Pensioni /1 - Il sudoku da tavolo

Si è aperto il 22 marzo il "tavolo" sulla previdenza con governo e parti sociali. Al momento non si vede una strategia chiara da parte di nessuno dei partecipanti, ma sarà comunque molto difficile concliliare le esigenze di finanza pubblica con i problemi da affrontare
Il 22 marzo è iniziata una trattativa complessa tra governo e parti sociali. E' una trattativa a vasto campo con numerosi tavoli, quindi ambiziosa, forse troppo vista la situazione in Parlamento e i problemi di coesione della maggioranza. E' augurabile, comunque, che i singoli tavoli siano meno affollati rispetto alle 54 persone convocate per la riunione iniziale.

Uno dei tavoli sarà quello delle pensioni e del sistema di tutele nel mercato del lavoro. Il modo con cui le parti sono giunte alla trattativa non è dei più promettenti. Il sindacato si presenta con un documento unitario omnicomprensivo, non banale sotto l'aspetto dello sforzo di conciliare posizioni divergenti tra le confederazioni, ma che rinuncia a fissare delle priorità nelle richieste e che non ha, quindi, la caratteristica di una proposta propria su cui costringere il governo a discutere.

Il governo, a sua volta, ha aperto la trattativa con una proposta illustrata da Prodi che non è chiaro quanto sia accettata da tutta la coalizione governativa, soprattutto in relazione allo scalone e alla revisione dei coefficienti. A giudicare dalle dichiarazioni di alcuni ministri e di alcuni esponenti della maggioranza, più che una proposta del governo è una proposta di Palazzo Chigi. Si tratta, quindi, di una trattativa aperta, in cui è probabile che all'interno dei due schieramenti molti giochino in proprio con la controparte.

Scalone e coefficienti sono i problemi principali sul tappeto, unitamente alla riforma degli ammortizzatori sociali e alla rivalutazione delle pensioni, in particolare di quelle basse.

L'impegno a una modifica dello scalone è contenuto nel programma elettorale del governo e se la coalizione vincente assume questo impegno è difficile per il sindacato non farlo proprio. L'abolizione dello scalone costerebbe 9 miliardi a regime, con un costo minimo nel 2008, ma che già nel 2010 arriverebbe a 5 miliardi di lire.
La possibilità "generalizzata" di accedere alla pensione di anzianità a 57 anni è difficilmente difendibile sotto l'aspetto dell'equità generazionale. Chiamare i giovani a lottare per difendere un'età di accesso alla pensione di cui non potranno godere, nemmeno con penalizzazioni sull'importo, appare molto difficile. In secondo luogo l'eliminazione dello scalone porrebbe, oltre alla necessità di copertura finanziaria, problemi con l'Unione Europea. La soluzione prospettata da Prodi è quella della sostituzione dello scalone con gli scalini  salvaguardando, quindi, i risparmi a regime. Anche il passaggio agli scalini comporta comunque un costo da coprire stimabile nel 2010 tra 1 e 1,5 miliardi i euro, ma potrebbe essere accettato dal sindacato (o da buona parte di esso).

Il problema si potrebbe (dovrebbe?) affrontare in modo diverso partendo dagli effetti che un innalzamento dell'età di pensionamento avrebbe per chi perde il lavoro e per chi è occupato in lavori usuranti. In assenza di questi due elementi l'innalzamento dell'età di accesso alla pensione di anzianità non può essere considerato un avvenimento drammatico.  Molti lavoratori continuano comunque a lavorare a quell'età e lo farebbero, se potessero, anche molti degli espulsi. Il problema si pone per i lavoratori ultracinquantenni espulsi dal processo produttivo che dovrebbero essere maggiormente tutelati rispetto al lavoro e comunque non colpiti da un innalzamento dell'età pensionabile.

Vi è una forte contraddizione tra l'accordo firmato a Palazzo Chigi per una mobilità lunga alla Fiat, di fatto un prepensionamento, e l'innalzamento dell'età pensionabile, così come vi è una forte contraddizione tra questo innalzamento e la continua espulsione di ultracinquantenni dalle imprese. Ricerche effettuate sulla banca dati dell'Inps negli anni passati, evidenziano come una parte rilevante dei pensionati di anzianità nel settore privato provengano da percorsi di mobilità o di Cig precedenti il pensionamento. Sommando queste situazioni a quelle che vedono lavoratori cinquantasettenni incentivati dalle aziende a ricorrere al pensionamento, se ne ricava che al meno il 50% delle pensioni di anzianità nel privato non è spontanea, ma obbligata o quanto meno incentivata.

Questo sarebbe il punto da cui partire, distinguendo tra soggetti e situazioni, per quello che concerne l'innalzamento dell'età pensionabile, e cambiando le convenienze economiche delle imprese rispetto ai lavoratori anziani. Se questi costano di più in termini retributivi e contributivi rispetto ai giovani, perché le imprese non dovrebbero espellerli dal processo produttivo? Le politiche di salario d'ingresso, di sgravi contributivi e di maggiore flessibilità per i giovani portano con se necessariamente l'espulsione dei lavoratori anziani. Anche le scelte effettuate in materia negli ultimi 15 anni andrebbero riviste.

Più complesso è affrontare il tema dei lavori usuranti. Il problema di fondo, assieme alla definizione di ciò che è usurante, è quello del finanziamento dei benefici. La legge 335 lo addebita alle singole categorie attraverso un accordo di natura contrattuale che fissi le aliquote contributive aggiuntive e le ripartisca tra azienda e lavoratori. Lo Stato concorre nella misura del 20% dei costi fino al raggiungimento di un tetto annuo pari (nel 1996) a 250 miliardi di lire. Queste modalità di finanziamento hanno di fatto impedito il varo di accordi contrattuali e quindi vanificato l'applicazione concreta della legge. In base alle regole attuali per la copertura finanziaria dei benefici relativi ai lavori usuranti sarebbero, infatti, necessarie le risorse di almeno uno o due contratti di lavoro con carichi diversi tra le categorie a secondo delle caratteristiche del loro lavoro.

Il finanziamento degli oneri derivanti dai lavori usuranti va ricondotto al sistema pensionistico nel suo complesso con un necessario apporto dello Stato. Del resto alcune categorie già oggi godono di benefici pensionistici in termini di anticipo dell'età di pensionamento senza che il loro costo ricada sulla categoria stessa. L'occasione poteva essere data dall'aumento di contribuzione dello 0,3% a carico dei lavoratori operato in finanziaria, ma si è persa questa possibilità. Fondamentale comunque è la "limitazione" delle mansioni considerate usuranti, tema sul quale le diverse categorie sindacali - che lo hanno affrontato dopo la 335  - non hanno mai trovato un accordo.

Come ha ricordato Aldo Amoretti in un suo recente intervento, il vero scalone introdotto da Maroni riguarda il sistema contributivo con l'eliminazione quasi totale per i maschi della flessibilità di uscita introdotta dalla riforma Dini. In luogo della possibilità di accesso tra i 57 e i 65 anni, si è passati ad un accesso solo a 65 anni,  con la possibilità di anticiparlo ai 62 in presenza di 35 anni di contribuzione. Le donne sono trattate meglio con la possibilità di accesso alla pensione a partire dai 60 anni. E' stato eliminato, o comunque fortemente ridotto, uno degli aspetti più positivi del sistema contributivo, la flessibilità in uscita. Scontando l'innalzamento dell'età di pensionamento "spontaneamente" indotto dal ritardato ingresso nel mercato del lavoro regolare e dalla diminuzione della copertura pensionistica, la riforma Dini lasciava tuttavia al lavoratore la possibilità di accedere anticipatamente alla pensione. Questa flessibilità va certamente ripristinata.

Il punto più ostico della trattativa appare quello della revisione dei coefficienti. Il sistema contributivo, così come impostato dalla 335, prevede la revisione decennale dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo in rendita. I coefficienti assicurano da un punto di vista microeconomico l'equità attuariale rispetto all'età di pensionamento, mentre dal punto di vista macroeconomico garantiscono la sostenibilità finanziaria del sistema legando la spesa pensionistica alla speranza di vita. Un allungamento della stessa porta, nella logica della 335, ad una revisione in basso dei coefficienti.

Oltre alla furbizia di Maroni che ha scaricato sull'attuale governo il problema, si paga anche la poca chiarezza della legge in materia e il modo in cui coefficienti e previsioni di spesa di lungo periodo sono gestiti dalla Ragioneria generale dello Stato. La revisione dei coefficienti in base alla 335 non è automatica: dipende da alcuni parametri tecnici ricavati dalle proiezioni demografiche Istat e dall'andamento delle retribuzioni e del Pil di lungo periodo, ed avviene "sentite le competenti Commissioni parlamentari e le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori maggiormente rappresentative sul piano nazionale". L'istruttoria tecnica è stata effettuata, mancano i passaggi politici. Va tuttavia sottolineato che la legge 335 non indica la formula con cui ricavare i coefficienti, ma dà solo alcune indicazioni di massima; la formula è indicata dalla Rgs, ma è una formula che certamente non sarebbe in grado di fornire i coefficienti attualmente in uso, ricavati nel 1995 in modo più "artigianale".

Le stime degli effetti della riforma Maroni sulla spesa pensionistica inviate dal governo Berlusconi all'Unione Europea comprendevano la revisione dei coefficienti, così come tutti gli atti del governo precedente fino a che è rimasto in carica. Non avendo affrontato la revisione dei coefficienti quelle previsioni rappresentavano un falso. Il governo Prodi non ha affrontato il problema ed ha continuato ad inviare all'UE previsioni che contengono la revisione, pur non attuandola. Si presume, pertanto, che per il governo Prodi la revisione non possa essere messa in discussione come del resto affermato nell'incontro del 22 scorso.

In termini di spesa complessiva la mancata revisione dei coefficienti, secondo le stime Rgs, comporta un innalzamento del rapporto spesa/Pil di circa 1,5 punti nel 2035/40 e di 2 punti nel 2050. Per un raffronto va considerato che l'effetto stimato dello scalone è di una riduzione di circa 0,7 punti del valore massimo di questo rapporto. Vista in questa ottica la mancata revisione dei coefficienti appare improponibile e, comunque, poco sostenibile nei confronti dell'UE. 
 
Dal punto di vista microeconomico la differenza tra applicazione o meno della revisione è altrettanto forte. In assenza di revisione dei coefficienti il tasso di sostituzione di un lavoratore dipendente regolare con 35 anni di contribuzione e un pensionamento a 60 anni scenderebbe progressivamente dal 70% attuale al 59% nel 2030 e al 57,5% nel 2045. Se ritardasse il pensionamento fino ai 65 anni, fermo restando l'anzianità contributiva, il tasso di sostituzione diminuirebbe solo di circa 2 punti. La diminuzione sarebbe dovuta al solo passaggio dal retributivo al contributivo e potrebbe essere fortemente attenuata dall'innalzamento dell'età di pensionamento (più irrealistico pensare nel futuro a carriere con più di 35 anni di contribuzione).
 
In presenza di revisione la situazione cambia sensibilmente: il tasso di sostituzione con un pensionamento a 60 anni scenderebbe progressivamente al 52% nel 2030 e al 47,5% nel 2045. Se si ritardasse il pensionamento fino ai 65 anni, ferma restando l'anzianità contributiva, il tasso di sostituzione scenderebbe comunque al 60% nel 2030 e al 54,7% nel 2045. La differenza è sensibile e la revisione può avere effetti drammatici in particolare su tutti i lavoratori che non avranno carriere lavorative regolari e/o che potranno disporre solo di contributi inferiori al 33% dei lavoratori dipendenti.

Se prendiamo come punto di riferimento in basso gli autonomi, con la loro aliquota contributiva del 20%, vediamo che le stime del loro tasso di sostituzione, pur in presenza di 35 anni di contribuzione indicano, a 65 anni, valori pari al 39,8% nel 2030 e al 36% nel 2045. Molti lavoratori si troveranno con coperture pensionistiche che si collocheranno tra quelle di un dipendente regolare e di un autonomo "regolare",  secondo la lunghezza della carriera e il livello di contribuzione media. I più sfortunati avranno anche meno. Anche nel sistema retributivo esistono pensioni a calcolo basse in seguito a carriere lavorative irregolari o brevi, ma in questo sistema esiste almeno l'integrazione al minimo, istituto non previsto nel contributivo. Inoltre, la platea di lavoratori precari è indubbiamente in aumento e non comprende solo i parasubordinati, ma si estende ai lavoratori a tempo determinato che non riescono a trasformare il loro contratto e ad una parte delle partite Iva; lo stesso mondo degli autonomi è oggi molto più differenziato rispetto al passato (nel retributivo, sia pure senza alcuna ragione, gli autonomi godono, peraltro, di regole pensionistiche molto favorevoli).

Esiste, quindi, un problema di adeguatezza futura delle pensioni. Certo, è un problema che potrebbe oggi essere ignorato e rinviato al futuro. In fondo l'inadeguatezza delle pensioni uscenti dal sistema in vigore fino al 1969 fu affrontato dalla riforma varata in quell'anno con il passaggio al calcolo sugli ultimi tre anni di lavoro: l'inadeguatezza futura potrebbe essere risolta nel momento in cui emergerà in concreto. Ma nel dopoguerra non si facevano le previsioni a cinquant'anni che si fanno oggi e affrontare in tempo i problemi futuri può essere più saggio.

La soluzione non può stare nella previdenza integrativa, strumento che può rispondere alle esigenze di tutela pensionistica dei lavoratori regolari, ma che certo non è in grado di rispondere alle esigenze di lavoratori privi del Tfr e con retribuzioni basse e/o irregolari. Il problema della adeguatezza delle pensioni per questi lavoratori può essere affrontato in modi diversi: un'estensione dell'integrazione al minimo al sistema contributivo, un ampliamento della contribuzione figurativa, una pensione di base, un intervento fiscale. Affrontando il problema dell'adeguatezza delle pensioni future dovrebbe essere più semplice affrontare il nodo della revisione dei coefficienti.

Una maggiore adeguatezza delle pensioni comporta certamente un incremento di spesa, qualunque sia il sistema usato per ottenerlo. Si possono fare due osservazioni in merito. L'incremento di spesa avverrebbe comunque solo dopo il periodo di massimo valore del rapporto spesa/Pil, nella fase di diminuzione di questo rapporto con il sistema contributivo a regime. L'aumento di spesa, inoltre, è da verificare: nel modello Rgs non sono previste pensioni nella gestione parasubordinati, ma solo pensioni da lavoro dipendente e da lavoro autonomo: non sono, pertanto, pienamente considerati gli effetti negativi sull'importo delle pensioni, prodotti dall'aumento di precarietà nel mondo del lavoro. La previsione di spesa pensionistica può quindi essere sopravvalutata. Se così fosse un incremento di adeguatezza futura delle pensioni non produrrebbe un reale aumento del rapporto spesa/Pil o solo un incremento ridotto.

In assenza di accordo e di capacità (possibilità) decisionale autonoma da parte del governo, si può sempre abbandonare il criterio attuariale previsto dalla Dini, criterio tutto sommano fortemente minoritario nei sistemi europei. Ma l'alternativa non sarebbe molto diversa. Fermo restando il calcolo, retributivo o contributivo che si voglia, sull'intera vita lavorativa (introdotto da Amato nel 1992) si può fissare un'unica età di pensionamento crescente nel tempo - come Francia, Germania, Gran Bretagna ad esempio - riconoscendo la possibilità di pensionamenti anticipati con penalizzazioni. Nei fatti questo sistema non sarebbe sostanzialmente diverso dal contributivo.  
 
Altri argomenti in discussione sono l'indicizzazione delle pensioni e l'adeguamento delle pensioni minime. In molti paesi europei vi è stata la tendenza a ridurre l'indicizzazione delle pensioni, limitandola al solo costo della vita. E' una delle misure più efficaci nel ridurre la spesa pensionistica dato che l'indicizzazione agisce sullo stock di pensioni e non solo su quelle nuove. Questo determina, tuttavia, un impoverimento progressivo dei pensionati rispetto ai lavoratori in attività le cui retribuzioni crescono anche in base alla produttività. Il problema è particolarmente sentito nel nostro paese, oltre che sostenuto dalla forza numerica delle federazioni dei pensionati, per l'esistenza di molte pensioni di importo basso e per gli effetti prodotti dal passaggio all'euro. Un ritorno ad un'indicizzazione alle retribuzioni è insostenibile dal punto di vista finanziario, tanto meno un'indicizzazione al Pil; qualche correttivo, soprattutto per le pensioni più basse va tuttavia trovato, non illudendosi che le risorse possano essere trovate intervenendo sulle pensioni più elevate. Il progettato contributo dello 0,3% sulle pensioni sopra i 5.000 euro mensili avrebbe dato un gettito di  20 milioni di euro; per indicizzare maggiormente le pensioni più basse ci vorrebbero risorse non inferiori ad uno o due miliardi di euro a seconda di dove si limitasse il provvedimento.

Necessario è, comunque, un intervento sulle pensioni più basse, correggendo anche le distorsioni prodotte dal governo Berlusconi nel rapporto tra pensioni sociali e integrate al minimo. Queste pensioni non possono essere uguali, altrimenti si rende inutile ai fini pensionistici un percorso lavorativo e si incoraggio al lavoro in nero.

Anche in questo caso servono risorse non indifferenti, se l'aumento non vuole essere solo simbolico, data la platea estesa dei potenziali percettori. L'ordine è di almeno 1,5 - 2 miliardi di euro, certamente non ottenibili nel 2008 da risparmi derivanti dall'unificazione degli Enti previdenziali. Prodi continua a fare riferimento a questi risparmi, ma sono puramente illusori e difficilmente la Rgs li avallerà. Per ottenerli dovrebbe essere capace di ridurre di almeno 1/3 il personale degli enti attraverso licenziamenti o pensionamenti d'ufficio (trasferimenti ad altre amministrazioni non sono risparmio per i conti pubblici), istituti non previsti nel settore pubblico, dove anche semplici mobilità da ufficio ad ufficio costituiscono avvenimenti eccezionali. Non è in discussione la necessità di un riordino degli Enti, con le dovute concentrazioni, ma questo non può produrre risparmi immediati da utilizzare per finanziare nel prossimo biennio nuove spese. E comunque il governo in finanziaria non è nemmeno riuscito ad abolire i comitati provinciali Inps.
Mercoledì, 28. Marzo 2007
 

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