Con la nomina, peraltro non ancora formalizzata, di Umberto Veronesi a presidente dell'Agenzia per la Sicurezza (tappa non esaltante, secondo alcuni, di una splendida carriera di scienziato) il treno nucleare italiano è partito. Si muove ancora lentamente: ad esempio la mappa dei siti non è stata comunicata, per ritardare il più possibile le prevedibili proteste, anche se la Consulta ha bocciato le delibere antinucleari (no centrali, no scorie) delle Regioni Basilicata, Campania e Puglia. D'altra parte, poichè i siti sono vincolati a precisi parametri, quali la minore sismicità, la disponibilità di acqua per il raffreddamento, la collocazione centrale rispetto alle reti di trasmissione di energia, essi non potranno essere molto diversi da quelli esistenti prima del referendum antinucleare. Nel frattempo continuerà la pressione lobbistica di un sistema che comprende una grande società straniera (Areva), costruttori italiani per la parte edilizia, aziende metalmeccaniche per la parte di strumentazione delle centrali costruita in Italia e gruppi finanziari potenti. Il treno perciò continuerà ad avanzare per inerzia e rappresenterà l'eredità avvelenata di un governo morente.
Mi ero occupata delle scelte nucleari, direttamente o indirettamente, su questa rivista, in articoli pubblicati a maggio e giugno del 2009 e nel gennaio del 2010. Da allora quali eventi o valutazioni soni intervenuti? Sostanzialmente abbiamo assistito ad una campagna stampa, presumibilmente destinata ad intensificarsi - almeno nelle intenzioni dei promotori - articolata su due direzioni: a) a favore del nucleare; b) a sfavore delle energie alternative.
Quali le argomentazione a favore della scelta nucleare? In primo luogo, si tratterebbe di energia non inquinante; ciò consentirebbe pertanto al nostro paese di rientrare più rapidamente entro i parametri di Kyoto. In secondo luogo, trattandosi di una risorsa più economica, le nostre imprese potrebbero approvvigionarsi di energia elettrica ad un costo del 30% inferiore a quello attuale. Infine, sia nella fase costruttiva che in quella manutentiva delle centrali, sarebbero garantiti occupazione ed investimenti a parecchi settori produttivi italiani. Anche sulla ricerca l'esercizio degli impianti avrebbe di fatto ricadute positive.
A sfavore delle energie alternative si sostiene che senza gli incentivi esse non raggiungerebbero - attualmente - i livelli di economicità. Questi incentivi, inoltre, avrebbero effetti distorsivi e addirittura, nel clima un po' cialtronesco e truffaldino che caratterizza i rapporti pubblico/privato in Italia, sarebbero fonte di corruzione e di spreco di risorse. Il caso più citato è quello eolico. Proviamo a svelare il trucco. Vent'anni fa circa, la Conferenza di Rio ci ha lasciato in dono un'aberrazione giuridica che sembra tratta dal diritto longobardo (sic!), quella dell'inquinatore-pagatore. Detto in soldoni, pagando inquinare si può. Poiché le energie "verdi" non inquinano o lo fanno al di sotto dei parametri ambientali, esse danno luogo alla creazione di "certificati verdi" che in un sistema contrattuale da magliari i buoni vendono ai cattivi, facendo contenti e gabbati i cittadini. Il genio italico, applicato in questo caso più ai vizi che alle virtù, avrebbe escogitato in alcune Regioni un meccanismo che squalifica l'economia verde: la centrale eolica che, generando certificati e sistemi di compensazione per le amministrazioni locali a copertura degli inconvenienti come rumorosità, o modifiche al paesaggio, a pale ferme non produce energia, ma denaro.
Coloro che - come chi scrive - ritengono improvvida ed antieconomica nel medio periodo la scelta nucleare, hanno parecchie frecce al proprio arco per controbattere queste tesi che alcuni sostengono in buona fede ed altri con buoni fidi (bancari). Definire "non inquinante" l'intera filiera produttiva nucleare è quanto meno azzardato. Come avevo osservato in uno degli articoli citati, l'uranio si ricava dalla frantumaziome minuta di enormi quantità di rocce per kg di materia prima, con fortissimo inquinamento nei luoghi di estrazione. Al termine del processo le scorie debbono essere sepolte in miniere di salgemma, con rischi per ora non facilmente valutabili. Quello che è veramente minimo è il rischio di implosione delle centrali. Non si riesce però a ridurre l'inquinamento termico delle acque di raffreddamento: nelle zone pluviali o lacustri, una parte della fauna ittica potrebbe risultare, per così dire, cucinata all'acqua pazza.
Il punto tuttora più controverso è il costo delle centrali, tenendo conto del fatto che quando saranno completate, fra otto anni, risulteranno obsolete e, quindi, la ricaduta sulla ricerca italiana, già molto avanzata, risulterà nulla. Ho l'impressione che i calcoli includano solo i costi di costruzione e gestione; non figurerebbero né i costi delle compensazioni alle amministrazioni locali, né quelli della protezione militare delle centrali e dei trasporti delle scorie (per garantirsi da attentati terroristici) e di apertura e gestione delle discariche. Inoltre la rigidità della produzione costringe a "svendere" l'energia quando il ciclo della domanda rallenta (come fanno i francesi di notte); inoltre la concentrazione dell'energia prodotta suggerisce di includere anche costi e perdite delle reti di distribuzione.
Per quanto concerne i vantaggi di prezzo per le imprese, la liberalizzazione del mercato consente già oggi a consorzi di imprese di approvvigionarsi all'estero a costi molto inferiori a quelli praticati dai due oligopolisti, Enel ed Eni. Le ricadute benefiche sull'industria italiana nella fase di costruzione degli impianti rientrano in una favolistica di comodo: il grosso dei guadagni andrà al fornitore dei brevetti, dei reattori e dell'assistenza tecnica, che è la francese Areva.
Quanto alle obiezioni mosse alla gestione delle energie verdi, alcune sono valide. I meccanismi degli incentivi, nei tessuti amministrativi malati e in presenza di una carente etica pubblica, sono certamente distorsivi. Tuttavia alcune fonti alternative sfiorano già il livello di economicità di quelle tradizionali ed altre accelerano la riduzione di costi in tempi molto inferiori a quel decennio che avevo accennato nel gennaio del 2010. In tutta Europa l'eolico ha superato il livello di economicità, soprattutto nelle zone costiere. E ciò senza contributi. Tuttavia perché questo si verifichi occorre che, anche se sembra banale, gli impianti siano localizzati in zone con venti forti e costanti. In molte aree d'Europa i campi eolici funzionano molto bene: ma i siti sono stati scelti con una politica pubblica di localizzazione, dettata da organismi tecnico-scientifici, e non da truffatori da quattro soldi come i nostri cosiddetti "sviluppatori" (intermediari che offrono progetti chiavi in mano) e che sono all'origine delle disfunzioni lamentate. Dove il governo latita, il privato subentra con criteri non sempre atti a coniugare l'interesse collettivo con il profitto individuale.
Altre forme di energia da tempo economiche sono quelle geotermiche (finalmente sembra che ci si sia accorti delle opportunità offerte dai Campi Flegrei), le pompe di calore e le biomasse, la cui sperimentazione applicativa è molto avanzata, ad esempio, in Umbria. Il fotovoltaico e il solare a concentrazione sono vicinissimi alle soglie desiderate nei paesi, come Germania, Spagna e Gran Bretagna dove la politica energetica si attua con criteri programmatori di periodo medio-lungo da parte dei rispettivi governi. A questo punto, dovrei sparare sulla Croce Rossa, ma me ne astengo in obbedienza alla Convenzione di Ginevra.