Pd addio, non hai più un progetto

Il partito politico è lo strumento che si giustifica in vista di un fine. Nel Pd tutte le identità sono dissolte, l’unico fine che resta in piedi è la manutenzione del sistema, e si vuole l'assorbimento di ogni conflitto nella vacua retorica dell’interesse nazionale. A questo esito io non intendo in nessun modo partecipare

Il partito politico è lo strumento che si giustifica in vista di un fine. Come tutte le cose umane, è uno strumento inevitabilmente imperfetto, attraversato e condizionato dalle tante miserie della competizione per il potere. Non serve a nulla la denuncia moralistica di questo stato di cose, perché tutto ciò sta nella nostra natura e nella nostra debolezza. Ma è essenziale che resti visibile il progetto, che non venga spezzato il rapporto tra i mezzi  e il fine.

 

Ora, nell’ultima convulsa vicenda di cui il Pd non è la vittima ma l’artefice, il dato più clamoroso non è quello più appariscente dei contrasti e delle manovre di palazzo, ma è l’archiviazione del fine politico che giustificava l’esistenza stessa del partito. L’unico fine che resta in piedi è la manutenzione del sistema, di questo sistema, e tutto deve essere sacrificato all’obiettivo della governabilità. Non è, come molti dicono, il ritorno della Dc, ma è una nuova forma della politica, nella quale le identità, tutte le identità, sono dissolte. Bersani, col suo miraggio del cambiamento, era solo un sognatore. Ora è il momento dei politici realisti, che conoscono solo il linguaggio del potere.

 

Si tende a giustificare questo passaggio con un presunto stato di necessità. L’argomento della necessità è irricevibile, perché anche nelle situazioni più difficili c’è sempre un ventaglio di scelte possibili. Certo, ci sono vincoli, condizionamenti, rapporti di forza di cui occorre tener conto. E la politica è anche l’arte del compromesso, della manovra, del fare un passo di lato in attesa che maturino condizioni più favorevoli. Senza perdere di vista il fine strategico, si può percorrere, se è necessario, un cammino tortuoso. Si può spiegare così quello che è stato deciso dal gruppo dirigente del Pd? Assolutamente no. Non è una manovra tattica, ma è la scelta di una alleanza politica, di un patto organico di governo.

 

Come ha detto il presidente Napolitano, che è l’autorevole regista di questa discutibilissima operazione, è un governo politico, nella pienezza delle sue funzioni, senza limiti né di tempo, né di orizzonte programmatico, compresa la stessa riforma della Costituzione. La missione dichiarata del Pd è solo la riuscita di questa operazione, di cui vuole essere la guida e la forza trainante. Tutto l’orgoglio di partito lo si mette solo in questa impresa, e a chi si mette di traverso non si riconosce nessuna legittimazione. È solo un peso morto di cui liberarsi. Si pensa di affrontare la crisi interna che si è aperta con un atto di imperio, di autorità, nell’illusione che tutto l’esercito recalcitrante si metta a camminare, per fedeltà o per inerzia, nella direzione voluta.

 

Nel momento in cui un esito elettorale molto problematico, in bilico tra spinta eversiva e spinta democratica, avrebbe richiesto il coraggio di soluzioni innovative, la vecchia politica si chiude nel suo recinto, si autoprotegge e si autoassolve, mentre fuori dal recinto si infiammano tutte le ventate dell’antipolitica. È la conclusione più insensata che si potesse immaginare. È oggi il momento della decisione, il momento in cui ciascuno deve prendere posizione. Non credo che si possa rinviare il chiarimento ad un domani immaginario, o che la salvezza della sinistra stia nella scelta di un nuovo leader, più fascinoso e più dinamico.

 

Giunge ora a compimento un lungo lavorio di smantellamento delle nostre basi sociali e culturali, e si compie così il sogno di chi ritiene che destra e sinistra sono ormai parole morte, e che dunque ogni contaminazione è finalmente resa possibile. Questo è il senso reale, oggettivo, del processo che è in corso: la fine di una stagione in cui una qualche alternativa sembrava possibile e praticabile. Ora si dice che i conflitti e le contrapposizioni erano una follia, e che dobbiamo entrare in un mondo pacificato. Il governo Letta, al di là delle persone che lo compongono, è lo strumento di questa inversione di senso della politica: dalla rappresentazione di progetti alternativi all’assorbimento di ogni conflitto nella vacua retorica dell’interesse nazionale. La nazione è da sempre l’alibi che tutto giustifica.

 

Devo dire che a questo esito io non intendo in nessun modo partecipare. Non sono io che lascio il Pd, ma è il Pd che lascia andare alla deriva il suo progetto. Resto nel campo della sinistra, anche se non so, oggi, chi sia in grado di organizzarlo e di rappresentarlo. D’altra parte, la parola “sinistra” è un’espressione del sociale prima che del politico. E dal sociale occorre ripartire, dalle contraddizioni che ancora attendono di essere esplorate, rappresentate, organizzate. La sinistra è questo lavoro di scavo nel sociale. Il resto è solo chiacchiera.

 

(Riccardo Terzi è segretario nazionale  dello Spi-Cgil. Questo articolo è stato pubblicato anche su L'Unità)

Sabato, 4. Maggio 2013
 

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