Parla Lula: 'La mia rivoluzione silenziosa'

Il presidente del Brasile, appena riconfermato alla guida del suo paese, traccia un bilancio del suo primo mandato, replica a chi lo ha accusato di eccessiva acquiescienza verso le istituzioni finanziarie internazionali e parla dei rapporti con gli altri paesi dell'America latina
Nonostante i feroci attacchi delle forze conservatrici e il trattamento per nulla indulgente dei media brasiliani, Luis Ignacio Lula Da Silva ha mantenuto, in questi quattro difficili anni di governo, una forza popolare straordinaria. E' il segno che l'ex-operaio metalmeccanico e sindacalista è rimasto ancorato a solide e concrete radici sociali, senza inseguire astratte aspirazioni, ma neppure facendosi risucchiare da una gestione del potere lontana dai problemi delle persone.

Se in diversi ambienti intellettuali e tra la militanza di sinistra si discute delle cose non fatte e delle delusioni per quello che poteva essere e non è stato, tra la povera gente si parla della riduzione avvenuta dei prezzi del riso e dei fagioli (l'alimento base), dei materiali da costruzione (indispensabili per trasformare il proprio barraco in abitazione decente), della possibilità per i figli di frequentare la scuola ed accedere al diritto minimo "dei tre pasti al giorno", diritto dal quale prima di Lula erano esclusi milioni di bambini.

Quando Lula è salito al Planalto Central ha ereditato un Brasile in profonda crisi finanziaria ed un'economia destrutturata dalle scelte liberiste imposte dalle politiche del FMI. Non è stato per nulla facile imporre politiche monetarie ortodosse per garantire stabilità economico-finanziaria e rientro dall'inflazione, insieme ad una politica espansiva dal lato degli investimenti pubblici e delle spese sociali prioritarie, come il programma Fome zero e il programma Bolsa Família. Il Brasile durante il mandato di Lula si è liberato (senza rotture e manifestazioni) dalla dipendenza del FMI, ha conquistato una sovranità monetaria mai avuta e ha creato le condizioni per una crescita sostenibile e duratura. Ha già cominciato a ridistribuire reddito. Ha già iniziato a democratizzare il potere.

La partecipazione dei movimenti sociali in questo scenario è decisiva per fare avanzare una democrazia sostanziale, in alternativa ad una democrazia formale che si esaurisce solo nel momento delle elezioni politiche. Per i sindacati dei lavoratori - come per i "sem terra", le comunità indigene e le associazioni ambientaliste -  significa saper coniugare la propria autonomia rivendicativa e di azione con la capacità di partecipare direttamente all'elaborazione e attuazione di politiche pubbliche sostenibili, finalizzate all'inclusione sociale di quanti vivono ancora sotto la soglia di povertà.
In questa intervista, svoltasi prima delle elezioni che lo hanno riconfermato alla guida del Brasile, Lula risponde ad alcune domande sul suo primo mandato presidenziale.
 
La tua priorità, quando sei stato eletto, era lottare contro la fame e la povertà. Dopo tre anni e mezzo sei soddisfatto per i progressi realizzati?
 
"Per rispondere a questa domanda vorrei confrontare gli anni del mio mandato con gli otto anni precedenti. Nel gennaio 2003 - all'inizio del mio mandato - il Brasile spendeva in programmi sociali meno di 2,3 miliardi di euro, oggi ne investiamo più del triplo (7,3 miliardi). Il programma Bolsa Família assiste oggi 9,2 milioni di nuclei familiari, il cui reddito non supera i 40 euro per persona. Abbiamo, inoltre, approvato lo "Statuto dell'anziano" - che ha introdotto il diritto alla pensione minima sociale - e creato il programma Farmácia Popular. Oggi, ad esempio, chi soffre di diabete e deve prendere l'insulina non spende più di 4 euro il  mese, contro i 44 euro di prima.
Tutti gli studi mostrano che la mortalità infantile sta diminuendo, così come la denutrizione. La verità nuda e cruda è che è in corso una rivoluzione silenziosa: il miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti di questo paese. Per me la conquista più importante di questi anni è stata l'uscita dalla povertà di 3 milioni di persone".
 
Rispetto al diritto di studio, da sempre fattore d'esclusione sociale in Brasile, cosa è stato fatto?
 
"Abbiamo innalzato di un anno il ciclo di base obbligatorio e notevolmente ridotto l'abbandono scolastico dell'infanzia carente . Nell'anno in corso inaugureremo 32 scuole tecniche, il che non succedeva dal 1998. Abbiamo aperto quattro nuove Università federali e 42 sedi universitarie decentrate nelle aree interne del Brasile. In 14 mesi sono state assegnate 204 mila borse di studio universitarie, di cui il 40% a giovani d'origine africana e 1.200 a índios. Credo profondamente che il Brasile debba investire molto nel settore educativo affinché i nostri adolescenti abbiano prospettive di studio e lavoro".
 
Hai rispettato le promesse in materia di re-distribuzione delle terre?
 
"In otto anni di governo il mio predecessore ha espropriato 18 milioni di ettari in nome della riforma agraria. Io ne ho espropriati 22 milioni in solo 36 mesi. Nel giugno 2003, quando abbiamo annunciato il piano per l'agricoltura familiare, prevedevamo un investimento inferiore al miliardo di euro. Alla fine del 2006 l'investimento avrà superato i 3 miliardi di euro".
 
Il tuo partito, il PT, è stato implicato in un grande scandalo di corruzione. Quale lezione hai tratto da ciò?
 
"Io mi sono sentito tradito dal fatto che alcuni dirigenti del PT hanno introdotto pratiche nel partito non coerenti con la sua storia. Non è il denaro che fa vincere le elezioni.
Noi del PT non siamo infallibili. Quando commettiamo errori, dobbiamo pagare…e il PT pagherà per i suoi errori. E' inesorabile. Bisogna, però, distinguere gli errori commessi di cui si farà carico la magistratura, dai "crimini" che gli avversari del PT ci attribuiscono. Le persone implicate che stavano nel governo o si sono dimesse o li ho allontanati. La commissione parlamentare d'inchiesta ha già presentato una relazione e io credo che molti degli accusati usciranno indenni. Dobbiamo, tuttavia, riflettere su quanto è successo ed evitare che membri del PT tornino a commettere gli stessi errori".
 
C'è chi sostiene che la politica economica attuata durante il tuo mandato non si discosti molto dal liberismo. Quanto c'è di vero e quanto è frutto di un'ideologia incapace di interpretare la realtà brasiliana, profondamente inserita in un'economia globale?
 
"Quando sono arrivato alla presidenza, non avevamo risorse nemmeno per finanziare le importazioni. La nostra bilancia commerciale era in deficit e oggi è in superattivo. Il Brasile vendeva dollari Usa per mantenere il cambio basso: oggi compriamo dollari per sostenere la moneta americana. In tre anni le esportazioni sono passate da 60 a 120 miliardi di dollari. Abbiamo pagato il FMI, il Club di Parigi, la moratoria del debito del 1986 e sono avanzati, ancora, 61 miliardi di dollari in riserve.

Per prima cosa abbiamo dovuto garantire la stabilità economica ed evitare il ritorno dell'inflazione che falcidia i salari: per questo la politica monetaria, da molti criticata, è stata improntata al rigore. Ma allo stesso tempo non abbiamo rinunciato né all'agenda sociale né allo sviluppo economico: l'industria brasiliana ha avuto la maggior crescita degli ultimi 20 anni e l'occupazione regolare è aumentata ad una media di oltre 1 milione di posti di lavoro in più per anno (96 mila per anno nel governo precedente). Le retribuzioni, compreso il salario minimo, dopo molti anni sono aumentate in termini reali. In Brasile per la prima volta si sta facendo una politica di redistribuzione del reddito. Sono migliorati i consumi interni ed il risparmio, l'equilibrio fiscale ed i salari. E' diminuita la disuguaglianza sociale, la povertà, la fame, la denutrizione, la disoccupazione, l'inflazione; così come si sta riducendo il debito esterno ed interno, il rischio paese, la vulnerabilità esterna, il costo del denaro. Naturalmente c'è ancora molto da fare, ma le basi sono sufficientemente solide per poterlo fare".
 
La politica estera è il terreno dove avete "osato" di più: da una linea "sud-sud" con l'Africa, ad un inedito protagonismo nel WTO (G20) e all'ONU, ad un ruolo fondamentale nel processo d'integrazione dell'America del Sud. Le recenti tensioni con la Bolivia ed il Venezuela possono costituire un ostacolo a questo processo?
 
"Non considero che ci siano tensioni gravi nel caso della Bolivia. L'anno passato (l'ex-presidente) Sánchez de Lozada è stato destituito a causa del gas e (il suo successore) Carlos Mesa ha convocato un referendum nel quale il popolo si è pronunciato in favore della nazionalizzazione. Evo Morales non ha fatto altro che applicare questa decisione, che non è cosi grave. Io preferisco scommettere sulla negoziazione. Ho chiamato Evo Morales e gli ho detto che il gas appartiene ai boliviani ed ero d'accordo con la loro decisione. Però gli ho anche ricordato che il Brasile è il principale compratore del gas boliviano e che il Brasile dipende dalla Bolivia tanto quanto la Bolivia dipende dalle importazioni di merci dal Brasile. Credo che troveremo una soluzione con meno discorsi e più senso comune e realismo.

Con i presidenti Néstor Kirchner e Hugo Chávez abbiamo detto chiaramente che l'integrazione tra paesi così importanti come Argentina, Venezuelana e Brasile presuppone che ci sia fiducia tra noi. Per consolidare l'integrazione regionale, i paesi più grandi devono essere generosi con i più poveri. Brasile e Argentina devono contribuire allo sviluppo di Paraguay, Uruguay e Bolivia perché non abbiamo alcun interesse a vivere attorniati da paesi più poveri".
 
Secondo te l'integrazione latinoamericana deve cercare lo scontro con gli Usa, come spesso emerge dalla retorica del presidente venezuelano Hugo Chavez?
 
"Non dobbiamo fare ideologia con le nostre relazioni politiche e commerciali. Chávez non deve pensare cosi, considerando che vende l'85% del suo petrolio agli Usa. Allo stesso modo il Brasile, visto che conosciamo l'importanza delle nostre relazioni con gli Stati Uniti. Quello che desideriamo è non cadere nella dipendenza di una potenza e costruire la nostra sovranità a partire dalle nostre capacità tecnologiche e produttive".
 
Oggi alcuni concetti di sinistra come "anti-imperialismo" o "rivoluzione" hanno perso di attualità?
 
"Per me, sì. Essendo, però, un difensore della libertà d'espressione, penso che ciascuno possa utilizzare le parole come meglio gli convenga. Soprattutto perché le stesse parole hanno un significato diverso nei vari paesi. Ad esempio il Partito socialista francese non è uguale a quello svedese, né alla SPD tedesca, né al PSOE spagnolo o alla sinistra italiana. La stessa cosa succede in America Latina. Un discorso di sinistra in Brasile non ha lo stesso significato in Messico. Non ho mai tenuto ad appiccicarmi addosso una etichetta di "sinistrorso". Sono un tornitore di mestiere, militante politico di un partito chiamato PT (Partito dei Lavoratori) il cui impegno fondamentale è costruire una società più giusta".
 
L'intervista di Gianni Alioti (Ufficio internazionale Fim-Cisl) è stata realizzata per la rivista bimestrale "Appunti di cultura e politica" (n. 4/2006) ed è apparsa anche sul portale della Fim-Cisl (www.fim.cisl.it) .
Martedì, 7. Novembre 2006
 

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