Per non rassegnarci al declino

Siamo l'unico paese del G7 che non cresce e continuiamo a perdere quote di mercato, anche nell'area euro. Del resto qualsiasi confronto sulle spese per ricerca ci vede in fondo. Invece dell'alibi della flessibilità, bisognerebbe affrontare questi problemi
L’economia italiana è in declino. Ciò che preoccupa non è solo il basso ritmo di crescita del Pil. Anche Francia e Germania lo scorso anno sono cresciute poco. Loro però sono in ripresa, noi no. Tra i paesi del G 7, solo l’Italia nel gennaio 2004 è infatti andata indietro, gli altri sono invece andati avanti.
Per altro, secondo tutte le previsioni, quest’anno l’economia mondiale correrà di più. La crescita del commercio mondiale dovrebbe addirittura raddoppiare, passando dal 4,5 per cento di incremento registrato nel 2003 all’8,5 dell’anno in corso. Insomma il mondo è in ripresa ed anche i nostri vicini di casa si sono già rimessi in movimento. Come mai solo l’Italia tra i grandi paesi industriali è ferma? Anzi, sta andando addirittura indietro?
La prima ragione è che l’Italia accusa una significativa perdita di competitività. Innanzi tutto sui mercati esteri. Nei primi otto mesi del 2003 le nostre esportazioni verso gli Stati Uniti sono diminuite del 13 per cento; quelle verso l’Europa (area Euro) del 3,1 per cento; sono contemporaneamente rallentate anche le esportazioni verso la Cina ed i paesi dell’estremo oriente. Risultato: la quota italiana del commercio mondiale scende dal 4,5 al 3,6 per cento. Mentre la quota della Francia resta stabile e quella della Germania cresce addirittura di un punto percentuale.
Non ha quindi molto senso il tentativo consolatorio del governo di dare la colpa all’euro, aggiungendo che le cose per l’economia da noi non vanno bene semplicemente per la buona ragione che andrebbero male anche altrove. Facendo finta di non vedere le differenze. Perché tanto di notte tutti i gatti sembrano grigi.
Per capire come stanno realmente le cose è bene dare una occhiata ai dati. L’Italia è sempre più ripiegata nella produzione di beni poco innovativi ed a scarso contenuto tecnologico. E così, grazie a costi e produttività più favorevoli, i paesi emergenti tendono a sostituirci nelle nostre vecchie specializzazioni. Ma anche gli altri paesi europei fanno meglio di noi, sia perché malgrado la moneta unica la nostra inflazione è più elevata, ma soprattutto perché abbiamo un tasso di innovazione e di sviluppo troppo basso.
Questo spiega perché, negli ultimi sette anni, la produzione industriale italiana è cresciuta del 4,9 per cento, contro il 16,5 della Francia ed il 17,3 della Germania. Tutti gli altri paesi europei (ad eccezione della Gran Bretagna dove la produzione industriale cresce meno perché ha puntato soprattutto sul settore dei servizi dove, per qualità e prezzo, occupa un posto rilevante sul mercato mondiale) hanno un tasso di incremento almeno quattro volte superiore al nostro.
Abbiamo inoltre un gap molto serio di spesa in ricerca e sviluppo rispetto ai maggiori paesi industrializzati. Fatta pari a cento la spesa per ricerca e sviluppo dei paesi Ocse l’Italia arriva solo al 2,6 per cento, contro il 47,7 per cento degli Stati Uniti, il 17,8 del Giappone, l’8,3 della Germania, il 5,4 della Francia, il 4,5 del Regno Unito, il 3,3 della Corea del Sud.
Il divario è altrettanto evidente se si utilizza come indicatore la spesa pro-capite per ricerca che è di 892 in USA, 750 in Giappone per fermarsi a 241 dollari in Italia. Largamente superata anche da paesi piccoli come: la Svezia che arriva a 875 dollari, la Finlandia a 726, la Danimarca a 541. Mentre la media dei paesi europei (esclusa l’Italia) è di 450 dollari pro-capite.
Le cose non cambiano nemmeno se si considera la spesa per ricerca in rapporto al Pil. Gli Stati Uniti si attestano infatti al 2,84; il Giappone al 3,6; la Germania al 2,29; la Corea del Sud al 2,52; la Finlandia al 3,11. L’Italia resta il fanalino di coda dei paesi sviluppati arrivando solo ad un mediocre 1,05.
Infine, anche considerando la spesa per ricerca e sviluppo delle imprese rispetto al prodotto dell’industria, si deve malinconicamente constatare che rispetto al 2,40 degli Stati Uniti, al 2,44 del Giappone, al 2,00 della Francia, al 4,40 della Svezia, al 3,19 della Finlandia, l’Italia si limita ad un magro 0,73 per cento.
Quindi, qualunque sia il dato che si prende in considerazione non è difficile capire perché l’Italia va peggio degli altri e perché perde quote del mercato mondiale. Stando così le cose non dovrebbe essere così difficile nemmeno rendersi conto del velleitarismo di propositi di recupero fondati su una riduzione del costo del lavoro, invece che su produzioni a maggiore contenuto tecnologico ed a più alto valore aggiunto.
Assumere una strategia più realistica di competizione con i paesi ricchi, anziché con quelli più poveri, implica però la necessità di fare i conti anche con un altro dato di fatto. Alla base del declino produttivo in atto c’è infatti la estrema frammentazione, la ridotta dimensione delle imprese. Polverizzazione che spiega la insufficiente presenza in settori produttivi che esigono alta intensità di capitale, di ricerca, di innovazione. Del resto non è senza significato che la quota di produzione manifatturiera italiana, delle aziende con meno di 500 dipendenti, sia pari al 67 per cento del totale, mentre negli Stati Uniti essa è solo al 27 per cento e nel resto dei paesi europei si va dal 44 al 53 per cento.
Purtroppo, invece di confrontarsi con la durezza dei fatti, un discreto numero di italiani sembra incline a confidare nella Befana. O nello “stellone”, come si diceva una volta. Pensano insomma che basti un po’ di furbizia per riuscire ad aggirarli.
Per diversi anni ci si è illusi di riuscire a porre rimedio ai limiti di competitività con spericolate operazioni di svalutazione monetaria. Senza rendersi bene conto che, assieme ad un sempre più ridotto effetto analgesico, questo tipo di rimedio produceva soprattutto il risultato di arricchire i più ricchi ed impoverire i più poveri. Quando, con l’ingresso nella moneta unica, queste operazioni non sono state più possibili si è cercato un altro espediente. Questo spiega il fervore di iniziative per destrutturare (ben al di là del buon senso e del necessario) il mercato del lavoro, in funzione di una riduzione dei costi di produzione. L’operazione è stata naturalmente impacchettata con la retorica del “piccolo è bello”, della forza e solidità del capitalismo familiare, della spontaneità del mercato. Ora però siamo arrivati al dunque. Cioè alla scomodità di dovere constatare quello che tutti avrebbero dovuto sapere: che con la retorica e gli espedienti non si arriva da nessuna parte.
L’acritica esaltazione del “più mercato e meno Stato”, come incondizionato regolatore della crescita e dello sviluppo, ha avuto perciò il solo risultato di seppellire sotto le palate di terra degli omaggi rituali e dei rifiuti sostanziali una indispensabile discussione intorno ai fattori politico-istituzionali ed alle strutture regolatrici suscettibili di facilitare od ostacolare lo sviluppo. Si è così finito per ignorare che ovunque la ri-regolazione, coinvolgendo gli ordinamenti giuridici esistenti nei vari paesi, ha prodotto anche significativi effetti macro-economici. In particolare quello di ottimizzare i fattori (non solo di mercato, ma anche di etica comportamentale in campo economico, di sicurezza dei diritti, di livelli di istruzione, ed altro ancora) che sono gli elementi imprescindibili dello sviluppo di ogni Sistema-Paese.
Non dovrebbe essere particolarmente difficile capire che gli adattamenti istituzionali e giuridici chiamano in causa le scelte ed il potere politico. Del resto, solo le istituzioni politiche possono infatti promuovere il mutamento e l’adattamento delle strutture giuridiche esistenti.
Questo significa che, per cercare di correggere il declino economico-produttivo dell’Italia, la prima cosa sensata da fare dovrebbe essere quella di reinserire il tema tra le priorità del confronto politico. Ora che gli italiani si sono presumibilmente ripresi da Sanremo, si può sperare che anche le forze politiche incomincino a preoccuparsi meno dello “share” del festival ed un po’ di più delle ragioni strutturali che sono alla base del declino dell’economia italiana?
Domenica, 21. Marzo 2004
 

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