Partito Democratico: il “nuovo” fatica a farsi strada

Al modello di società fondato su un liberismo dogmatico, sull’individualismo e la competizione si dovrebbe essere in grado di opporre una visione alternativa convincentemente ancorata ai valori di solidarietà e di eguaglianza. Ma dai due congressi non è emerso un programma definito

La costituzione del Partito Democratico, decisa con più sentimento e passione al congresso dei Democratici di Sinistra e con più disincanto, o maggiore realismo politico, a quello della Margherita, è un fatto di grande importanza. Non fosse altro perchè inverte la tendenza alla frammentazione. Antica tabe del sistema politico italiano. Ed in particolare della sinistra. Sono perciò tra quanti ritengono che persino le (così dette) “fusioni a freddo” siano comunque, di norma, politicamente meno improduttive delle “scissioni a caldo”.

 

Ho invece maggiori difficoltà ad esprimere un giudizio sugli orientamenti programmatici del futuro nuovo partito. Negli interventi svolti nei due congressi si è fatto un ampio uso del termine riformismo. Che però, separato dalle misure concrete di riforma, non significa molto. Anzi, a mio parere, non significa nulla. Anche perché il “riformismo” non esprime una politica, ma un metodo. Tant’è che ormai i termini “riformismo” e “riformista” vengono utilizzati indifferentemente dalla destra e dalla sinistra. In effetti, si tratta di un metodo per portare un cambiamento nella vita quotidiana. Un metodo fondato sulla concretezza. Che deve perciò operare con i tempi della cronaca, non della storia. Ma per qualificare una politica di centrosinistra esso non può essere separato, senza snaturarsi, dalla bussola dei valori di solidarietà ed eguaglianza. Valori che non sono una sopravvivenza del passato. Perchè, in particolare nelle moderne società complesse e fortemente strutturate, restano assolutamente imprescindibili.

 
Riferendo del dibattito che si è svolto nei due congressi i media hanno molto insistito nel segnalare  l’esistenza di differenze (anche profonde) sulle politiche. Francamente non mi sembra questo un serio motivo di inciampo allo sviluppo del progetto. Le differenze sulle politiche ci sono sempre state. Non solo tra partiti diversi. Ma anche all’interno di ciascun partito. Nulla induce quindi a ritenere che sia questo l’ostacolo vero nella costruzione del Partito Democratico. Il motivo di perplessità nasce semmai dal fatto che  nelle due assise l’orizzonte programmatico è risultato piuttosto sfuocato. Se non addirittura indeterminato. Intendiamoci, non sono affatto mancati diversi interventi critici verso i guasti gravi provocati dal neo-liberismo. Verso i più intollerabili costi umani e sociali che, in Italia come nel resto del mondo, esso ha comportato. Del fatto che ovunque ha sospinto ad una selezione dettata da una spietata, quanto irrazionale, logica del mercato dei fattori produttivi. Sicché, forze del lavoro non idonee (anziani, lavoratori non qualificati, o non riconvertibili, donne) sono stati assai spesso sospinti ai margini e poi fuori dal mercato del lavoro.
 
In effetti, selezione di mercato, centralità dell’impresa, riduzione della protezione sociale, hanno costituito, più o meno ovunque e da tempo, i corollari che hanno accompagnato la pratica dedotta dall’ideologia liberista. Sulla base delle implicazioni etico-politiche di questo indirizzo, la selezione tra forti e deboli, capaci ed incapaci, coraggiosi e pavidi, è risultata inevitabile. Far avanzare i forti ed abbandonare i deboli ed i più indifesi si è materializzata quindi non solo in forma di scelta politica, ma addirittura come una sorta di precetto etico. Sicché ogni forma di eguaglianza, di solidarietà, di protezione dei più deboli ha finito per essere considerata, oltre che uno spreco di risorse, un incentivo all’appiattimento dei singoli ed un declino delle responsabilità.
 
Poiché però la cultura liberista (anche se oggi fortunatamente meno dilagante a livello mondiale) ha tenuto saldamente il campo per oltre due decenni, dovrebbe risultare evidente che le critiche ad essa rivolte sono utili, ma non sufficienti. Perciò al modello di società fondato su un liberismo dogmatico, sull’individualismo e la competizione si dovrebbe essere in grado, con un appropriato impegno di analisi e di ricerca collettiva, di opporre una visione alternativa convincentemente ancorata ai valori di solidarietà e di eguaglianza. Non solo in funzione della riduzione dei costi umani e sociali, altrimenti intollerabili, ma anche per i suoi vantaggi economici. Insomma, per il costituendo principale partito del centrosinistra, vorrà pur dire qualcosa se i Paesi del Nord Europa, assieme ad un maggiore grado di sicurezza e di protezione sociale, sono anche riusciti a conseguire un ritmo di crescita economica maggiore rispetto alla media europea? Oppure questa correlazione deve essere considerata casuale, se non addirittura irrilevante? Personalmente sono convinto che, ai fini del consenso che riuscirà a raccogliere il nuovo Partito Democratico, una maggiore riconoscibilità della cultura politica di riferimento e perciò dell’orizzonte programmatico conterà assai di più del permanere o del superamento delle dispute su questa o quella specifica misura politica.
 

L’altro punto che non mi ha particolarmente convinto è quello relativo all’ancoraggio internazionale del nuovo Partito. La questione è importante perché di fronte ad una economia che si globalizza appare privo di senso opporre una politica che si provincializza. Ancora più scriteriata una scelta del genere rispetto all’Europa che ha sempre più voce in capitolo sulla politica economica e sociale di tutti gli Stati membri. Soprattutto nel momento in cui si cerca mettere in comune, in un quadro di regole costituzionali condivise, anche la politica estera e la difesa. Purtroppo, sul punto, le posizioni emerse dai due congressi sono apparse rigide ed inconciliabili. In estrema sintesi: il congresso dei DS ha ribadito l’impossibilità di stare fuori dal Pse; a sua volta il congresso della Margherita ha riaffermato l’impossibilità di stare nel Pse. Tra chi tira da una parte e chi tira dall’altra il risultato zero. E sullo zero, di solito, non si costruisce nulla.

 
Naturalmente si possono legittimamente avere tutte le riserve che si vuole sul Pse (che tuttavia non può essere scambiato per un tardo epigono della Seconda Internazionale Socialista) ed auspicarne una evoluzione che possa comportare anche un suo ulteriore allargamento. Obiettivo al quale è certamente più facile lavorare dall’interno che dall’esterno. E che comunque presuppone tempi non certamente brevi. Ora, anche prescindendo dalla nota considerazione di Keynes (“Sui tempi lunghi siamo tutti morti”) che si fa nel frattempo? Dice Rutelli: non “nel” Pse non significa che non si possa lavorare “con” il Pse. Non dovrebbe tuttavia sfuggirgli che una cosa è fornire dal di fuori qualche consiglio non richiesto, altro è concorrere a decidere, dall’interno, indirizzi, politiche  e gruppi dirigenti. Per altro non si può dimenticare che praticamente tutti i partiti democratici e progressisti europei stanno nel Pse.
 
Assumere quindi “mansioni di semplice custodia ed attesa” (come si definivano una volta quelle dei lavoratori “discontinui”) significa in sostanza rassegnarsi all’irrilevanza nel dibattito politico europeo. Con tutte le frustrazioni che un ruolo del genere comporta. Convincono poco anche le argomentazioni utilizzate, sempre nel congresso della Margherita, per motivare la preclusione nei confronti dell’Internazionale Socialista. Il riferimento al partito Democratico americano ed al partito del Congresso dell’India, per sostenere che la non adesione non esclude una interlocuzione, appare francamente fuorviante. Intanto perché il partito del Congresso indiano ha già avviato le procedure per entrare nell’Internazionale Socialista e soprattutto perché non esiste alcuna possibile comparazione tra il partito Democratico americano ed il costituendo Partito Democratico italiano. Prima di tutto perché il partito Democratico americano è un semplice comitato elettorale e non una forza strutturata come sono invece i partiti in Europa. Forse, anche per questo al congresso del partito Democratico americano a nessuno verrebbe in mente di invitare il leader del partito Repubblicano. E viceversa, naturalmente. Secondo, in America sono i governi che fanno i partiti, mentre in Europa (Italia compresa) sono i partiti che fanno i governi. Infine, perché il ruolo dell’Italia nelle vicende mondiali  non è certo equiparabile a quello degli Stati Uniti. Tanto nel bene che nel male.
 

Dunque, gli argomenti forniti per collocare in stand-by la questione dell’ancoraggio europeo ed internazionale del nuovo Partito Democratico non appaiono convincenti. In effetti essi hanno a che fare, più che con la razionalità politica, con problemi di identità. Che comportano sempre l’ansia di fissare confini. Tanto più in presenza di conflitti di ruolo (o di egemonia, se si preferisce) quali sono quelli che si presentano in questa fase propedeutica alla definizione degli assetti della nuova formazione politica. In ogni caso, la partecipazione ad una organizzazione politica mondiale è questione molto meno urgente rispetto ad una esplicita assunzione di responsabilità in Europa. A livello mondiale, per un po’ di tempo almeno, si può anche restare nel “Limbo” (sebbene persino la Chiesa abbia deciso che fosse meglio sopprimerlo), in Europa questo non è possibile. Perché vorrebbe dire condannare il nascente Partito Democratico alla insignificanza. E questo dovrebbe essere considerato da tutti una ragione di preoccupazione. La realtà che ci circonda è profondamente cambiata. In passato contava l’appartenenza nazionale ed anche ad un “campo” internazionale. Oggi siamo alle prese con la cittadinanza europea ed una “coabitazione” multinazionale. Allora, o si concorre a guidare il processo di cambiamento, o si è condannati soltanto a subirne passivamente le conseguenze.

 
Un'ultima considerazione. Dai congressi di Firenze e di Roma, non era realisticamente possibile attendersi “l’inizio di una nuova storia”, come con inevitabile enfasi retorica è stato detto nelle relazioni ed in diversi interventi.  Era tuttavia ragionevole attendersi “l’inizio di una nuova politica”. Non intesa come nuova “concezione del mondo”. Infatti con il deperimento delle vecchie ideologie, le opzioni su visioni di trasformazione palingenetiche della società, pessimistiche o utopiche, audaci o prudenti, hanno altri terreni ed altri strumenti su cui possono utilmente esercitarsi. Ma come capacità di analisi sui termini dei problemi da risolvere e di capacità di concretezza, che non esclude ragionevoli compromessi, in ordine alle soluzioni possibili.
 
C’è quindi, come ho già sottolineato, un problema di contenuti. Ma per dare “inizio ad una nuova politica” c’è anche una questione di “forme”. In particolare di “come” effettivamente coinvolgere tutti coloro che possono essere potenzialmente interessati ad un nuovo progetto. A Firenze ed a Roma è stato ribadito che il Partito Democratico intende rivolgersi a tutti gli italiani. E che dunque tutti, nel nuovo soggetto politico, avranno modo di contare in base alla regola: “ogni testa un voto”. Sia per la formazione della rappresentanza che per la designazione della leadership a tutti i livelli.  Siamo ancora nella fase di transizione, ma il modo con cui sono stati formati gli organismi dirigenti dei Ds e della Margherita, con la puntigliosa spartizione dei posti (come risultato di una ben dosata ripartizione tra i capocorrente) non induce molto all’ottimismo. Si è arrivati persino al punto paradossale che nella nuova assemblea federale della Margherita (malgrado un ordine del giorno congressuale avesse stabilito di riservare alle donne almeno il 30 per cento dei posti)  le donne inserite non superano l’8 per cento.
 
Se ne deve un po’ malinconicamente dedurre che, più che il preannuncio di un “nuovo inizio” i due congressi sono stati soprattutto la conferma di quanto sia difficile liberarsi alle vecchie abitudini.
Sabato, 28. Aprile 2007
 

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