Pensione 'di base', che brutta idea

L'ipotesi di una componente fissa uguale per tutti (a cui si aggiungerebbe la quota contributiva) è costosa e incoraggia i pensionamenti precoci. Una simulazione del "Rapporto sullo Stato sociale 2006" mostra invece una soluzione alternativa efficace e a costo ridotto
Nella prima metà degli anni novanta risultava già chiaro che i limiti del nostro sistema produttivo non erano costituiti da una scarsa competitività di prezzo. Il problema di fondo era e rimane l'inadeguatezza - crescente - della nostra struttura produttiva costituita in prevalenza di piccole e medie aziende, per lo più operanti in settori produttivi maturi, che investono in misura insufficiente, e pochissimo nell' innovazione.
Sorprende e preoccupa, dunque, che tra le priorità per rilanciare la nostra economia, si  possa ancora pensare ad una riduzione del costo del lavoro: di cinque punti - come hanno detto i leader dell'Unione in campagna elettorale, o addirittura di dieci punti, come ha chiesto il presidente di Confindustria.

Questa linea di politica economica sarebbe non solo una misura costosissima (circa 10 miliardi di euro per ridurre la contribuzione di 5 punti), ma anziché invertire la politica economica e sociale che ci sta portando al declino, la incoraggerebbe ulteriormente.
Le imprese, non dovrebbero essere beneficiate in modo indifferenziato, come appunto avverrebbe tramite una decontribuzione a pioggia che continuerebbe a premiare le scelte imprenditoriali e i settori meno dinamici. Invece, le scarse risorse disponibili nel nostro disastrato bilancio pubblico dovrebbero essere impiegate selettivamente per incentivare l'innovazione produttiva e favorire un cambiamento strutturale del nostro modello di sviluppo economico e sociale.
 
Riguardo alla proposta di ridurre il cuneo fiscale c'è anche un' illusione da sfatare.
La contemporanea richiesta di Confindustria (e non solo) di preservare i provvedimenti della legge Biagi e di depotenziare la contrattazione nazionale, lasciano poche possibilità che i lavoratori riescano a conservare a lungo nel salario reale l'eventuale iniziale partecipazione ai frutti della fiscalizzazione contributiva. Anche se ciò accadesse, la decontribuzione a favore delle aziende costituirebbe comunque una redistribuzione a favore delle imprese e a danno dei lavoratori.

Peraltro è difficile illudersi che, prima o poi, la decontribuzione non porti anche alla riduzione delle prestazioni sociali (in primis di quelle pensionistiche) e alla loro sostituzione con servizi acquistati sul mercato da chi potrà permetterseli. Le riforme pensionistiche degli anni '90 hanno ridotto sostanzialmente la dinamica della spesa, superando perfino gli obiettivi fissati; ma anche per questo, i tassi di copertura che si prospettano nel nuovo assetto sono largamente inadeguati.
 
Smettendo di lavorare come dipendente a 60 anni e con 35 di contributi,  si maturerà  una pensione pari al 48% dell'ultima retribuzione; con il sistema retributivo sarebbe stata pari al 67% nel settore privato e al 77% nel pubblico. Dunque, la copertura si è ridotta di circa 20 o 30 punti percentuali dell'ultimo stipendio. Nell'ipotesi di pensionamento a 65 anni e con 40 di contributi, si raggiungerà la copertura massima del 64% (con il retributivo sarebbe stata del 77% nel privato e dell'87% nel pubblico).
La situazione peggiore riguarda la crescente schiera di lavoratori parasubordinati: chi riuscirà a lavorare fino a 65 anni e ad accumulare, miracolosamente, 35 o 40 anni di contribuzione, maturerà pensioni pari al 37 o al 43% dell'ultima  retribuzione (che generalmente non è elevata).
 
La necessità d'intervenire è urgente; ma come?
 
Il primo significativo intervento di politica economica del governo Berlusconi fu il disegno di legge delega in materia previdenziale presentato nel 2001 con il quale si voleva ridurre di 5 punti la contribuzione delle imprese al sistema pensionistico pubblico e dirottare ai fondi privati tutto il flusso di salario destinato al TFR. Le prime dichiarazioni dei massimi esponenti della nuova maggioranza e del  nuovo governo hanno sostanzialmente riconfermato questi due obiettivi; essi hanno gia dichiarato le necessità di ridurre il cuneo fiscale e di rilanciare la previdenza integrativa privata. Nella passata legislatura, quel progetto governativo - che era ispirato dal più complessivo obiettivo di ridurre il costo del lavoro -  fu bloccato dalle forti resistenze politiche e sociali, dalla crisi dei mercati finanziari e dal  peggioramento del bilancio pubblico (che avrebbe dovuto sostenere l'onere sia delle minori entrate contributive sia degli incentivi fiscali ai fondi). 

Quel disegno di legge era funzionale ad un'impostazione della politica economica che  invece di migliorare le condizioni di sicurezza sociale e favorire l'intrapresa dei rischi connaturati all'innovazione produttiva, si attardava a ricercare la competitività nella riduzione dei costi salariali e degli oneri contributivi; era e rimane una politica che, impegnando le scarse risorse disponibili in sgravi contributivi "a pioggia", tenderebbe a riprodurre la struttura attuale del sistema produttivo, con tutti i suoi limiti di arretratezza.
 
Nel Programma dell'Unione era stata giustamente affermata la necessità di una svolta sostanziale; in esso si legge:
"La sfida della concorrenza globale non può essere affrontata con successo sfruttando la riduzione dei costi, in particolare di quelli del lavoro. Occorre imboccare con decisione una "via alta alla competitività" che faccia leva sulla ricerca, sulla diffusione delle conoscenze, sulle risorse dei nostri territori e sulla coesione sociale."
 
Coerentemente al Programma scritto e concordato, le misure da prendere in campo previdenziale dovrebbero dunque migliorare le prestazioni;  ma - indubbiamente - occorre anche tener conto di un bilancio pubblico disastrato e dell'esigenza di rilanciare la crescita economica su nuove e più solide basi produttive.
 
Una prima e fondamentale questione che andrebbe chiarita nella Maggioranza è che questi compiti non sono convenientemente perseguibili puntando su una sostanziale crescita della previdenza privata. Se essa eccedesse una funzione realmente complementare (cosa che avverrebbe se buona parte del TFR fosse dirottato verso i Fondi pensione), le pensioni diventerebbero meno sicure e avrebbero una gestione più costosa; il bilancio pubblico sarebbe gravato da ingenti incentivi fiscali e, non da ultimo, s'ingrosserebbe il deflusso verso i mercati finanziari esteri del risparmio nazionale gestito dai Fondi.
 
Nelle scelte di fondo che riguardano un importante settore del welfare come quello previdenziale, non si può astrarre dalle caratteristiche del sistema produttivo e, in particolare, dalla congenita scarsa propensione delle nostre piccole imprese, spesso a gestione familiare, a quotarsi in Borsa. Attualmente, i Fondi pensione gestiscono una componente non elevata del risparmio previdenziale, e tuttavia riescono ad investirne in titoli azionari d'imprese italiane solo una parte minima, che nell'ultimo anno è ulteriormente scesa al 2%, mentre circa il 60% è allocato all'estero. Se tutto il TFR fosse trasferito ai fondi, in soli 6 anni, la loro disponibilità di capitali da investire passerebbe dagli attuali 9 miliardi di euro a circa 100 miliardi, e il trasferimento all'estero di risparmio nazionale aumenterebbe in misura esponenziale. 
 
Nel Programma dell'Unione, quello scritto e concordato, è tuttavia presente una proposta  che andrebbe valorizzata. Essa infatti, da un lato, consentirebbe di migliorare la copertura pensionistica, ma - allo stesso tempo - non aggraverebbe il bilancio previdenziale; anzi, lo migliorerebbe, favorendo dunque anche le misure di rilancio dell'economia.
 
Il provvedimento consiste nell'introdurre la facoltà per i singoli lavoratori di aumentare la loro contribuzione al sistema pubblico. Attualmente, i lavoratori dipendenti, contando sugli accantonamenti per il TFR e sull'apporto delle imprese, dispongono di risorse da versare ai fondi privati pari a quasi il 10% del costo del lavoro. Tuttavia, non possono impiegare queste disponibilità, nemmeno parzialmente, per aumentare la propria posizione contributiva e la corrispondente pensione maturata presso il sistema pubblico. E' una discriminazione assurda, penalizzante per i lavoratori e controproducente per l'economia.
 
Le simulazioni svolte nel "Rapporto sullo Stato sociale 2006" - che è in corso di stampa e sarà presentato il 22 giugno presso la Facoltà di Economia de "La Sapienza"- indicano che se la libertà di scelta desse luogo ad un aumento della contribuzione di  5 punti percentuali per l'intera vita lavorativa (e ne rimarrebbero circa altrettanti da poter distribuire tra il finanziamento del TFR e dei fondi privati), il tasso di sostituzione salirebbe dal 48% al 64% per chi andasse in pensione a 60 anni con 35 di contributi e dal 64% al 74% andando in pensione a 65 anni con 40 di contributi.
 
La perdita di copertura subita con il passaggio dal retributivo al contributivo sarebbe dunque parzialmente recuperata, ma il bilancio pubblico non verrebbe penalizzato; anzi, sarebbe migliorato dalle nuove entrate contributive. Se l'aumento della contribuzione di 5 punti fosse adottato mediamente da tutti i lavoratori dipendenti, le entrate del bilancio pubblico migliorerebbero di circa l'1 % di PIL per tutto il prossimo decennio.
 
La necessità di aumentare la copertura pensionistica è ancora più forte per i lavoratori parasubordinati che non dispongono nemmeno del TFR e dei contributi aziendali per la previdenza integrativa. Ferma restando la via maestra di eliminare le disomogeneità contrattuali che incentivano il ricorso a queste figure atipiche, per esse l'aumento contributivo, transitoriamente e ben calibrato, potrebbe essere anche di tipo figurativo.
Pensando di finanziare un aumento di 3 o 5 punti percentuali e di colmare anche i "vuoti" contributivi dovuti alla discontinuità d'occupazione rilevata mediamente, per una figura tipo di lavoratore parasubordinato che andasse in pensione a 65 anni dopo 40 di attività (ma solo con 35 di  contribuzione), il tasso di sostituzione aumenterebbe di circa 9 o 15 punti; intervenendo su circa 800.000 lavoratori discontinui, il costo sarebbe di circa 650 o 900 milioni di euro. Quindi si tratterebbe di cifre modeste pari, a circa lo 0,05 o lo 0,07% del PIL.
 
Per quanto riguarda i provvedimenti presi nel 2004 - come il cosiddetto "scalone", che crea una frattura generazionale iniqua, e l'eliminazione della flessibilità di scelta dell'anno di pensionamento - essi andrebbero subito aboliti. Le analisi svolte a riguardo nel "Rapporto sullo Stato sociale" confermano che quei provvedimenti sono, nel migliore dei casi, ridondanti rispetto a tendenze spontanee già stimolate dalle riforme degli anni '90 e dalla bassa crescita dei redditi da lavoro. In realtà, quelle misure, oltre a produrre ulteriori effetti redistributivi che penalizzano i fruitori di redditi più modesti, tendono a ridurre il  turnover occupazionale; quindi  rallentano l'innalzamento del livello d'istruzione e della produttività dei lavoratori e  aumentano il costo del lavoro per unità di prodotto.
 
Quando nel governo si comincerà a parlare di previdenza, sarà messa in campo anche una proposta di riforma sostanziale dell'assetto attuale che è stata già dibattuta in occasione della formulazione del Programma; allora non fu accettata, nel Programma ne viene solo fatto cenno; ma è evidente il suo collegamento con la proposta di ridurre il cuneo fiscale.

Secondo questa proposta, che viene attentamente valutata nel "Rapporto sullo Stato sociale",  la pensione dei lavoratori iscritti al sistema pubblico sarebbe composta da due componenti: una data a tutti in somma fissa, finanziata con la fiscalità generale, ed una commisurata ai versamenti effettuati in base al metodo contributivo. Contemporaneamente, si procederebbe all'armonizzazione delle aliquote di contribuzione fra le diverse categorie di lavoratori (dipendenti, autonomi e parasubordinati) a livelli indicati tra il 28% e il 23%, implicando, quindi,  la riduzione di 5 o 10 punti del costo del lavoro dipendente.
 
Assumendo la componente fissa a 350 euro (rivalutata ai prezzi) e l'aliquota contributiva ridotta al 28% per i dipendenti e aumentata al 25 per gli autonomi, il tasso di sostituzione di un lavoratore dipendente che va in pensione a 62 anni con 35 di contributi, passerebbe dal 51% del sistema attuale al 60%. Portando l'aliquota al 23% per tutti, il grado di copertura sarebbe del 52% per tutti; sarebbe invariato per i lavoratori dipendenti, ma aumenterebbe sensibilmente per i lavoratori autonomi .
 
Sul bilancio pubblico ci sarebbe un effetto immediato di riduzione delle entrate contributive che sarebbe superiore ad un punto percentuale di PIL o di circa lo 0,25%, rispettivamente, nelle ipotesi di decontribuzione di 10 e 5 punti. Il bilancio pubblico sarebbe tuttavia gravato anche dall'onere di finanziamento della prestazione fissa. Complessivamente, si creerebbe un deficit aggiuntivo che, nelle due ipotesi, arriverebbe fino al 2,1% o all'1,4% del PIL.
 
Poiché la motivazione forte di questa proposta è la riduzione del costo del lavoro dipendente, per essa valgono tutte le considerazioni critiche già esposte a riguardo. Ovvero, c'è da chiedersi se sia opportuno insistere su questo obiettivo e appesantire il bilancio pubblico in misura considerevole per premiare a pioggia il sistema produttivo così com'è, con tutti i suoi caratteri di "maturità"; o se, invece, almeno parte di quelle risorse non possano essere più convenientemente utilizzate, destinandole a finanziare politiche industriali e sociali più idonee ad innovare il nostro sistema produttivo e a migliorare strutturalmente la sua competitività e la capacità di crescita. Va aggiunto che l'introduzione di una componente pensionistica aggiuntiva di tipo universalistico potrebbe disincentivare il finanziamento della componente contributiva - che richiede un minimo di versamenti - e renderebbe più convenienti i pensionamenti in giovane età (l'ammontare della componente fissa sarebbe, per definizione, indipendente dall'età di pensionamento).
 
Per la previdenza c'è anche altro da fare, ma qualsiasi intervento, coerentemente al Programma, dovrebbe ben guardarsi dal ricadere in logiche di politica economica simili a quelle che ci hanno portato al declino. Come pure è stato scritto nel Programma dell'Unione: "Per il rilancio del paese non bastano piccoli aggiustamenti: serve un cambio di paradigma economico e sociale, perché quello esistente non garantisce né sviluppo né risanamento, come dimostra la fallimentare esperienza del governo di centrodestra. Abbiamo bisogno di riforme radicali e coerenti nel sistema produttivo come nelle politiche ambientali, del territorio e del welfare."
 
In realtà, i responsabili della politica economica  dell'Unione, oltre a scriverlo nel Programma elettorale, e invece di smentirlo come già hanno fatto, dovrebbero convincersi sul serio che mai come in questa fase storica, la visione che assegna al lavoro e alle condizioni salariali e sociali il ruolo di mere variabili dipendenti pregiudica non solo gli equilibri sociali, ma anche la crescita economica. E' per questo che c'è bisogno di una sostanziale inversione di rotta di segno progressista, e non di una politica dei due tempi, con il primo che sistematicamente vanifica il secondo.
Martedì, 6. Giugno 2006
 

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