Obama e la crisi: lezioni per la sinistra europea

La situazione, oltre ai problemi, offre anche un’opportunità davvero storica. Il mercato ha mostrato ancora una volta di essere incapace di auto-regolarsi e l'opinione pubblica ha rovesciato la sua ottica: ora è la destra a essere considerata "vecchia". Le forze progressiste devono sostenersi a vicenda in uno sforzo di creare una politica globale avanzata per gestire l’economia globale

Lo scrittore britannico Charles Dickens scrisse della rivoluzione francese che “era stato il migliore dei tempi possibili, ed era stato il peggiore dei tempi possibili…”. E anche se in America alcuni hanno suggerito che certi finanzieri di Wall Street meritano la ghigliottina, è troppo presto per asserire che questa crisi appartenga al catalogo storico delle catastrofi finanziarie.

 

Sulla base delle misurazioni del mercato del lavoro, gli Stati Uniti non hanno – ancora – raggiunto i livelli di disoccupazione delle recessioni del 1981-82 e, ancor meno, di quella degli anni Trenta. In termini di durata, invece, nel marzo del 2009 questa recessione ha già uguagliato la contrazione peggiore dalla Grande Depressione. E sono molte le misure del collasso finanziario a suggerire che siamo già caduti più rapidamente e più giù che nello stesso crollo del 1929.

 

Il futuro, naturalmente, non si può prevedere. Ma ci sono sviluppi che sono più probabili di altri. Se si toglie la polizia dalle strade di una comunità urbana, di regola si può contare su un aumento del tasso di criminalità. Così, se vengono deregolati i mercati finanziari, di regola si può contare su un aumento di truffe, irresponsabilità fiscale e frodi. Malgrado ciò, quanti sono stati i responsabili della deregolamentazione dei mercati finanziari americani, chiedono ora di non essere tenuti a render conto degli eventi che non erano in grado di prevedere. Alan Greenspan, che è stato a capo della Banca centrale americana per tutto il periodo nel quale si sono andate accumulando le bolle speculative del credito, ha in effetti spiegato al Congresso che nessuno poteva prevedere il collasso dei mercati finanziari dell’autunno scorso. “Non siamo abbastanza abili da prevedere il corso degli eventi tanto in anticipo”, ha sussurrato con modestia l’uomo che per due decenni era stato osannato proprio come il guru chiaroveggente dell’economia. L’ex segretario al Tesoro, Robert Rubin, che con Greenspan collaborò alla deregolazione del sistema finanziario americano, ha adesso detto che il crollo del 2008 è stato “una perfetta bufera: una convergenza straordinaria di forze della natura incontrollabili ed imprevedibili”. Però, attenendoci a questa metafora della “bufera perfetta”, quando esaminiamo i tre più importanti sistemi di turbolenza economica che l’anno scorso, convergendo, hanno imperversato, risulta impossibile credere che quelli che in America decidono la politica economica non li abbiano visti sopravvenire.

 

Il primo segnale di inconvenienti in arrivo era visibile nel fatto che i redditi reali da lavoro dipendente erano andati ristagnando in America per tre decenni di seguito mentre cresceva costantemente la produttività del lavoro. In questo modo, perché fosse possibile ai lavoratori mantenere il loro standard di vita e all’economia acquistare quel che veniva prodotto, la famiglia media non poteva che indebitarsi. Nel 1970 il debito al consumo ammontava a circa il 70% del consumo stesso. Nel 2007 era raddoppiato, a circa il 140%. Sappiamo che Greenspan e Rubin lo sapevano, conoscendo bene questi dati, perché di tanto in tanto, in quegli anni, hanno pur commentato lo scarto crescente fra salario del lavoro e valore di quel che producevano i lavoratori. Greenspan, il repubblicano, in effetti, arrivava a salutare con favore questo gap come indicazione della disciplina che la globalizzazione andava imponendo ai lavoratori americani. Rubin, il democratico, di quando in quando esprimeva anche rammarico per il fatto, oggettivo, che ai lavoratori spettasse una fetta più ridotta del reddito nazionale e suggeriva che forse, se si fossero riaddestrati e riqualificati, avrebbero potuto anche guadagnare di più. Ma nessuno dei due faceva alcuno sforzo per correggere la situazione.

 

Il secondo segnale era la bolla senza precedenti che aveva gonfiato i prezzi delle case: un fattore che conta per un terzo di tutta la spesa per consumi. Per un secolo, grosso modo, il prezzo delle case in America era andato in parallelo con la media generale dell’inflazione. Poi, a metà degli anni ’90, il prezzo reale delle case aveva accelerato e, nel corso del decennio successivo, era cresciuto del 70 per cento in più di tutti gli altri prezzi al consumo. La spinta veniva dalla speculazione, dal denaro a basso prezzo preso in prestito all’estero e dalle “famigerate” ipoteche subprime concesse a chi aveva il reddito insufficiente ai pagamenti mensili cui poi era tenuto a far fronte. Chi prestava il denaro giustificava questo meccanismo contando sul fatto che i prezzi delle case avrebbero continuato a salire più dei tassi di interesse. Quando i debitori fossero, eventualmente, restati indietro avrebbero così sempre potuto rifinanziarsi il prestito ipotecario, pagando in questo modo il debito accumulato. Gli anticipi elevati che percepivano ed il mercato secondario sul quale i creditori potevano rivendere le loro ipoteche, li incoraggiavano a correre il rischio. Praticamente ogni persona adulta in America sapeva che quel mercato edilizio era anormale e che la nozione di prezzi delle case che avrebbero continuato a salire a quel ritmo per i venti o trent’anni di durata di un’ipoteca era un ovvio nonsenso. Per cui non è credibile che Greenspan, Rubin e gli altri decisori politici non sapessero quel che succedeva. 

 

Il terzo segnale era nella ancor più massiccia bolla speculativa del credito, alimentata da banche, da fondi e società di investimento che, rimpacchettando le ipoteche da prestiti subprime nei cosiddetti titoli “derivati” il cui valore derivava, appunto, da una scommessa sul valore di altri titoli che, a loro volta potevano venir usati come collaterale per acquisire altri prestiti coi quali scommettere su altri derivati. Il processo si traduceva in una vera e propria catena di sant’Antonio a dimensione di tutto il mercato: i prezzi in aumento dipendevano da un continuo afflusso di nuovi investitori che arrivavano sul mercato per comprare titoli sempre più sopravvalutati, creando un debito sempre più insostenibile. Già a partire dalla primavera del 1998, Greenspan e Rubin erano stati avvertiti, da chi era a capo della Commissione di regolazione dei “futures”, che il mercato dei derivati era pericolosamente fuori controllo. La loro risposta fu di impedirle semplicemente di parlare del tema.

 

Come possiamo spiegare il comportamento di chi ha gestito la politica economica americana a fronte dell’evidenza che queste tendenze all’instabilità che si rafforzavano reciprocamente non erano sostenibili e che era solo questione di tempo prima che producessero la tempesta perfetta? Una risposta diffusa è il declino morale — l’eccesso di cupidigia. Non c’è dubbio, l’avidità era scatenata ma l’avidità è sempre stata e sempre sarà con noi. Quel che, dopo la Grande Depressione, abbiamo imparato è che l’avidità è un grande motore della crescita economica ma, come ogni motore, funziona solo se è regolato e guidato dai freni della “policy”, da una trasmissione e da un volante che possono essere forniti solo dal governo: dal potere pubblico. Greenspan e Rubin – riflettendo il punto di vista dominante nella classe dirigente americana dall’elezione di Reagan in poi – erano contrari pressoché ad ogni intervento pubblico sul mercato. Argomentavano che la concorrenza, punendo i perdenti e compensando i vincenti, avrebbe obbligato i mercati ad “autoregolarsi”.

 

Però, bisogna pur chiedersi quanto ci credessero davvero a quel che andavano predicando. Perché entrambi si mostrarono sempre perfettamente disposti a far prevalere il potere del governo sul mercato per premiare i “perdenti”: quando e se fossero grandi e influenti. Greenspan ha appoggiato la presa di controllo da parte del governo e l’erogazione di pubblici sussidi a una parte importante del settore bancario per farlo uscire dalla crisi delle Casse di risparmio degli anni ’80. E Rubin sfidò il Congresso per salvare i detentori a Wall Street di titoli pubblici messicani nel 1995 e di investimenti in Asia orientale nel 1997.

 

Con questo passato, e altri comportamenti di stampo analogo, alle spalle, quando poi Greenspan ha detto al Congresso di essere rimasto “scioccato” apprendendo che i mercati finanziari, coi quali era stato coinvolto lui stesso per tutta la propria vita professionale, non si autoregolavano affatto, ricorda a molti irresistibilmente il capitano di polizia francese del film “Casablanca” che restava “scioccato” vedendo come nel caffè che frequentava ogni sera si giocava illegalmente. La miglior spiegazione del comportamento di Greenspan e Rubin è che la loro lealtà non andava verso il loro paese, ma verso la loro classe — la rete globale degli investitori societari che nell’ultimo quarto di secolo hanno usato della deregolamentazione per trasformare l’industria finanziaria in un casinò.

 

L’industria finanziaria d’America era il luogo dove banche e istituti di investimento provvedevano il credito all’economia “reale” che produce merci e servizi, che genera lavoro e migliora le condizioni di vita. Con la de-regolamentazione, la finanza è stata trasformata in un settore che fornisce credito anzitutto a se stesso. Nel 1981, il debito del settore finanziario era il 22% del PIL nazionale; alla fine del 2008 ammontava al 120 per cento. Il termine “investimento” non rappresentava più un processo di costruzione di un’impresa capace negli anni di generare reddito, ma l’acquisto alle ore 10 delle mattina di una quota di titoli derivati da rivendere a mezzogiorno. Il trionfo di Milton Friedman su Keynes.

 

Ma, adesso, siamo ridiventati tutti keynesiani. Ancor prima dell’elezione di Barack Obama, l’amministrazione Bush aveva concluso che, di fronte a consumatori che non consumavano, a un mondo degli affari che non investiva e a stranieri che non compravano più prodotti americani, l’unica istituzione capace di impedire la caduta a spirale nella depressione dell’economia era il governo federale. Ora, con l’elezione di Obama, c’è la speranza di veder trasformare la crisi in un’occasione per ricreare un futuro diverso per l’America — un futuro decisamente migliore di quello verso il quale eravamo avviati nei decenni passati.

 

Nel riflettere su questo punto, è necessario ricordare però che, malgrado il disgusto diffuso tra gli elettori per George W. Bush, a settembre del 2008 Obama era ancora dato grosso modo alla pari con John McCain. Solo a due mesi dalle elezioni, cioè, erano molti gli americani che trovavano ancora difficile votare per un nero come presidente. Quando è sopravvenuto il tracollo, è diventato per tutti palese però che un candidato come Obama, pacato e raziocinante, costituiva una scommessa migliore per portare il paese fuori dalla crisi di quella rappresentata da un McCain così evidentemente volatile e ombroso: che riconosceva apertamente, poi, il suo scarso interesse per ogni faccenda economica. Nello scegliere Obama, l’elettorato, di fatto, ha proceduto così a una ridefinizione della nozione stessa di “classe”, prendendo le distanze dalle tematiche culturali e razziali che connotandola avevano spaccato la platea dei lavoratori dal tempo dell’elezione di Richard Nixon nel 1968 e riconducendola indietro verso le definizioni di stampo economico che avevano puntellato il New Deal. Ecco, questo – se tiene – potrebbe costituire uno spostamento di asse, storico e radicale, di tipo politico.

 

E’ troppo presto per dire se Obama ci porterà un New Deal nuovo per il 21° secolo, in cui il mercato sia regolato a beneficio della società o se – come Bill Clinton – ci darà una versione un po’ più benigna della Reaganomics in cui i valori umani vengano convertiti in titoli negoziabili, mercificati e manipolati per il profitto a breve. Ma non è troppo presto per identificare alcuni dei fattori chiave da cui dipenderanno le risposte a questa domanda.

 

Cominciamo col prendere atto del fatto, scontato, che mentre sono state screditate le idee del neo-liberismo la classe neo-liberista resta fermamente al potere e al timone. Dopo aver promesso un regime di cambiamento, Obama ha riempito i posti di governo economici di vecchi cimeli dell’amministrazione Clinton, tutti con forti legami a Wall Street e determinanti nel processo di de-regolamentazione di quegli anni. Per esempio, sia Timothy Geithner, il nuovo segretario al Tesoro, che Larry Summers, il capo dei consiglieri economici del presidente, sono protetti di Rubin.

Sono in genere più preparati e capiscono meglio la natura di questa crisi di quanto lo fosse la media della squadra di Bush. Né c’è dubbio che, nella nostra storia, ci sia stata gente trasformata profondamente da una crisi – incluso sicuramente, ad esempio, il rispettatissimo Franklin Delano Roosevelt – e per questo non dovremmo emettere giudizi finali già adesso sulla loro capacità di cambiare. Ma questi stessi fatti costituiscono anche le ragioni che suggeriscono una qualche  cautela.

 

Passando dalla gente al programma, il piano Obama per la crisi presenta quattro elementi.

 

Il primo è quello di stimolo alla spesa, con 800 miliardi di dollari in due anni. Un terzo, grosso modo, costituito da tagli alle tasse dei consumatori di medio e basso livello. Un’altra parte, sussidi di disoccupazione. E un’ultima parte, sostanziale, destinata a infrastrutture, istruzione, sanità e ricerca e sviluppo. Dato che gli investimenti pubblici comportano un moltiplicatore di spesa più vasto dei tagli alle tasse, la loro parte nel piano di stimolo avrebbe potuto essere più larga se fosse già stato pronto, al momento del varo del programma, un maggior numero di progetti da implementare rapidamente. La strategia generale dello stimolo fiscale è chiaramente sensata. La questione è piuttosto se sia sufficiente. Perché lo scarto tra quello che l’economia produce e quanto dovrebbe produrre per mantenere l’occupazione è calcolabile in più del doppio di quello che il piano Obama intende spendere.

 

Il secondo elemento è il salvataggio del mercato finanziario. Qui la strategia è meno chiara. Fino a questo momento Obama, come Bush, ha solo fornito capitali alle banche per incoraggiarle a prestare: ma solo per scoprire che hanno bisogno di sempre più soldi. Da subito dopo il fallimento delle Lehman Brothers, i decisori politici americani di entrambi i partiti hanno dato per scontato che alcuni istituti finanziari – Citigroup, Bank of America, AIG – fossero troppo grossi per poter essere lasciati fallire. Ma il nocciolo duro del problema va molto al di là del bisogno di altro capitale. Il valore reale di prestiti “cattivi” e di altri assets “tossici” detenuti dalle banche americane è stimato dal 5 al 30% del valore che esse riportano nei loro bilanci. In queste condizioni, molte delle maggiori banche sono, nei fatti, insolventi. Un numero crescente di persone sono oggi convinte che la sola soluzione al problema sia che lo Stato si prenda queste banche, assorba le perdite dei cattivi prestiti fatti e le riorganizzi in istituti di dimensioni minori ma rimessi in grado di sopravvivere facendo soldi col prestare denaro. Vorrebbe anche dire disfarsi del vecchio management e far ingoiare più perdite agli azionisti della vecchia gestione e, forse, anche a molti dei vecchi obbligazionisti. 

 

Finora, l’Amministrazione ha scartato questa opzione. Obama ha detto che mentre essa ha funzionato per la Svezia, anni fa, ci sono semplicemente troppe banche in America perché il governo nazionalizzi l’industria bancaria. Dato, però, che il governo ha già rilevato dozzine di banche insolventi un po’ in tutto il paese, e che il problema è concentrato in un numero relativamente ridotto di grandi istituti, il punto non è del tutto convincente. Una spiegazione in parte migliore è che, forse, i consiglieri di Obama stanno proteggendo la classe di investitori di Wall Street, di banchieri, dalla quale essi stessi provengono. La nazionalizzazione delle banche non è un’operazione senza rischi, ma la storia dimostra che il rischio maggiore è continuare a pompare capitali freschi in un meccanismo paralizzato. Se la batteria è morta, versare ancora benzina nel serbatoio non rimette in moto la macchina.

 

La terza gamba del piano di ripresa di Obama è tesa ad aiutare gli americani che stanno rischiando di perdere la casa ad evitare di farsela pignorare e vendere forzatamente. La strategia principale qui è quella di rifinanziare i prestiti ipotecari a tassi di interesse più bassi. C’è chi sostiene che sarebbe meglio rifinanziare il capitale ipotecario iniziale per fargli riflettere i prezzi inferiori attuali, forzando le banche, così, ad assorbire una parte maggiore delle perdite incorse. In ogni caso, il programma è mirato ad aiutare la metà circa delle 20 milioni di famiglie che sono oggi a rischio.

 

Il quarto elemento – la quarta gamba – del piano Obama è il salvataggio delle grandi case automobilistiche di Detroit, che ancora è in discussione e in negoziazione.

 

Non sappiamo se la strategia di Obama funzionerà. Possiamo, però, con una certa fiducia nella loro fondatezza, avanzare un paio di osservazioni. La prima è che, anche se avesse successo, ci vorrebbero almeno tre o quattro anni prima di un pieno recupero dell’economia. L’altra è che mentre il piano potrebbe essere sufficiente a raddrizzare la contrazione dell’economia americana, certamente non è abbastanza per ri-stimolare le economie del resto del mondo.

Pure, gran parte del mondo sembra aspettarsi che invece lo sia. Una specie di dichiarazione recente dell’ Economist britannico riflette al meglio questa fiducia: “Ancora una volta, il compito di salvare l’economia mondiale ricade sulle spalle dell’America”.

 

E’ un’aspettativa, questa – che l’America abbia l’obbligo di riportare “al migliore dei tempi possibili” l’economia mondiale – riflessa nell’indignazione quasi universale contro la clausola del “comprare americano” nella legislazione che autorizzava il programma di stimolo. Una specie di riflesso automatico esagerato. In effetti, la legislazione proibisce specificamente ogni azione che violi gli accordi di scambio commerciali attualmente vigenti per gli Stati Uniti. Tutto quel che dice è quanto sembra semplicemente dire il buon senso: se lo scopo dello stimolo è stimolare l’economia americana, è importante che al massimo possibile lo stimolo sia esercitato nei confronti dell’economia americana.

 

Una tendenza che può venire interpretata come una minaccia dal resto del mondo, solo se il mondo si aspetta che lo stimolo di Obama sia indirizzato anche a rigenerare la crescita nell’economia globale. Non sarebbe realistico, però aspettarselo. Con lo scoppio della bolla creditizia, sono finiti i tempi in cui l’America poteva agire come motore della crescita dell’economia globale. Negli anni ’30 gli Usa erano il paese che faceva credito al mondo. Oggi, sono il paese che ha più debiti al mondo, con un deficit commerciale cronico e una competitività che si va erodendo. E il programma di Obama dovrà essere pagato prendendo a prestito i soldi dal resto del mondo, aggiungendoli al debito.

 
C’è anche chi, altrettanto irrealisticamente, guarda alla Cina per la propria salvezza economica. Ma i dirigenti cinesi hanno esplicitamente respinto l’idea di poter usare i 1.900 miliardi di dollari delle loro riserve in valuta estera per aiutare a “salvare” il mondo: “La Cina può salvare soltanto se stessa”, ha chiarito ai primi di dicembre un alto esponente cinese.

 

E così, questa crisi rappresenta il momento della verità per l’economia globale. Per l’ennesima volta abbiamo imparato che ogni mercato ha bisogno di essere regolamentato, ha bisogno di politiche macroeconomiche e di un contratto sociale per poter prosperare. Ignorando questa verità fondamentale e intossicato dal miraggio del facile denaro, il neoliberismo ha creato un mercato globale senza le istituzioni di governo adeguate – come una banca centrale, un bilancio comune e le associazioni intermedie, le organizzazioni di mediazione (compresi sindacati e partiti politici di valenza globale) – necessarie a guidare poi quel mercato.

 

La presunzione generale era che l’economia statunitense avrebbe potuto e voluto assumere informalmente l’indispensabile funzione di gestione globale, un compromesso comodo che metteva in grado i governi del mondo di evitare il riconoscimento formale di una cessione di sovranità nazionale. Ecco, ora quel gioco è finito.

 
Sfortunatamente, prima di agire non abbiamo il tempo di aspettare per un nuovo sistema di Bretton Woods. Se dobbiamo uscire da questa crisi, senza dover passare ancora per il dolore e l’orrore della Grande Depressione e delle sue sequele, dobbiamo farlo percorrendo il passaggio molto più complesso e difficile di uno sforzo simultaneo e volontario da parte di ognuno dei paesi più grandi per stimolare all’unisono le loro economie. Il bisogno è semplicemente quello di stimolare la spesa per tornare al mondo del 2007. La crisi ha anche dimostrato che, al di là di un rilancio coordinato, l’economia globale va regolata e ristrutturata per fare del mercato lo strumento, e non lo scopo, dello sviluppo sociale. 

 

Non siamo soltanto in una crisi economica globale. Siamo in una crisi politica globale. La ragione per la quale non abbiamo istituzioni economiche globali adeguate è perché non abbiamo una politica progressista globale. L’unico potere di portata effettivamente globale, che supera le frontiere, resta in mano alla classe finanziaria societaria globale – io lo chiamo il partito di Davos – che ha utilizzato la globalizzazione per sfuggire al contratto sociale a dimensione nazionale. Senza sfidare il controllo in mano a questa classe, è improbabile strapparle ciò di cui l’economia globale ha bisogno: la ridistribuzione del reddito, della ricchezza e del potere politico, sia a livello nazionale che tra le varie nazioni.

 

Storicamente, in America, una governance adeguata di mercato è emersa da una politica capace di trarre vantaggio dalla rabbia della pubblica opinione per l’incapacità della classe finanziaria a provvedere su vasta base sicurezza e prosperità condivisa. Oggi, l’ira sta montando con il diffondersi di inquietudine e disagio a livello economico. Ma sta anche crescendo l’indignazione morale. E’ sempre stato chiaro che il neo-liberismo fosse meno equanime della social-democrazia che ha rimpiazzato.

 

Ma il diritto morale all’egemonia del mercato era nella presunzione, nell’affermazione che esso premiasse chi contribuiva maggiormente alla società, i vincitori; e penalizzasse coloro che presumibilmente contribuivano di meno, i perdenti. Ma i salvataggi, condotti senza alcun pudore, dei grandi capi di grandi società che hanno affossato le loro imprese, hanno ridicolizzato quella pretesa. E viene fuori che il modello anglo-americano non rappresentava poi affatto la sostituzione della libera impresa al socialismo; era, invece, socialismo per i ricchi e ognuno per sé – libera impresa – per tutti gli altri.

 

Questo momento della verità per l’economia globale può trasformarsi ora in un’occasione? Ora che è caduta la maschera della presunzione che i mercati si autoregolino, possiamo tornare alla questione che venne abbandonata con l’emergere del paradigma Reagan/Thatcher? A cosa vogliamo che somigli, cioè, il nostro futuro? E’ ora evidente che i mercati non hanno alcuna risposta per questa domanda.

 

E che essa postula l’utilizzo di una frase che non abbiamo impiegato per molto tempo – “programmazione democratica” – per la trasformazione di un’economia coerente con una stabilità ambientale a lungo termine, con un uso prudente delle risorse, con la giustizia sociale e con una crescita equilibrata. Il compito è quello di ricollocare il mercato nel quadro della società, quella società della quale Margaret Thatcher aveva notoriamente definito l’inesistenza. 

 

Obama potrebbe aver già impegnato la prima schermaglia in questa lotta. Repubblicani e democratici neo-liberisti hanno criticato lo stimolo perché coprirebbe troppi progetti i cui benefici arriverebbero nel lungo termine. Obama, però, ha insistito, spiegando sensatamente che il migliore degli stimoli economici possibili è quello che, nel breve termine, crea posti di lavoro e puntella il contratto sociale investendo nell’industria “verde” per il futuro. In maniera forse modesta ma significativa, il presidente ha rimesso nelle mani del governo democratico e nel dibattito politico americano la responsabilità di riformattare il futuro.

Sabato, 28. Marzo 2009
 

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