Occupazione, uno stop alla crescita

Esaurita la funzione esercitata dalla diffusione del lavoro flessibile e dal rallentamento delle uscite degli anziani. Ed ora conseguenze soprattutto sulle fasce più deboli del mercato del lavoro, a cominciare dalle donne.
Negli ultimi anni in Italia si è assistito a una progressiva perdita di posti di lavoro in aree chiave del settore produttivo. Nello stesso tempo, mentre la crescita del PIL scendeva a livelli inferiori all’uno per cento, l’elasticità dell’occupazione al PIL (o contenuto occupazionale della crescita) segnava livelli eccezionalmente alti. Come si spiegano questi due fenomeni apparentemente contradditori? Nella seconda metà dello scorso decennio si è invertita la tendenza a uno sviluppo che divorava occupazione e si sono creati posti di lavoro grazie ad alcuni fattori quali il mutamento di composizione settoriale a favore dei servizi e di settori a più alta intensità di lavoro, la diffusione del lavoro flessibile e poi l’incentivazione delle assunzioni a tempo indeterminato, il rallentamento delle uscite dal mercato del lavoro delle fasce più anziane, l’emersione di lavoro nero. Alcuni di questi fattori hanno esaurito la loro spinta già da qualche anno. Se, nonostante questo, la crisi dell’occupazione si è manifestata in ritardo rispetto all’arresto del sistema produttivo lo si deve al fatto che altri fattori hanno continuato ad esercitare la loro influenza ancora nell’ultimo biennio: bonus assunzioni, rallentamento delle uscite degli anziani, emersione, in particolare degli immigrati in corso di regolarizzazione. Ora che anche questi fenomeni si stanno esaurendo o stanno perdendo di peso, l’occupazione tende a diminuire e, per un effetto di scoraggiamento, diminuiscono ancora più velocemente le forze di lavoro. Di conseguenza, diminuisce anche la disoccupazione ma trattandosi della sommatoria di due fenomeni negativi non c’è motivo di gioire per questo. L’attuale tendenza negativa dell’occupazione ha conseguenze soprattutto sulle fasce più deboli del mercato del lavoro. Rallenta il flusso di ingresso delle donne nel mercato del lavoro e quindi il riequilibrio nella composizione di genere, si torna indietro quanto ai processi di riequilibrio generazionali e territoriali, con una nuova accentuazione delle storture e delle iniquità nella partecipazione al lavoro. L’unico motivo di ottimismo, quanto ai soggetti deboli è rappresentato dalla riserva di immigrati da regolarizzare.
 
1. Crisi industriale e crisi occupazionale.
 
Negli ultimi anni in Italia si è assistito a una progressiva perdita di posti di lavoro in aree chiave del settore produttivo. Le grandi imprese dell’industria perdono negli ultimi due anni e mezzo quasi il 10% dei posti di lavoro. Dopo un periodo (nella seconda metà degli anni Novanta) in cui si era registrato un saldo positivo tra contributi e prestazioni, nel triennio 2000-2002 la cassa integrazione ordinaria dell’industria ha un balzo davvero imponente. Questo insieme di segnali negativi sembra essere contraddetto da una performance positiva sia quanto al contenuto occupazionale della crescita economica, che resta elevato, sia quanto al tasso di disoccupazione, che diminuisce. La maggioranza di governo si fa anzi scudo di questi dati per negare o minimizzare la portata della crisi occupazionale. Come siano collegati tra loro questi due fenomeni, apparentemente in contrasto tra loro, merita dunque di essere spiegato anche per cogliere quale sia davvero il segno della fase in corso e per delineare che cosa ci si può attendere per il futuro.
 
2. La fase di crescita dell’occupazione è finita
 
La fase di crescita dell’occupazione iniziata nel 1996, durata sino all’inizio del 2003, si è definitivamente conclusa e ha lasciato il passo a metà 2003, per la prima volta dalla metà degli anni ’90, a un declino. L’occupazione, dopo aver manifestato evidenti segni di rallentamento dal 2002 (+ 1,36%, contro + 1,89% nel 2001 e +1,9% nel 2000) segna per la prima volta con la rilevazione ISTAT di luglio 2003 un declino rispetto al trimestre precedente sia quanto a occupati (dato destagionalizzato, - 6.000 unità) sia quanto a forze di lavoro (dato destagionalizzato, - 22.000 unità). Di conseguenza, anche la (sola) anomalia positiva della situazione economica in Italia, che consiste in un contenuto occupazionale della crescita (o elasticità dell’occupazione rispetto al PIL, cioè il rapporto tra tasso di crescita dell’occupazione e tasso di crescita del PIL) eccezionalmente elevato, è destinata ad esaurirsi. Questo indicatore, che dopo il 1997 si è mantenuto stabilmente superiore allo 0,5, è arrivato nel 2002, quando l’andamento del PIL è sceso al di sotto dell’ 1% su base annua (+0,4%), a superare il fattore 1: in quell’anno, l’occupazione essendo cresciuta dell’1,4%, l’elasticità rispetto al PIL è schizzata al valore 3,5. Anche per il 2003, con un PIL che si prevede cresca tra 0,3 e 0,5%, l’occupazione registrerà un aumento tra 0,7 e 0,8% su base annua, confermando un elasticità rispetto al PIL vicina al fattore 2. Con il prossimo anno di questo miracolo non resterà che il ricordo. Al di là della esiguità del dato assoluto della diminuzione di occupazione nell’ultimo trimestre, quello che deve seriamente preoccupare è la chiusura di una parabola crescente. Si arresta inesorabilmente una tendenza alla crescita che era durata, con effetti di trascinamento nel tempo, per tutto il ciclo corrispondente al governo di centro sinistra.
 
3. Diminuisce la disoccupazione, crescono gli scoraggiati
 
Come conseguenza del fatto che il declino delle forze di lavoro è stato più sensibile di quello degli occupati, il tasso di disoccupazione è risultato in diminuzione. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare a giudicare dalle manifestazioni di soddisfazione nella maggioranza, questo dato rispecchia esclusivamente la diversa intensità di due fenomeni ambedue negativi: il ritmo con cui i disoccupati escono dal mercato del lavoro e smettono di cercare un lavoro (per un effetto di scoraggiamento) è più accelerato del ritmo delle uscite dal mondo del lavoro: non a caso la diminuzione più sensibile di persone in cerca di occupazione si registra nel Mezzogiorno (–6,4 % negli ultimi diciotto mesi contro un aumento dell’ 1,3% nel resto d’Italia) in corrispondenza della più rapida frenata dell’occupazione.
 
4.L'elevata crescita negli ultimi anni
 
Che si stia assistendo a una inversione di tendenza di carattere strutturale è confermato, contro ogni ottimismo della attuale maggioranza, da un esame più puntuale dell’andamento delle variabili che, secondo analisi convergenti tra tutte le fonti più accreditate, sono state proposte per fornire una spiegazione dell’elevato contenuto occupazionale della crescita degli ultimi anni: a) la modificazione della composizione settoriale dell’economia italiana a favore di settori a maggiore intensità di lavoro (servizi), che ha comportato un abbassamento del rapporto tra prodotto e occupati; b) la progressiva diffusione di forme di lavoro flessibile (e spesso precario), che ha ripartito il lavoro necessario tra più occupati (di conseguenza, con meno ore lavorate); c) il rallentamento delle uscite dal mercato del lavoro (verso la pensione) della classe di età più elevata (50-64 anni) che, a parità di flusso di entrata dalla classe inferiore, ha portato un saldo netto positivo degli occupati in quella fascia di età; d) l’emersione di posizioni lavorative fin qui sommerse da cui è derivata la visibilità di quelle fin lì nascoste (oltre che al fisco, agli enti previdenziali e agli ispettorati) anche alle statistiche.
 
5. Le modifiche. La crescita dei servizi
 
Passando ad esaminare l’andamento di questi fattori, possiamo rilevare come sia rallentata la dinamica di assunzioni anche nel settore dei servizi, cosicché il mutamento di composizione settoriale non è più in grado di alimentare la creazione netta di posti di lavoro. Il decennio tra il 1990 e il 2000 – e non solo il periodo successivo al 1996 – è stato caratterizzato da un aumento del peso degli occupati nei settori dei servizi a più bassa produttività per occupato (oltre che con meno ore lavorate per occupato) dal 60,2% dell’occupazione totale nel 1990 al 65,5% nel 2000. Con la contemporanea diminuzione del peso relativo degli occupati nei settori a più elevata produttività (sia per occupato che per ora lavorata) rappresentati dall’industria in senso stretto (dal 32,4% dell’occupazione totale, nel 1990 al 29,6% nel 2000) si è così determinato un processo di sostituzione e quindi un rapporto tra occupati e prodotto interno lordo più favorevole al fattore lavoro senza che ciò rispecchiasse una perdita di competitività in termini di produttività oraria. Se tuttavia il progressivo aumento del peso relativo dell’occupazione nei servizi caratterizza ininterrottamente tutto il decennio, è solo a partire dal 1996 che, pur non aumentando di intensità, riesce a compensare l’andamento negativo di industria e agricoltura. La differenza nel ciclo dell’occupazione (l’inversione di tendenza, dalla diminuzione alla crescita) tra la prima e la seconda metà degli anni Novanta si spiega dunque, quanto all’aspetto della composizione settoriale, con il fatto che mentre il tasso di crescita nei servizi rimane sostanzialmente invariato (in media tra il 1990 e il 1995 aumenta dello 0,56% annuo, tra il 1996 e il 2000 dello 0,52% annuo) si fa meno accentuato il declino nell’industria che, dopo aver toccato il minimo nel 1996, registra un periodo di crescita (in termini assoluti) fino al 2001 ad un tasso ridotto ma di segno positivo. Dal 2001 la crescita degli occupati nel settore dei servizi rallenta sia in termini relativi sia in termini assoluti, non riuscendo così a compensare l’andamento dell’industria e dell’agricoltura quando, come sta ora avvenendo, tornano a calare.
 
6. La diffusione del lavoro atipico
 
Quanto alla progressiva diffusione di forme di lavoro dipendente flessibile si può dire che caratterizzi in particolare la fase fino al 1999-2000 ma che abbia dimostrato già da allora, se non di essersi esaurito, quanto meno di aver perso rilevanza. La fase di maggiore crescita è generalmente ricondotta, per un verso, al Patto del 23 luglio 1993, nel senso di una maggiore disponibilità sindacale, nella cornice della contrattazione nazionale e aziendale, a concedere forme di flessibilità in tema di orario e di nuove assunzioni, per l’altro, al Patto per il Lavoro tra Governo Prodi e sindacati confederali (e conseguente legge 196/97) che ha direttamente portato a modifiche normative che agevolavano i rinnovi per i contratti a termine e introducevano il lavoro interinale. Dipendenti a part-time e a tempo determinato, la cui quota sull’occupazione globale era rimasta sostanzialmente stabile fino al 1995-1996 (i contratti part-time nel 1996 erano il 6,5% dell’occupazione globale e quelli a tempo determinato il 7,4%), crescono da allora ad un tasso di incremento superiore a quello generale dell’occupazione fino al 2000, arrivando in quell’anno a ricoprire rispettivamente l’8,4% il part-time e il 10,1% il tempo determinato. Nel complesso, nel periodo tra il 1996 e il 2000 l’aumento di occupati a tempo determinato (+721.000 unità) rappresenta da solo il 72,1% del complessivo aumento di occupazione; l’aumento di occupati part-time, a tempo indeterminato e determinato, (+504.000 unità) arriva a coprire il 50,5% del totale. Dal 2000 il trend di crescita tuttavia si interrompe. I lavoratori a tempo determinato contribuiscono appena per il 6,6% all’aumento complessivo tra il 2000 e il 2003, nonostante il varo in questo arco di tempo, a metà del 2001, appena entrato in carica il Governo Berlusconi, della nuova normativa, più flessibile e più favorevole alle imprese, sui contratti a termine. Lo stesso avviene per i lavoratori part-time, che rimangono grosso modo stazionari tra il 2000 e il 2003. Il contributo dell’occupazione flessibile alla performance positiva del mercato del lavoro italiano in termini di elasticità rispetto alla crescita è dunque altalenante. Peraltro, è assai controverso che si possa parlare davvero di un contributo all’occupazione se si guarda ai posti di lavoro equivalenti a tempo pieno. Se si considera che le ore lavorate sono rimaste sostanzialmente stabili tra il 1996 e il 1999 (+ 0,3 nel primo biennio, - 0,3 nel secondo), proprio quando l’andamento crescente dei contratti atipici è stato più sostenuto, se ne può arguire che si è trattato più che altro di una redistribuzione tra un maggior numero di lavoratori di una quantità di lavoro (ore lavorate) rimasta nel complesso immutata. In conclusione, si può affermare che all’allentamento di alcuni vincoli relativi a forme di lavoro atipico con il pacchetto Treu si è accompagnato negli anni immediatamente successivi un incremento di occupati più che altro in termini di redistribuzione delle ore lavorate, rimaste nel complesso stabili; che non si rileva alcun impatto significativo dei primi provvedimenti di liberalizzazione adottati dal governo Berlusconi (nuovo regime dei contratti a termine nel 2001). Non vi è dunque nulla che faccia presumere che si possa registrare qualche impatto positivo sull’occupazione per l’insieme di nuove norme derivanti dalla riforma Biagi. Al contrario dimostra con tutta evidenza di essersi esaurito il fenomeno, che si era sovrapposto dapprima e sostituito poi, dopo il 2000, all’incremento di lavoro atipico, dato da una dinamica sostenuta dei contratti a tempo indeterminato. Un andamento che viene fatto risalire principalmente ai provvedimenti di incentivazione (bonus, ovvero credito di imposta) delle assunzioni a tempo indeterminato (anche come trasformazione di contratti a tempo) adottati nell’ultima Finanziaria della legislatura di centro-sinistra. Questi provvedimenti peraltro hanno presumibilmente influito più sulla composizione dell’occupazione (a favore di quella permanente), che sulla sua entità, in termini di creazione netta di nuovi posti di lavoro, oltre ad aver favorito l’emersione di occupazione fino allora sommersa.
 
7. Il rallentamento delle uscite dei lavoratori anziani
 
Quanto al rallentamento delle uscite per pensionamento, si deve rilevare come il tasso di occupazione relativo alla fascia di età 55-64 anni abbia ripreso a crescere dopo il ’99. A fronte di un aumento degli occupati totali ipotizzabile (come media 2003 rispetto alla media dell’anno precedente) attorno alle 160.000 unità, la fascia di età tra i 50 e i 59 anni segna già, sui primi tre trimestri, un aumento di poco superiore alle 150.000 unità. Come dire che la variazione di occupazione dell’anno in corso potrà essere spiegata quasi totalmente attraverso l’aumento di quella fascia di età. L’aumento del numero assoluto di occupati trova una sua prima spiegazione nell’andamento demografico, in quanto negli ultimi cinque anni sono uscite dalla classe 50-59 le generazioni nate durante la guerra, rimpiazzate da quelle, molto più numerose, nate fra il 1949 e il 1953. A questo fenomeno si devono aggiungere, per spiegare anche l’aumento in termini relativi del tasso di occupazione e la diminuzione delle non forze di lavoro, gli effetti di alcune novità normative in materia previdenziale. Da un lato l’aumento da 56 a 57 anni del requisito anagrafico per l’accesso alla pensione d’anzianità ha determinato un minore flusso di uscite (come è testimoniato anche dai dati INPS) mentre contemporaneamente si poneva un freno alla pratica del ricorso ai pre-pensionamenti. In secondo luogo nel corso del 2003 sono entrate in vigore le nuove norme sul cumulo (che prevedono la totale cumulabilità in presenza di 58 anni di età e 37 anni di contribuzione) e la sanatoria per coloro che non avessero ottemperato agli obblighi previsti dalla legge per i pensionati che lavorano, che hanno favorito la prosecuzione dell’attività lavorativa ovvero incentivato l’emersione. C’è da chiedersi quale potrà essere la proiezione futura di questo andamento, una volta che l’effetto demografico andrà ad attenuarsi (in prospettiva fino ad invertire il segno, guardando all’andamento successivo al baby-boom del dopoguerra), e soprattutto quali conseguenze avranno gli interventi sulle pensioni, annunciati dall’attuale Governo. In particolare, è del tutto chiaro come l’attuale normativa, che consente il cumulo pensione-lavoro, entra in conflitto con le ipotesi di incentivo alla permanenza, mentre l’annuncio di una revisione dei requisiti per il pensionamento di anzianità può prevedibilmente sortire l’effetto indesiderato, nel breve periodo, di incentivare l’esodo.
 
8. L’emersione dal sommerso
 
Una parte notevole dell’incremento di occupazione degli ultimi anni deve essere fatta risalire all’emersione di posizioni lavorative dal sommerso. A fronte del totale fallimento degli ambiziosi – e sconclusionati – programmi concepiti dal Ministro dell’Economia e dal Presidente di Confindustria, che hanno peraltro comportato come effetto collaterale l’archiviazione definitiva del tentativo, timido ma non privo di efficacia, avviato con i contratti di allineamento, qualunque riferimento a percorsi di emersione di lavoro nero può apparire infondato. Tuttavia, a fianco dei provvedimenti di Tremonti, e per certi versi ad onta di quelli, altri hanno agito nel senso di favorire l’emersione dal sommerso. Mentre non va trascurato l’effetto di attivazione sociale (e in qualche misura politica) innescata dall’avvio dei Comitati per l’Emersione, una parte notevole è stata giocata dall’entrata in vigore (nel marzo del 2000) della nuova normativa sull’obbligo di denuncia INAIL contestuale alle assunzioni (obbligo che il provvedimento varato dal Ministro Maroni sullo stato di disoccupazione ha provveduto a edulcorare attraverso l’introduzione di una fase transitoria prima non prevista). Se a ciò si aggiungono i provvedimenti, già citati, di incentivazione delle assunzioni a tempo indeterminato e di abolizione del divieto di cumulo tra pensione e reddito da lavoro, si compone un quadro di regole che può dar conto di una rilevante emersione di lavoro nero. Se si calcola, in modo un po’ grossolano ma efficace, la dimensione quantitativa dell’anomalia italiana quanto a elasticità dell’occupazione rispetto al PIL come differenza tra l’andamento che si è effettivamente registrato a partire dal 1999 e quello che si sarebbe avuto con una elasticità “normale” (allineata al valore, circa 0,6, del triennio 1998-2000) si ha come risultato un “eccesso” di circa 600.000 posti di lavoro: una cifra piuttosto vicina a quella che varie fonti indicano, in base a una valutazione analitica degli effetti dei tre provvedimenti (“contatore” INAIL, bonus assunzioni, abolizione del cumulo), come ordine di grandezza presumibile dell’emersione dal sommerso nel corrispondente periodo. Per ciascuno dei tre provvedimenti, per le ragioni già accennate, ci si può attendere una attenuazione, anche drastica, degli effetti favorevoli all’emersione. Un altro rilevante fenomeno di emersione dal sommerso, che per le caratteristiche stesse della rilevazione effettuata dall’ISTAT non può che tradursi in un aumento di occupazione “visibile”, è rappresentato dalla regolarizzazione degli immigrati. La massiccia sanatoria messa in moto dalla Bossi-Fini (circa 750.000 domande di regolarizzazione), poiché presupponeva il requisito di un’occupazione regolare, nel momento in cui comportava l’inserimento negli elenchi dei residenti tra cui avviene il sorteggio del campione oggetto della rilevazione comporta un effetto immediato di aumento della quota di popolazione occupata rispetto alle non forze di lavoro. Considerando che l’iter della sanatoria è stato fin qui completato per un terzo, ne risulta un incremento di occupati abbastanza vicino (e perfino superiore) a quello complessivamente calcolato dall’ISTAT per l’ultimo anno. Anche se non può essere definita come nuova occupazione in senso pieno, questa massa ingente di immigrati in attesa di regolarizzazione rappresenta dunque l’unico bacino potenziale di incremento delle forze di lavoro nei prossimi mesi, fintanto che quel mezzo milione circa di pratiche pendenti non saranno state evase.
 
9. Donne. Giovani. Mezzogiorno
 
L’inversione di tendenza nella dinamica occupazionale non ha lasciato inalterati i rapporti interni tra i diversi segmenti del mercato del lavoro. In particolare, la fase di crescita sostenuta aveva portato ad un significativo aumento del tasso di occupazione per alcuni dei soggetti storicamente svantaggiati nel mercato del lavoro italiano. Le donne, che avevano rappresentato tra il 1996 e il 2001 più di due terzi dell’aumento complessivo di occupazione, tra il 2001 e il 2002 scendono a rappresentare il 57,6%. A loro volta, i giovani, la fascia di età che aveva maggiormente risentito della crisi occupazionale della prima metà degli anni Novanta, (il tasso di occupazione sulla fascia di età 15-24 era passato dal 28,3% al 25,3% in soli tre anni tra il 1993 e il 1996) nel periodo fino al 2001 avevano segnato un qualche recupero del tasso di occupazione, mentre nel nuovo ciclo declinante tornano a registrare una diminuzione in cifra assoluta cui corrisponde un peggioramento relativo, in termini di tasso di occupazione, di circa un punto. Quanto al Mezzogiorno, nel corso del periodo di maggiore crescita dell’occupazione, pur non tenendo il passo del resto del paese si mantiene tuttavia poco distante: il tasso cumulato di crescita dell’occupazione tra il 1996 e il 2000 è +4,6% contro una media nazionale di + 6,1%. Il 2002 segna un punto di svolta: un aumento di 120.000 occupati sull’anno precedente pari a +1,9%, superiore alla media nazionale che in quell’anno è dell’1,46%, da far risalire in gran parte al “bonus assunzioni” che fa sentire i suoi effetti maggiormente nel Mezzogiorno dove il credito è più elevato. Inoltre, nel Mezzogiorno è proporzionalmente più elevata la quota di lavoro temporaneo, a indicare più che una maggiore richiesta di flessibilità organizzativa delle imprese uno strumento di compressione salariale e dunque una debolezza strutturale del tessuto socio-economico. Infine è presumibile che i fenomeni collegati all’emersione abbiano comportato maggiori effetti in quest’area in cui l’economia sommersa riveste un ruolo superiore a quello, già notevole, del resto del paese. Con l’esaurirsi della parabola crescente e con il venir meno di quei fattori positivi, che assumono un peso particolare nel Mezzogiorno, il divario torna ad aumentare. I dati relativi alle prime tre rilevazioni del 2003 ci mostrano addirittura un decremento di occupazione rispetto al 2002: la parabola ascendente si è cioè arrestata prima che nel resto del paese e il declino si manifesta in modo più brusco.
 
10. Qualche conclusione
 
Si può dunque affermare che è in atto un’inversione di tendenza nell’andamento dell’occupazione. Alcuni fattori di stimolo all’occupazione, quali la diffusione di forme di lavoro atipico, il mutamento di composizione settoriale a favore dei servizi e di settori a più alta intensità di lavoro, hanno esaurito la loro spinta già da qualche anno. Se, nonostante questo, la crisi dell’occupazione non si è manifestata in concomitanza con le prime battute d’arresto del sistema produttivo lo si deve al fatto che hanno continuato ad esercitare la loro influenza ancora per circa un biennio altri fattori quali l’incentivazione delle assunzioni a tempo indeterminato, il rallentamento delle uscite anticipate dal mercato del lavoro (verso la pensione) delle fasce più anziane, l’emersione di lavoro nero, tra cui quello degli immigrati in corso di regolarizzazione. Ora che anche questi fenomeni si stanno esaurendo o stanno perdendo di peso, l’occupazione tende a diminuire e, per un effetto di scoraggiamento, diminuiscono ancora più velocemente le forze di lavoro. Di conseguenza, diminuisce anche la disoccupazione ma trattandosi della sommatoria di due fenomeni negativi non c’è motivo di gioire per questo. L’attuale tendenza negativa dell’occupazione ha conseguenze soprattutto sulle fasce più deboli del mercato del lavoro. Assistiamo a un rallentamento nel flusso di ingresso delle donne nel mercato del lavoro che fa da freno al processo di riequilibrio nella composizione di genere, mentre si verifica un vero e proprio ritorno indietro quanto ai processi di riequilibrio generazionali e territoriali, con una nuova accentuazione delle storture e delle iniquità nella partecipazione al lavoro. L’unico motivo di ottimismo, quanto ai soggetti deboli è rappresentato dalla riserva di immigrati da regolarizzare. Il riequilibrio settoriale verso settori a maggiore presenza di lavoro si è attenuato e da solo, comunque, non può bastare. Il nodo non eludibile è rappresentato dalla debolezza strutturale del nostro sistema produttivo, troppo poco diversificato, troppo frammentato e in larga misura assente, per un’insufficiente investimento in innovazione, ricerca e sviluppo, dai settori che svolgono un ruolo di punta sul mercato mondiale quanto a dinamica della domanda. Se non si pone mano alla domanda di lavoro per questi aspetti non c’è speranza di veder ripartire il treno dell’occupazione. Infine la buona occupazione e la politica dell’offerta rinviano all’altra fondamentale debolezza strutturale riguardante il lavoro, la sua qualità. La flessibilità non può essere considerata un valore: è un vincolo dettato dalle attuali caratteristiche del mercato mondiale, cui bisogna saper contrapporre una valorizzazione del capitale umano attraverso protezioni e tutele, da un lato, per affrontare i rischi e le incertezze, formazione, dall’altro, per dotarsi degli strumenti essenziali per guidare il futuro e non subirlo, per essere padroni del proprio destino (individuale e collettivo) e non alla mercè del padrone di turno.
Lunedì, 3. Novembre 2003
 

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