Occupazione, qualche piccola luce

I dati del primo semestre 2006 segnalano una significativa crescita degli occupati, mentre torna ad aumentare la produttività. Bene le donne e migliorano gli squilibri territoriali, ma si conferma il trend che vede sempre meno utilizzato il contratto a tempo indeterminato
Dopo sei mesi di governo Prodi, ha senso cercare nelle statistiche qualche indizio sui primi risultati della sua azione nel campo dell'occupazione? Per l'andamento dell'economia e della finanza pubblica si è tentato di farlo, ad esempio, mettendo in relazione l'impennata delle entrate fiscali che si è registrata nel primo semestre di quest'anno con il mutato clima politico (e civile, e morale) che avrebbe esercitato un effetto di dissuasione nei confronti dell'evasione fiscale. Si possono rintracciare fenomeni di questo genere anche nell'andamento dell'occupazione, che possano giustificare prime valutazioni di impatto dell'azione di governo?

I dati relativi all'andamento del mercato del lavoro nei primi sei mesi del 2006 (vedi tabella) ci presentano un quadro che segnala finalmente una crescita significativa degli occupati e tutto lascia ritenere che alla base di questo dato positivo vi sia il superamento della lunga fase di stagnazione economica che aveva caratterizzato il periodo precedente, in coincidenza con il governo della destra. Quanto agli aspetti qualitativi, non si possono ancora percepire, tuttavia, significative inversioni di tendenza nei processi di deterioramento rilevati negli ultimi anni.

La fine della fase prolungata di stagnazione è accompagnata, come era del resto prevedibile e per molti versi auspicabile, da un aumento della produttività del lavoro, ma non fino al punto di "divorare" posti di lavoro. Sembra quindi che le imprese stiano uscendo dalla fase che si è protratta negli ultimi anni, durante i quali si erano orientate in prevalenza a salvaguardare la remunerazione del capitale, investendo sul lavoro a basso costo anziché sulla tecnologia e praticando prezzi alti all'esportazione, così da perdere quote di mercato proprio nel momento di massima espansione dell'economia mondiale. La fase delle scelte di brevissimo periodo e di corto respiro, che è stata anche la fase della profittabilità a spese della competitività, se non si può dire del tutto alle spalle, sembra così lasciare lentamente il terreno a strategie più valide.

Vi sono inoltre due aspetti specifici di segno positivo: la sensibile ripresa del  trend di crescita del tasso di occupazione sulla popolazione 15-64 anni (l'indicatore attorno al quale si concentra l'attenzione ai fini del raggiungimento degli obiettivi europei) e l'inversione di tendenza per quanto riguarda la composizione di genere (la crescita del tasso di occupazione è da attribuire per intero alla componente femminile, che fa registrare un vero e proprio balzo in avanti).

Anche quanto alla distribuzione territoriale, sembra arrestarsi la tendenza, degli anni successivi al 2002, ad un'accentuazione dei divari territoriali. I dati relativi al 2006 ci dicono quindi che, dopo la stagnazione economica del periodo 2003-2005 durante la quale, se non è diminuita l'occupazione si è però prodotto un aumento sensibile delle disuguaglianze, giungono finalmente segnali incoraggianti di inversione di tendenza e di riduzione dei divari storici, di genere e territoriali.

Quanto alla composizione settoriale, il confronto tra i dati omogenei mostra un calo di occupati nel settore delle costruzioni, che nei precedenti tre anni aveva fatto registrare una performance di crescita sostenuta, mentre perdura la stasi dell'industria manifatturiera e si assiste a un progresso consistente nel settore terziario la cui crescita corrisponde come entità a quella dell'insieme degli occupati.

Passando a prendere in considerazione gli aspetti qualitativi, per ciò che riguarda il lavoro a tempo parziale si registra un incremento tra il primo semestre del 2005 e del 2006 pari a quasi due quinti di quello degli occupati nel complesso  (174.000 unità su 455.000) e a più di tre quinti per la componente femminile, aumenta in misura consistente (126.000 unità, su 207.000 totali) senza che giungano segnali di un'espansione della quota dovuta a scelta volontaria del lavoratore/della lavoratrice: aumenta in misura maggiore per i dipendenti a termine, per i quali si tratta in prevalenza di una tipologia imposta all'atto dell'assunzione piuttosto che liberamente scelta; in misura minore per gli indipendenti rispetto ai dipendenti, il cui aumento è all'incirca doppio.
 
Per l'occupazione a termine, prosegue la tendenza all'aumento, costante da qualche anno a questa parte (grosso modo nella stessa proporzione per la componente maschile e femminile, che mantiene comunque un valore più elevato di circa 4 punti e mezzo). Rispetto alla diffusione media dei contratti a carattere temporaneo in Europa (13,7% dell'occupazione totale nel 2004), il dato italiano è inferiore di circa 5 punti. In realtà, si deve invece tener conto del fatto che il quadro statistico subisce una distorsione per la peculiarità italiana consistente nelle collaborazioni (coordinate e continuative, poi "a progetto") che, pur implicando a tutti gli effetti un rapporto di lavoro a scadenza, di durata limitata, assumono tuttavia la veste formale di un lavoro autonomo. Si tratta, secondo l'ISTAT, di 377.000 unità nel 2005, l'1,7% dell'intera massa di occupati, a cui si devono aggiungere 80.000 collaboratori occasionali.

Sulla credibilità di questi dati è lecito nutrire dubbi, a fronte della grande quantità di posizioni aperte presso il Fondo Gestione Separata dell'INPS destinato proprio ai collaboratori (3.373.000 nel 2004, di cui circa il 50% attivi nel corso dell'anno). E' pur vero che gli archivi INPS comprendono anche altre figure di professionisti (amministratori, revisori, ecc.), nonché quanti esercitano solo marginalmente quel tipo di attività senza che il loro reddito ne dipenda in misura determinante (pensionati, doppio-lavoristi, rentiers), e che, al netto di queste figure la cifra che risulta, secondo le elaborazioni dell'IRES-CGIL, supera di poco le 800.000 unità. Pur con questo, anche considerando che la rilevazione ISTAT riguarda quanti dichiarano di averla svolta nella settimana di riferimento mentre il dato INPS comprende tutti coloro che hanno lavorato nel corso dell'anno, la differenza tra i due dati si giustifica solo se si ipotizza una durata media dei rapporti di lavoro pari a poco meno di sei mesi all'anno: ipotesi plausibile ma probabilmente eccessivamente bassa. Si può quindi ritenere che la rilevazione ISTAT porti a sottostimare in qualche misura il fenomeno. Immaginando una durata media annua delle collaborazioni di sette-otto mesi, quel dato deve essere aumentato all'incirca di un centinaio di migliaia di unità.

E' invece realistico che tra il 2003 e il 2005 siano diminuiti, come mostra la rilevazione ISTAT (di poco più di 100.000 unità), tanto più se si considera che anche l'aggregato dei contribuenti attivi INPS, tra il 2003 e il 2005, si è ridotto di 170.000 unità. Ciò significa però che non si è verificata nessuna erosione significativa delle collaborazioni a seguito della legge 30, come promettevano i suoi fautori (e paventavano altri, paladini della liberalizzazione "autentica" del mercato del lavoro, come il professor Pietro Ichino) ma solo una modesta riorganizzazione, nell'ambito della quale sarebbe anche da dimostrare che le collaborazioni "svanite" abbiano preso prevalentemente la strada della trasformazione in rapporti di lavoro subordinato e non quella dell'ulteriore mascheramento sotto altre forme se possibile ancora più elusive (dalle associazioni in partecipazione alle partite IVA, per non dire del sommerso).

E' inoltre molto dubbio che il fenomeno sia destinato a durare. Al contrario, esaurito l'effetto iniziale, l'aver dato una veste compiuta e pienamente legittima a questa tipologia contrattuale rischia di portare, stando alle indagini che autorevoli istituti come l'ISAE e l'Istituto Tagliacarne effettuano a proposito delle intenzioni di assunzione delle imprese italiane, a una dinamica esattamente opposta: all'erosione dell'area del lavoro subordinato da parte di questa forma ibrida, fortemente in odore di elusione, fiscale, contributiva oltre che contrattuale.
 
L'indagine ISAE sull'andamento delle assunzioni nel corso del 2005 mostra un diffuso ricorso alle collaborazioni a progetto (preminente rispetto a ogni altra tipologia nel comparto dei servizi, che si conferma anche nelle previsioni per il 2006) mentre risulta nettamente in calo il lavoro a tempo indeterminato; per l'indagine Unioncamere - Ministero del Lavoro (Excelsior) le assunzioni di collaboratori a progetto corrispondono a un quarto circa di quelle in forma di lavoro dipendente; inoltre, tra queste il lavoro a termine ha un peso quasi equivalente  a quello a tempo indeterminato, per il quale si conferma la tendenza al declino.

Quest'ultimo fenomeno, la progressiva perdita di peso del lavoro "normale" (tale va considerato, anche secondo le direttive dell'Unione Europea, il lavoro a tempo indeterminato), è dunque quello che va seguito con attenzione, anche alla luce del programma di governo che punta a incentivare il ricorso a questa forma di occupazione, più stabile e di migliore qualità, sia quanto a tutele e diritti sia quanto a valorizzazione delle competenze e coinvolgimento del fattore umano nelle sorti dell'impresa.
 
Questo testo rappresenta un'anticipazione, in sintesi, del capitolo sull'occupazione del Rapporto "Occupazione e politica industriale" di novembre 2006 in corso di pubblicazione sulla rivista "Lavoro e Welfare" del Dipartimento Economia e Lavoro dei DS.
Venerdì, 24. Novembre 2006
 

SOCIAL

 

CONTATTI