Pensioni, aumenti proporzionali al lavoro

L'ipotesi che circola sulla rivalutazione degli importi più bassi non è di una cifra uguale per tutti, che "svaluterebbe" chi ha versato contributi rispetto a chi riceve solo assistenza. I costi in relazione alle varie possibilità

La manifestazione dei pensionati di Cgil-Cisl-Uil al palasport di Roma ha ricordato piuttosto pesantemente al governo Prodi che tra coloro che avanzano pretese sul tesoretto vi sono anche i pensionati. Se si mettono insieme tutte le attese, legittime o meno che siano, il tesoretto dovrebbe comprendere tutto il previsto maggior surplus di entrate, almeno 10 miliardi, e correrebbe in ogni caso il rischio di essere insufficiente. Pensioni in essere, ammortizzatori sociali, Ici, famiglie, scalone, contribuzione figurativa per i lavoratori precari, sono questi i settori da cui o su cui sono state avanzate richieste di maggiori spese o di tagli di entrate: impossibile, ovviamente, rispondere esaustivamente a tutto, ma sarebbe anche inutile, e perdente politicamente e socialmente, dare qualche cosa a tutti.

 
Il governo sta ancora pagando in termini di popolarità e consenso la riforma fiscale effettuata in finanziaria e, a fronte dei dissensi, l’improvvida affermazione che i lavoratori avrebbero cambiato opinione sulla finanziaria non appena avessero visto gli effetti della riforma in busta paga. Come era facilmente prevedibile, la lettura della busta paga nei primi tre mesi dell’anno ha invece confermato che per buona parte dei lavoratori, anche con retribuzioni medio-basse, la tanto sbandierata redistribuzione fiscale si limitava a pochi euro mensili (la riforma fiscale e degli assegni familiare ha agevolato i lavoratori con più figli a carico, ma la stragrande maggioranza delle famiglie del centro-nord ha un solo figlio). Certo a questo risultato ha contribuito non marginalmente l’aumento della tassazione locale, ma questo era largamente prevedibile se si tagliano i trasferimenti agli enti locali e si elimina il blocco imposto all’aumento delle addizionali Irpef comunali e regionali.
 

Le limitate risorse disponibili non possono essere distribuite a pioggia, ma debbono essere concentrate. In caso contrario sarebbero inefficaci, socialmente e politicamente, perché non avvertibili dai beneficiari.

 
Tra i diversi settori di possibile intervento vi è quello della rivalutazione delle pensioni minime. Su 16,5 milioni di pensionati, dati 2005, sono poco meno di 4 milioni quelli che hanno un importo di pensione inferiore a 500 euro mensili. Su questo problema si è ampiamente esercitato Berlusconi nella campagna elettorale del 2001 con il famoso milione. Con la legge 448/2001 il governo di centrodestra attuò solo parzialmente la promessa elettorale: dei sei milioni di pensionati che nel 2001 avevano una pensione inferiore al milione, solo poco più di 1,5 milioni usufruì di un aumento pensionistico. Inoltre, le stesse risorse stanziate dalla legge furono impegnate solo per meno della metà (circa 1 miliardo di euro) e il numero dei beneficiari è risultato pari a poco più del 70% di quello previsto nella relazione di accompagnamento a causa dei vincoli di età e di reddito presenti nella legge. Alla fine del 2004 i beneficiari del provvedimento erano scesi a 1.366.211.
 

Attualmente l’importo delle pensioni con le maggiorazioni sociali previste dalla 448/2001è pari a 559,91 euro mensili. I pensionati che hanno una pensione inferiore a questo importo, a causa dei limiti di reddito e di età posti  dalla 448/2001, sono circa 5 milioni. Tra questi pensionati vi sono soggetti diversi: persone che usufruiscono di una pensione o di un assegno sociale, titolari di una pensione di reversibilità, titolari di pensione di invalidità, lavoratori dipendenti e autonomi con pensioni integrate al minimo.

 
I sindacati dei pensionati hanno sempre fortemente criticato la 448, non solo per la limitata efficacia dell’intervento, ma anche, e soprattutto, per l’eliminazione di ogni differenza che la legge ha prodotto tra pensioni di tipo assistenziale e pensioni derivanti da lavoro. L’importo delle pensioni integrate al minimo fino al 2001 è stato sempre superiore alle pensioni e agli assegni sociali anche in caso di maggiorazione di questi ultimi. La ragione di questa differenza stava nel riconoscimento del “lavoro” e rispondeva anche all’esigenza di non rendere “inutile” il lavoro rispetto a una pensione di pari importo ottenibile attraverso forme di assistenza.
 

La 488 ha modificato questo principio. All’età di 70 anni, pensioni a calcolo integrate al minimo e pensioni assistenziali di importo inferiore sono state comunque portate a 516,46 euro (oggi a 559,91), eliminando ogni differenza. Considerando che il limite dei 70 anni è stato posto esclusivamente per limitare la platea dei beneficiari, un suo superamento non farebbe che accentuare questo aspetto della 488 eliminando progressivamente qualsiasi differenza tra i valori minimi delle pensioni derivanti dal lavoro e quelle esclusivamente assistenziali. Per questo motivo la richiesta delle organizzazioni dei pensionati è che un nuovo provvedimento dia la precedenza alle pensioni frutto di una contribuzione.

 
Naturalmente se una pensione è bassa lo è per tutti a prescindere dalla ragione della sua esistenza. La richiesta non è quindi di escludere le pensioni sociali da un adeguamento del loro importo, ma di ristabilire e mantenere la differenza tra pensioni nate da contributi e pensioni assistenziali. Inoltre si pone il problema anche delle pensioni che sia pure superiori all’integrazione al minimo (attualmente 436,14 euro e 559,91 euro con la maggiorazione sociale), sono chiaramente insufficienti ad assicurare un livello di reddito adeguato.
 

L’idea su cui, a quanto risulta, sta ragionando il governo è quella di un aumento delle pensioni più basse di origine contributiva per un importo legato agli anni di contribuzione e alla gestione di appartenenza. Il legame con gli anni di contribuzione assicurerebbe un beneficio direttamente proporzionale agli anni di lavoro e di contribuzione, mentre il legame con la gestione di appartenenza è giustificato dalla differente aliquota contributiva esistente nelle gestioni dei lavoratori dipendenti e in quelle dei lavoratori autonomi. In pratica si fisserebbe una soglia minima di pensione dipendente dagli anni di contribuzione e diversificata tra dipendenti e autonomi. Fissata questa soglia differenziata, le pensioni di importo inferiore godrebbero di un incremento pari alla differenza o ad una parte di questa.

 
Stabilito il principio i costi del provvedimento dipendono dalla platea dei beneficiari e dall’importo della rivalutazione. Il primo numero a sua volta dipende dalla soglia minima fissata e dall’età anagrafica alla quale far scattare il provvedimento. La differenza tra soglia e pensioni può essere restituita in tutto o in parte comunque differenziando tra autonomi e dipendenti. Si tratterebbe, quindi, di una revisione differenziata dell’integrazione al minimo a partire da una certa età e in funzione dell’anzianità contributiva e della gestione di appartenenza.
 

Il costo dell’operazione varia in funzione dei parametri considerati. Nelle stime che circolano si va da una spesa minima di circa 1 miliardo di euro ad una massima di 4 miliardi. I pensionati interessati si collocherebbero tra 1,5 e 2,5 milioni a seconda dell’età considerata. L’importo medio di aumento delle pensioni dipende naturalmente dalle risorse stanziate e dalla differenza tra soglia e pensioni in essere attribuita ai beneficiari. Si tratterebbe comunque di un importo concretamente avvertibile da chi ne beneficerebbe (40 euro mensili nell’ipotesi più contenuta).

 
Fermo restando che un giudizio complessivo dipende dai parametri effettivamente scelti, e quindi dalle risorse stanziate, un primo giudizio è certamente positivo. Si rivaluterebbero le pensioni più basse derivanti da contribuzione, sopra o sotto l’integrazione al minimo, e lo si farebbe prendendo a riferimento l’anzianità contributiva. La differenza tra dipendenti ed autonomi sarebbe giustificata non solo dalla differente aliquota di contribuzione, ma anche dal fatto che spesso il limitato importo delle pensioni degli autonomi è frutto di scelte personali nella denuncia del reddito sottoposto a contribuzione.
 

Con questo provvedimento il governo interverrebbe a favore dei pensionati attuali la cui pensione risulta bassa prevalentemente a causa del limitato numero di anni di contribuzione. Anche nell’attuale sistema retributivo, infatti, una carriera contributiva limitata produce bassi importi pensionistici. Le pensioni di vecchiaia o di anzianità integrate al minimo erogate dall’Inps, dati 2006, sono 2.183.000, di cui il 51% nel Fondo lavoratori dipendenti. Le pensioni di vecchiaia o di anzianità inferiori a 750 euro mensili sono 4.920.000, di cui il 56% nel Fpld.

 
Se il governo, ma il problema investe anche i sindacati, porterà avanti questa proposta difficilmente potrà ignorare il problema delle pensioni future dei lavoratori precari. Se la bassa copertura pensionistica di questa tipologia di lavoratori è già presente nel sistema retributivo ed è doveroso assicurare un rimedio alle pensioni in essere, a maggior ragione questo problema si pone per il futuro. In quest’ottica andrebbe affrontato anche il problema relativo alla revisione dei coefficienti di trasformazione, particolarmente rilevante per le pensioni di importo più basso. Affrontare il nodo della revisione dei coefficienti nell’ottica del si o no alla revisione non può che portare alla rottura. Il problema è come coniugare la sostenibilità finanziaria con quella sociale di un sistema pensionistico che poggia su di un mercato del lavoro frantumato, con occupazione precaria e con una forte diversificazione di aliquote contributive.
 

In quest’ottica si potrebbe ragionare sulla revisione dei coefficienti, ma anche sulla revisione della norma stessa. Vi sono spazi di intervento legati alla periodicità della revisione, alla effettiva applicazione dei coefficienti al momento del pensionamento, alla formula di calcolo stessa e alla trasparenza del procedimento, a come assicurare una tutela alle pensioni più basse. Il tutto si può affrontare con calma. La revisione applicata oggi produce solo effetti marginali sulla spesa. Solo dal 2014/15 gli effetti delle revisione, o di una sua mancanza, produrrebbero effetti sensibili. Una riconferma del principio della revisione legata a una modifica delle sue procedure e dei suoi parametri da rivedere con un percorso stabilito potrebbe assicurare una ragionevole via d’uscita su questo punto. 

Sabato, 26. Maggio 2007
 

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