Nostalgia dell’Iri? No, ma allora serve qualcos'altro

La non piccola parte positiva del ruolo che fu delle partecipazioni statali non è stata sostituita dall'industria privata e l'attuale politica sembra solo rivolta a vendere all'estero ciò che resta del nostro patrimonio di tecnologie e conoscenze. Alcune idee per una politica industriale

La recente presentazione della Storia dell’Iri è stata l’occasione per una riflessione sul tema della politica industriale in Italia e sul ruolo della grande impresa italiana oggetto dei desideri della Grande Finanza orientale, medio-orientale e russa. Le imprese di questi paesi sono attratte dal potenziale tecnologico delle grandi imprese italiane, dall’opportunità di avere un accesso privilegiato nell’ambito della Ue e di attenuare il rischio di cambio derivante dal duopolio euro – dollaro.

Per anni i fantasmi della cosiddetta Grande Finanza italiana, senza capitali e gonfi di lamentele, segnalavano, in privato e in pubblico, l’impossibilità di fare impresa e si portava come prova inoppugnabile e oggettiva l’assenza di investitori esteri interessati all’Italia. I segnali erano  ripresi puntualmente dai loro giornali e dai politici che non intendevano affrontare e risolvere questo presunto problema. Invece, il  governo Renzi è riuscito a creare le condizioni per consentire di  portare all’estero il centro di comando della Fiat, di vendere partecipazioni nelle storiche imprese meccaniche in mano pubblica, di condividere con Russi e Cinesi le imprese proprietarie delle reti e delle industrie di base, solo per citare le cessioni nei settori strategici, ossia le attività che avevano caratterizzato le Partecipazioni Statali. Questo attivismo e la situazione pesante dell’industria italiana sollecitano una riflessione sul ruolo delle imprese a partecipazione pubblica insieme al rimpianto che non manca mai nella società italiana. Buona parte di questo rimpianto è dedicato all’Iri ma non all’Eni che è per il momento ancora controllato dal ministero dell’Economia cui distribuisce(va) lauti dividendi, e non coinvolge neanche le imprese a proprietà pubblica locale.  

Per i più giovani e per i molti distratti, può essere opportuno richiamare gli obiettivi assegnati alle Partecipazioni statali (PPSS): a) potenziare i settori capital intensive  a elevata ricerca e innovazione;  b) diffondere le novità organizzative e formative; c) trasferire i vantaggi delle economie di scala al mercato;  d) investire in tecnologie capital intensive e potenziare l’accumulazione; e) favorire la concorrenza nei settori di base; f) allocare risorse nelle aree in ritardo.

La fine delle PPSS è stata giustificata con i risultati economici negativi  dovuti alla loro inefficienza e alla mancanza di una strategia industriale analoga a quella che aveva visto la nascita dell’Iri e dell’Eni. La pressione dei politici locali aveva il sopravvento sulla visione strategica e si era perso il riferimento al profitto ed era subentrato il vantaggio politico derivante dalla difesa dell’occupazione a qualsiasi costo. Gli elevati tassi di interesse sottolineavano l’esigenza di ridurre il debito pubblico eliminando i fondi di dotazione gravati dalle perdite delle imprese pubbliche e acquisendo le entrate derivanti dalla vendita delle imprese in attivo. In effetti non brillanti erano stati gli esiti della vendita del patrimonio immobiliare pubblico e si poteva prevedere che il clientelismo avrebbe  caratterizzato la vendita delle imprese pubbliche come ci insegnavano l’esperienza e la storia. Sarebbe stata sufficiente un’analisi benefici–costi per rendere un po’ meno schematico l’approccio alle privatizzazioni.   Ad esempio  nel caso dell’Eni furono liquidati la chimica, il minero-metallurgico e il tessile, ossia fu interpretato correttamente l’accordo Andreatta-van Miert che da molti è stato considerato, strumentalmente, un obbligo di liquidazione delle PPSS mentre poteva e doveva essere uno strumento per migliorare l’efficienza del sistema-paese.

L’esperienza avrebbe dovuto suggerire  la liquidazione delle  imprese in perdita strutturale e  l’investimento delle risorse nelle imprese strategiche; purtroppo nell’Iri è mancata la volontà politica di selezionare i settori da mantenere nell’orbita pubblica  poiché si sarebbe scatenata una rissa fra fazioni partitiche che avrebbe ritardato, forse annullato, le privatizzazioni.

All’inizio degli anni novanta i governi avevano come priorità la sopravvivenza dell’Italia all’interno della Unione europea e l’esigenza di trovare un accordo con i sindacati e le confederazioni padronali. Non era considerata una priorità la elaborazione di una strategia industriale poiché si confidava sulla svalutazione della lira. In compenso si era  creata un’alleanza fra politica e finanza per privatizzare le imprese fonti di considerevoli  profitti  e cash flow ( ad esempio Stet e Sme nel caso dell’Iri) e il Tesoro aveva concentrato la sua attenzione sul rispetto delle regole (giusto) e sulla velocità del processo (una strategia non sempre efficiente). A loro volta le grandi imprese private si erano concentrate sul  profitto di breve periodo e sulla ricerca della rendita, ossia sui settori oligopolistici a scarsa concorrenza e soggetti a un controllo pubblico, diretto oppure indiretto, delle regole e delle tariffe e perciò più facilmente influenzabile.

La riforma della legge bancaria aveva inferto un colpo mortale all’Iri ma avrebbe creato le condizioni finanziarie per consentire alla grande finanza italiana di partecipare alla privatizzazione dei grandi gruppi pubblici operanti nei servizi (assicurazioni, autostrade, informatica, difesa, grande distribuzione, ecc.). Nei servizi di Tlc, invece, vi erano rilevanti appetiti italiani ed esteri, ma anche grande confusione  e necessità di ingenti capitali per sopravvivere. In alcuni casi, capitalisti ottocenteschi hanno spolpato la parte buona dell’impresa privatizzata senza impegnare capitale proprio e ottenendo risorse dalle banche privatizzate. Nei settori industriali con prospettive di profitto entrarono imprese estere già presenti in Italia oppure con precedenti rapporti di fornitura con le imprese pubbliche italiane.

Purtroppo negli ultimi trenta anni, la grande industria si è distinta negativamente per: 1) insufficienti investimenti nella ricerca applicata e nell’innovazione; 2) prevalenza della funzione di  amministrazione/finanza rispetto a quella di produzione (specie negli anni del tassi di interesse elevati). In seguito la situazione non si è modificata nonostante la riduzione dei tassi di interesse e la crisi finanziaria mondiale; 3) strategia finanziaria finalizzata alla riduzione  del capitale circolante e ai guadagni dal cash flow, alla distribuzione dei profitti agli azionisti e alle banche dovuti alla lira-dumping; 4) strategia industriale finalizzata alla riduzione dei costi mediante la destrutturazione  del processo produttivo, il ridimensionamento e/o la chiusura dei centri di ricerca.  

In conclusione, il settore pubblico ha perso la conoscenza e il controllo dell’evoluzione delle tecnologie e delle innovazioni organizzative ed è stato succube delle strategie di imprenditori capaci ma anche di avventurieri, come sovente è capitato e purtroppo continua a capitare.

Negli anni recenti, la Cassa Depositi e Prestiti cerca di intermediare le risorse finanziare fra i risparmiatori italiani e le imprese ma le mancano le competenze e la mission per elaborare una strategia industriale e si limita, perciò, a tutelare gli interessi nazionali, avendo doverosamente, come priorità, la salvaguardia del suo investimento. Manca una strategia industriale come supporto alla crescita e come punto di riferimento per la grande e la media impresa italiana ammesso che decidano di investire in Italia. Fra le cause di questa crisi industriale vi sono anche situazioni demografiche dovute all’invecchiamento delle nostra classe dirigente inclusi gli imprenditori che guidano le imprese familiari. Purtroppo l’elevato indebitamento derivante dal finanziamento delle privatizzazioni assegna alla banche un ruolo che non vogliono e non possono avere. Mancano le istituzioni che finanzino le imprese a medio e lungo termine e che subentrino alle banche nei centri di comando industriali, e siano in grado di partecipare alla elaborazione di una strategia industriale.  

La Cina ha, invece, una chiara e largamente condivisibile strategia industriale, peccato che sia a senso unico: ossia l’Italia vende alla Cina imprese strategiche, apprezzate per il loro potenziale tecnologico. In cambio l’Italia ottiene risorse finanziarie solo per ridurre l’indebitamento nei confronti delle banche italiane mentre la contropartita industriale e commerciale, per il momento, resta sulla carta. La capacità dei giocatori si vedrà nel momento della crisi quando il partner potrebbe decidere di uscire dal business portando con sé il tesoro delle relazioni e conoscenze collegate all’attività produttiva.

Non è questa la sede per suggerire una politica industriale che deve essere frutto di un lavoro collegiale ma alcune azioni sono state ripetutamente richiamate in questi anni.  Fra le più note vi sono le seguenti:

•            Favorire le  fusioni nelle medie  imprese e difendere l’unicità di comando (missione quasi impossibile con i nostri imprenditori)

•            Favorire la crescita delle PMI innovative e delle start up originate nelle imprese, nelle università e nei centri di ricerca (facile nascere, difficile crescere in Italia)

Meno nota, per il momento solo accennata, è l’esigenza di rivedere la politica industriale della Ue che non si limiti a dare suggerimenti ai paesi membri ma impegni risorse adeguate senza soffocare le iniziative con la modulistica. (Forse il tempo è maturo rispetto ai tempi di Delors ed è urgente per riparare i guasti del neo liberismo).

•                 Potenziare l’innovazione e creare alleanze con le imprese dei paesi membri della UE avendo una visione condivisa del potenziale di sviluppo e del ruolo sociale delle imprese.

•                 Incentivare lo scambio di giovani professional all’interno della Ue, ossia una  sorta di Erasmus per giovani tecnologi laureati avvenuto con l’Iri nel dopoguerra verso gli USA).

In conclusione, è augurabile che la domanda iniziale non abbia una risposta positiva ma è indubbio che si debba trovare una sede nella quale elaborare una politica industriale che tuteli solo interessi pubblici generali e non sia condizionata da pressioni politiche locali. 

Martedì, 21. Aprile 2015
 

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