debba essere considerata un pezzo (ormai acquisito e per questo irreversibile) dell’intero sistema previdenziale ha il dovere di affrontare sia il tema della tutela verso i “rischi di mercato”, che le possibili forme solidaristiche nella previdenza complementare. Poiché però, almeno finora, questo problema non risulta iscritto nell’ordine del giorno del dibattito politico-sociale in materia di pensioni, non resta che “formulare voti” (secondo la formula di rito in uso nei congressi) perché esso divenga invece rapidamente materia di discussione, di confronto, d’iniziativa. Le ragioni per farlo sono tante. Non ultima, che “prevenire” è sempre meno costoso (economicamente, socialmente, politicamente) che “curare”.

Martedì, 21. Ottobre 2003
 

SOCIAL

 

CONTATTI