Esaurita la funzione esercitata dalla diffusione del lavoro flessibile e dal rallentamento delle uscite degli anziani. Ed ora conseguenze soprattutto sulle fasce più deboli del mercato del lavoro, a cominciare dalle donne.
Negli ultimi anni in Italia si è assistito a una progressiva perdita di posti di lavoro in aree chiave del settore produttivo. Nello stesso tempo, mentre la crescita del PIL scendeva a livelli inferiori alluno per cento, lelasticità delloccupazione al PIL (o contenuto occupazionale della crescita) segnava livelli eccezionalmente alti. Come si spiegano questi due fenomeni apparentemente contradditori? Nella seconda metà dello scorso decennio si è invertita la tendenza a uno sviluppo che divorava occupazione e si sono creati posti di lavoro grazie ad alcuni fattori quali il mutamento di composizione settoriale a favore dei servizi e di settori a più alta intensità di lavoro, la diffusione del lavoro flessibile e poi lincentivazione delle assunzioni a tempo indeterminato, il rallentamento delle uscite dal mercato del lavoro delle fasce più anziane, lemersione di lavoro nero. Alcuni di questi fattori hanno esaurito la loro spinta già da qualche anno. Se, nonostante questo, la crisi delloccupazione si è manifestata in ritardo rispetto allarresto del sistema produttivo lo si deve al fatto che altri fattori hanno continuato ad esercitare la loro influenza ancora nellultimo biennio: bonus assunzioni, rallentamento delle uscite degli anziani, emersione, in particolare degli immigrati in corso di regolarizzazione. Ora che anche questi fenomeni si stanno esaurendo o stanno perdendo di peso, loccupazione tende a diminuire e, per un effetto di scoraggiamento, diminuiscono ancora più velocemente le forze di lavoro. Di conseguenza, diminuisce anche la disoccupazione ma trattandosi della sommatoria di due fenomeni negativi non cè motivo di gioire per questo. Lattuale tendenza negativa delloccupazione ha conseguenze soprattutto sulle fasce più deboli del mercato del lavoro. Rallenta il flusso di ingresso delle donne nel mercato del lavoro e quindi il riequilibrio nella composizione di genere, si torna indietro quanto ai processi di riequilibrio generazionali e territoriali, con una nuova accentuazione delle storture e delle iniquità nella partecipazione al lavoro. Lunico motivo di ottimismo, quanto ai soggetti deboli è rappresentato dalla riserva di immigrati da regolarizzare.
1. Crisi industriale e crisi occupazionale.
Negli ultimi anni in Italia si è assistito a una progressiva perdita di posti di lavoro in aree chiave del settore produttivo. Le grandi imprese dellindustria perdono negli ultimi due anni e mezzo quasi il 10% dei posti di lavoro. Dopo un periodo (nella seconda metà degli anni Novanta) in cui si era registrato un saldo positivo tra contributi e prestazioni, nel triennio 2000-2002 la cassa integrazione ordinaria dellindustria ha un balzo davvero imponente. Questo insieme di segnali negativi sembra essere contraddetto da una performance positiva sia quanto al contenuto occupazionale della crescita economica, che resta elevato, sia quanto al tasso di disoccupazione, che diminuisce. La maggioranza di governo si fa anzi scudo di questi dati per negare o minimizzare la portata della crisi occupazionale. Come siano collegati tra loro questi due fenomeni, apparentemente in contrasto tra loro, merita dunque di essere spiegato anche per cogliere quale sia davvero il segno della fase in corso e per delineare che cosa ci si può attendere per il futuro.
2. La fase di crescita delloccupazione è finita
La fase di crescita delloccupazione iniziata nel 1996, durata sino allinizio del 2003, si è definitivamente conclusa e ha lasciato il passo a metà 2003, per la prima volta dalla metà degli anni 90, a un declino. Loccupazione, dopo aver manifestato evidenti segni di rallentamento dal 2002 (+ 1,36%, contro + 1,89% nel 2001 e +1,9% nel 2000) segna per la prima volta con la rilevazione ISTAT di luglio 2003 un declino rispetto al trimestre precedente sia quanto a occupati (dato destagionalizzato, - 6.000 unità) sia quanto a forze di lavoro (dato destagionalizzato, - 22.000 unità). Di conseguenza, anche la (sola) anomalia positiva della situazione economica in Italia, che consiste in un contenuto occupazionale della crescita (o elasticità delloccupazione rispetto al PIL, cioè il rapporto tra tasso di crescita delloccupazione e tasso di crescita del PIL) eccezionalmente elevato, è destinata ad esaurirsi. Questo indicatore, che dopo il 1997 si è mantenuto stabilmente superiore allo 0,5, è arrivato nel 2002, quando landamento del PIL è sceso al di sotto dell 1% su base annua (+0,4%), a superare il fattore 1: in quellanno, loccupazione essendo cresciuta dell1,4%, lelasticità rispetto al PIL è schizzata al valore 3,5. Anche per il 2003, con un PIL che si prevede cresca tra 0,3 e 0,5%, loccupazione registrerà un aumento tra 0,7 e 0,8% su base annua, confermando un elasticità rispetto al PIL vicina al fattore 2. Con il prossimo anno di questo miracolo non resterà che il ricordo. Al di là della esiguità del dato assoluto della diminuzione di occupazione nellultimo trimestre, quello che deve seriamente preoccupare è la chiusura di una parabola crescente. Si arresta inesorabilmente una tendenza alla crescita che era durata, con effetti di trascinamento nel tempo, per tutto il ciclo corrispondente al governo di centro sinistra.
3. Diminuisce la disoccupazione, crescono gli scoraggiati
Come conseguenza del fatto che il declino delle forze di lavoro è stato più sensibile di quello degli occupati, il tasso di disoccupazione è risultato in diminuzione. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare a giudicare dalle manifestazioni di soddisfazione nella maggioranza, questo dato rispecchia esclusivamente la diversa intensità di due fenomeni ambedue negativi: il ritmo con cui i disoccupati escono dal mercato del lavoro e smettono di cercare un lavoro (per un effetto di scoraggiamento) è più accelerato del ritmo delle uscite dal mondo del lavoro: non a caso la diminuzione più sensibile di persone in cerca di occupazione si registra nel Mezzogiorno (6,4 % negli ultimi diciotto mesi contro un aumento dell 1,3% nel resto dItalia) in corrispondenza della più rapida frenata delloccupazione.
4.L'elevata crescita negli ultimi anni
Che si stia assistendo a una inversione di tendenza di carattere strutturale è confermato, contro ogni ottimismo della attuale maggioranza, da un esame più puntuale dellandamento delle variabili che, secondo analisi convergenti tra tutte le fonti più accreditate, sono state proposte per fornire una spiegazione dellelevato contenuto occupazionale della crescita degli ultimi anni: a) la modificazione della composizione settoriale delleconomia italiana a favore di settori a maggiore intensità di lavoro (servizi), che ha comportato un abbassamento del rapporto tra prodotto e occupati; b) la progressiva diffusione di forme di lavoro flessibile (e spesso precario), che ha ripartito il lavoro necessario tra più occupati (di conseguenza, con meno ore lavorate); c) il rallentamento delle uscite dal mercato del lavoro (verso la pensione) della classe di età più elevata (50-64 anni) che, a parità di flusso di entrata dalla classe inferiore, ha portato un saldo netto positivo degli occupati in quella fascia di età; d) lemersione di posizioni lavorative fin qui sommerse da cui è derivata la visibilità di quelle fin lì nascoste (oltre che al fisco, agli enti previdenziali e agli ispettorati) anche alle statistiche.
5. Le modifiche. La crescita dei servizi
Passando ad esaminare landamento di questi fattori, possiamo rilevare come sia rallentata la dinamica di assunzioni anche nel settore dei servizi, cosicché il mutamento di composizione settoriale non è più in grado di alimentare la creazione netta di posti di lavoro. Il decennio tra il 1990 e il 2000 e non solo il periodo successivo al 1996 è stato caratterizzato da un aumento del peso degli occupati nei settori dei servizi a più bassa produttività per occupato (oltre che con meno ore lavorate per occupato) dal 60,2% delloccupazione totale nel 1990 al 65,5% nel 2000. Con la contemporanea diminuzione del peso relativo degli occupati nei settori a più elevata produttività (sia per occupato che per ora lavorata) rappresentati dallindustria in senso stretto (dal 32,4% delloccupazione totale, nel 1990 al 29,6% nel 2000) si è così determinato un processo di sostituzione e quindi un rapporto tra occupati e prodotto interno lordo più favorevole al fattore lavoro senza che ciò rispecchiasse una perdita di competitività in termini di produttività oraria. Se tuttavia il progressivo aumento del peso relativo delloccupazione nei servizi caratterizza ininterrottamente tutto il decennio, è solo a partire dal 1996 che, pur non aumentando di intensità, riesce a compensare landamento negativo di industria e agricoltura. La differenza nel ciclo delloccupazione (linversione di tendenza, dalla diminuzione alla crescita) tra la prima e la seconda metà degli anni Novanta si spiega dunque, quanto allaspetto della composizione settoriale, con il fatto che mentre il tasso di crescita nei servizi rimane sostanzialmente invariato (in media tra il 1990 e il 1995 aumenta dello 0,56% annuo, tra il 1996 e il 2000 dello 0,52% annuo) si fa meno accentuato il declino nellindustria che, dopo aver toccato il minimo nel 1996, registra un periodo di crescita (in termini assoluti) fino al 2001 ad un tasso ridotto ma di segno positivo. Dal 2001 la crescita degli occupati nel settore dei servizi rallenta sia in termini relativi sia in termini assoluti, non riuscendo così a compensare landamento dellindustria e dellagricoltura quando, come sta ora avvenendo, tornano a calare.
6. La diffusione del lavoro atipico
Quanto alla progressiva diffusione di forme di lavoro dipendente flessibile si può dire che caratterizzi in particolare la fase fino al 1999-2000 ma che abbia dimostrato già da allora, se non di essersi esaurito, quanto meno di aver perso rilevanza. La fase di maggiore crescita è generalmente ricondotta, per un verso, al Patto del 23 luglio 1993, nel senso di una maggiore disponibilità sindacale, nella cornice della contrattazione nazionale e aziendale, a concedere forme di flessibilità in tema di orario e di nuove assunzioni, per laltro, al Patto per il Lavoro tra Governo Prodi e sindacati confederali (e conseguente legge 196/97) che ha direttamente portato a modifiche normative che agevolavano i rinnovi per i contratti a termine e introducevano il lavoro interinale. Dipendenti a part-time e a tempo determinato, la cui quota sulloccupazione globale era rimasta sostanzialmente stabile fino al 1995-1996 (i contratti part-time nel 1996 erano il 6,5% delloccupazione globale e quelli a tempo determinato il 7,4%), crescono da allora ad un tasso di incremento superiore a quello generale delloccupazione fino al 2000, arrivando in quellanno a ricoprire rispettivamente l8,4% il part-time e il 10,1% il tempo determinato. Nel complesso, nel periodo tra il 1996 e il 2000 laumento di occupati a tempo determinato (+721.000 unità) rappresenta da solo il 72,1% del complessivo aumento di occupazione; laumento di occupati part-time, a tempo indeterminato e determinato, (+504.000 unità) arriva a coprire il 50,5% del totale. Dal 2000 il trend di crescita tuttavia si interrompe. I lavoratori a tempo determinato contribuiscono appena per il 6,6% allaumento complessivo tra il 2000 e il 2003, nonostante il varo in questo arco di tempo, a metà del 2001, appena entrato in carica il Governo Berlusconi, della nuova normativa, più flessibile e più favorevole alle imprese, sui contratti a termine. Lo stesso avviene per i lavoratori part-time, che rimangono grosso modo stazionari tra il 2000 e il 2003. Il contributo delloccupazione flessibile alla performance positiva del mercato del lavoro italiano in termini di elasticità rispetto alla crescita è dunque altalenante. Peraltro, è assai controverso che si possa parlare davvero di un contributo alloccupazione se si guarda ai posti di lavoro equivalenti a tempo pieno. Se si considera che le ore lavorate sono rimaste sostanzialmente stabili tra il 1996 e il 1999 (+ 0,3 nel primo biennio, - 0,3 nel secondo), proprio quando landamento crescente dei contratti atipici è stato più sostenuto, se ne può arguire che si è trattato più che altro di una redistribuzione tra un maggior numero di lavoratori di una quantità di lavoro (ore lavorate) rimasta nel complesso immutata. In conclusione, si può affermare che allallentamento di alcuni vincoli relativi a forme di lavoro atipico con il pacchetto Treu si è accompagnato negli anni immediatamente successivi un incremento di occupati più che altro in termini di redistribuzione delle ore lavorate, rimaste nel complesso stabili; che non si rileva alcun impatto significativo dei primi provvedimenti di liberalizzazione adottati dal governo Berlusconi (nuovo regime dei contratti a termine nel 2001). Non vi è dunque nulla che faccia presumere che si possa registrare qualche impatto positivo sulloccupazione per linsieme di nuove norme derivanti dalla riforma Biagi. Al contrario dimostra con tutta evidenza di essersi esaurito il fenomeno, che si era sovrapposto dapprima e sostituito poi, dopo il 2000, allincremento di lavoro atipico, dato da una dinamica sostenuta dei contratti a tempo indeterminato. Un andamento che viene fatto risalire principalmente ai provvedimenti di incentivazione (bonus, ovvero credito di imposta) delle assunzioni a tempo indeterminato (anche come trasformazione di contratti a tempo) adottati nellultima Finanziaria della legislatura di centro-sinistra. Questi provvedimenti peraltro hanno presumibilmente influito più sulla composizione delloccupazione (a favore di quella permanente), che sulla sua entità, in termini di creazione netta di nuovi posti di lavoro, oltre ad aver favorito lemersione di occupazione fino allora sommersa.
7. Il rallentamento delle uscite dei lavoratori anziani
Quanto al rallentamento delle uscite per pensionamento, si deve rilevare come il tasso di occupazione relativo alla fascia di età 55-64 anni abbia ripreso a crescere dopo il 99. A fronte di un aumento degli occupati totali ipotizzabile (come media 2003 rispetto alla media dellanno precedente) attorno alle 160.000 unità, la fascia di età tra i 50 e i 59 anni segna già, sui primi tre trimestri, un aumento di poco superiore alle 150.000 unità. Come dire che la variazione di occupazione dellanno in corso potrà essere spiegata quasi totalmente attraverso laumento di quella fascia di età. Laumento del numero assoluto di occupati trova una sua prima spiegazione nellandamento demografico, in quanto negli ultimi cinque anni sono uscite dalla classe 50-59 le generazioni nate durante la guerra, rimpiazzate da quelle, molto più numerose, nate fra il 1949 e il 1953. A questo fenomeno si devono aggiungere, per spiegare anche laumento in termini relativi del tasso di occupazione e la diminuzione delle non forze di lavoro, gli effetti di alcune novità normative in materia previdenziale. Da un lato laumento da 56 a 57 anni del requisito anagrafico per laccesso alla pensione danzianità ha determinato un minore flusso di uscite (come è testimoniato anche dai dati INPS) mentre contemporaneamente si poneva un freno alla pratica del ricorso ai pre-pensionamenti. In secondo luogo nel corso del 2003 sono entrate in vigore le nuove norme sul cumulo (che prevedono la totale cumulabilità in presenza di 58 anni di età e 37 anni di contribuzione) e la sanatoria per coloro che non avessero ottemperato agli obblighi previsti dalla legge per i pensionati che lavorano, che hanno favorito la prosecuzione dellattività lavorativa ovvero incentivato lemersione. Cè da chiedersi quale potrà essere la proiezione futura di questo andamento, una volta che leffetto demografico andrà ad attenuarsi (in prospettiva fino ad invertire il segno, guardando allandamento successivo al baby-boom del dopoguerra), e soprattutto quali conseguenze avranno gli interventi sulle pensioni, annunciati dallattuale Governo. In particolare, è del tutto chiaro come lattuale normativa, che consente il cumulo pensione-lavoro, entra in conflitto con le ipotesi di incentivo alla permanenza, mentre lannuncio di una revisione dei requisiti per il pensionamento di anzianità può prevedibilmente sortire leffetto indesiderato, nel breve periodo, di incentivare lesodo.
8. Lemersione dal sommerso
Una parte notevole dellincremento di occupazione degli ultimi anni deve essere fatta risalire allemersione di posizioni lavorative dal sommerso. A fronte del totale fallimento degli ambiziosi e sconclusionati programmi concepiti dal Ministro dellEconomia e dal Presidente di Confindustria, che hanno peraltro comportato come effetto collaterale larchiviazione definitiva del tentativo, timido ma non privo di efficacia, avviato con i contratti di allineamento, qualunque riferimento a percorsi di emersione di lavoro nero può apparire infondato. Tuttavia, a fianco dei provvedimenti di Tremonti, e per certi versi ad onta di quelli, altri hanno agito nel senso di favorire lemersione dal sommerso. Mentre non va trascurato leffetto di attivazione sociale (e in qualche misura politica) innescata dallavvio dei Comitati per lEmersione, una parte notevole è stata giocata dallentrata in vigore (nel marzo del 2000) della nuova normativa sullobbligo di denuncia INAIL contestuale alle assunzioni (obbligo che il provvedimento varato dal Ministro Maroni sullo stato di disoccupazione ha provveduto a edulcorare attraverso lintroduzione di una fase transitoria prima non prevista). Se a ciò si aggiungono i provvedimenti, già citati, di incentivazione delle assunzioni a tempo indeterminato e di abolizione del divieto di cumulo tra pensione e reddito da lavoro, si compone un quadro di regole che può dar conto di una rilevante emersione di lavoro nero. Se si calcola, in modo un po grossolano ma efficace, la dimensione quantitativa dellanomalia italiana quanto a elasticità delloccupazione rispetto al PIL come differenza tra landamento che si è effettivamente registrato a partire dal 1999 e quello che si sarebbe avuto con una elasticità normale (allineata al valore, circa 0,6, del triennio 1998-2000) si ha come risultato un eccesso di circa 600.000 posti di lavoro: una cifra piuttosto vicina a quella che varie fonti indicano, in base a una valutazione analitica degli effetti dei tre provvedimenti (contatore INAIL, bonus assunzioni, abolizione del cumulo), come ordine di grandezza presumibile dellemersione dal sommerso nel corrispondente periodo. Per ciascuno dei tre provvedimenti, per le ragioni già accennate, ci si può attendere una attenuazione, anche drastica, degli effetti favorevoli allemersione. Un altro rilevante fenomeno di emersione dal sommerso, che per le caratteristiche stesse della rilevazione effettuata dallISTAT non può che tradursi in un aumento di occupazione visibile, è rappresentato dalla regolarizzazione degli immigrati. La massiccia sanatoria messa in moto dalla Bossi-Fini (circa 750.000 domande di regolarizzazione), poiché presupponeva il requisito di unoccupazione regolare, nel momento in cui comportava linserimento negli elenchi dei residenti tra cui avviene il sorteggio del campione oggetto della rilevazione comporta un effetto immediato di aumento della quota di popolazione occupata rispetto alle non forze di lavoro. Considerando che liter della sanatoria è stato fin qui completato per un terzo, ne risulta un incremento di occupati abbastanza vicino (e perfino superiore) a quello complessivamente calcolato dallISTAT per lultimo anno. Anche se non può essere definita come nuova occupazione in senso pieno, questa massa ingente di immigrati in attesa di regolarizzazione rappresenta dunque lunico bacino potenziale di incremento delle forze di lavoro nei prossimi mesi, fintanto che quel mezzo milione circa di pratiche pendenti non saranno state evase.
9. Donne. Giovani. Mezzogiorno
Linversione di tendenza nella dinamica occupazionale non ha lasciato inalterati i rapporti interni tra i diversi segmenti del mercato del lavoro. In particolare, la fase di crescita sostenuta aveva portato ad un significativo aumento del tasso di occupazione per alcuni dei soggetti storicamente svantaggiati nel mercato del lavoro italiano. Le donne, che avevano rappresentato tra il 1996 e il 2001 più di due terzi dellaumento complessivo di occupazione, tra il 2001 e il 2002 scendono a rappresentare il 57,6%. A loro volta, i giovani, la fascia di età che aveva maggiormente risentito della crisi occupazionale della prima metà degli anni Novanta, (il tasso di occupazione sulla fascia di età 15-24 era passato dal 28,3% al 25,3% in soli tre anni tra il 1993 e il 1996) nel periodo fino al 2001 avevano segnato un qualche recupero del tasso di occupazione, mentre nel nuovo ciclo declinante tornano a registrare una diminuzione in cifra assoluta cui corrisponde un peggioramento relativo, in termini di tasso di occupazione, di circa un punto. Quanto al Mezzogiorno, nel corso del periodo di maggiore crescita delloccupazione, pur non tenendo il passo del resto del paese si mantiene tuttavia poco distante: il tasso cumulato di crescita delloccupazione tra il 1996 e il 2000 è +4,6% contro una media nazionale di + 6,1%. Il 2002 segna un punto di svolta: un aumento di 120.000 occupati sullanno precedente pari a +1,9%, superiore alla media nazionale che in quellanno è dell1,46%, da far risalire in gran parte al bonus assunzioni che fa sentire i suoi effetti maggiormente nel Mezzogiorno dove il credito è più elevato. Inoltre, nel Mezzogiorno è proporzionalmente più elevata la quota di lavoro temporaneo, a indicare più che una maggiore richiesta di flessibilità organizzativa delle imprese uno strumento di compressione salariale e dunque una debolezza strutturale del tessuto socio-economico. Infine è presumibile che i fenomeni collegati allemersione abbiano comportato maggiori effetti in questarea in cui leconomia sommersa riveste un ruolo superiore a quello, già notevole, del resto del paese. Con lesaurirsi della parabola crescente e con il venir meno di quei fattori positivi, che assumono un peso particolare nel Mezzogiorno, il divario torna ad aumentare. I dati relativi alle prime tre rilevazioni del 2003 ci mostrano addirittura un decremento di occupazione rispetto al 2002: la parabola ascendente si è cioè arrestata prima che nel resto del paese e il declino si manifesta in modo più brusco.
10. Qualche conclusione
Si può dunque affermare che è in atto uninversione di tendenza nellandamento delloccupazione. Alcuni fattori di stimolo alloccupazione, quali la diffusione di forme di lavoro atipico, il mutamento di composizione settoriale a favore dei servizi e di settori a più alta intensità di lavoro, hanno esaurito la loro spinta già da qualche anno. Se, nonostante questo, la crisi delloccupazione non si è manifestata in concomitanza con le prime battute darresto del sistema produttivo lo si deve al fatto che hanno continuato ad esercitare la loro influenza ancora per circa un biennio altri fattori quali lincentivazione delle assunzioni a tempo indeterminato, il rallentamento delle uscite anticipate dal mercato del lavoro (verso la pensione) delle fasce più anziane, lemersione di lavoro nero, tra cui quello degli immigrati in corso di regolarizzazione. Ora che anche questi fenomeni si stanno esaurendo o stanno perdendo di peso, loccupazione tende a diminuire e, per un effetto di scoraggiamento, diminuiscono ancora più velocemente le forze di lavoro. Di conseguenza, diminuisce anche la disoccupazione ma trattandosi della sommatoria di due fenomeni negativi non cè motivo di gioire per questo. Lattuale tendenza negativa delloccupazione ha conseguenze soprattutto sulle fasce più deboli del mercato del lavoro. Assistiamo a un rallentamento nel flusso di ingresso delle donne nel mercato del lavoro che fa da freno al processo di riequilibrio nella composizione di genere, mentre si verifica un vero e proprio ritorno indietro quanto ai processi di riequilibrio generazionali e territoriali, con una nuova accentuazione delle storture e delle iniquità nella partecipazione al lavoro. Lunico motivo di ottimismo, quanto ai soggetti deboli è rappresentato dalla riserva di immigrati da regolarizzare. Il riequilibrio settoriale verso settori a maggiore presenza di lavoro si è attenuato e da solo, comunque, non può bastare. Il nodo non eludibile è rappresentato dalla debolezza strutturale del nostro sistema produttivo, troppo poco diversificato, troppo frammentato e in larga misura assente, per uninsufficiente investimento in innovazione, ricerca e sviluppo, dai settori che svolgono un ruolo di punta sul mercato mondiale quanto a dinamica della domanda. Se non si pone mano alla domanda di lavoro per questi aspetti non cè speranza di veder ripartire il treno delloccupazione. Infine la buona occupazione e la politica dellofferta rinviano allaltra fondamentale debolezza strutturale riguardante il lavoro, la sua qualità. La flessibilità non può essere considerata un valore: è un vincolo dettato dalle attuali caratteristiche del mercato mondiale, cui bisogna saper contrapporre una valorizzazione del capitale umano attraverso protezioni e tutele, da un lato, per affrontare i rischi e le incertezze, formazione, dallaltro, per dotarsi degli strumenti essenziali per guidare il futuro e non subirlo, per essere padroni del proprio destino (individuale e collettivo) e non alla mercè del padrone di turno.
Lunedì, 3. Novembre 2003