Nomination Usa, per Hillary l'ultima chance

Solo una vittoria schiacciante in Pennsylvania, spiega l'economista e politologo Bluestone, potebbe mantenere Clinton in corsa. Ma probabilmente non sarebbe un bene per i democratici. Non solo perché aumenterebbe il ritardo sul repubblicano McCain che sta già facendo la sua campagna, ma anche perché Obama, da presidente, godrebbe di possibilità sia sul piano internazionale che su quello interno ben superiori a quelle della rivale

Eguaglianza&Libertà - Manca poco a quella che i media considerano la sfida decisiva per la nomination democratica fra Barack Obama e Hillary Clinton. Dobbiamo aspettarci, come sembrano in genere prevedere i media, che la corsa alla nomination democratica possa concludersi con le primarie della Pennsylvania del 22 aprile, o piuttosto che la sfida si protrarrà fino alla Convention fissata a Denver per la fine di agosto? In questo caso quale potrebbe essere il ruolo dei “superdelegati”? Ci sono altri casi nella storia delle “nominations” alla presidenza caratterizzati da una contrapposizione così netta?

Barry Bluestone – Se guardiamo ai risultati ottenuti dai due candidati, vediamo che, a fine marzo, erano stati circa 25 milioni i voti espressi nelle primarie democratiche. Barak Obama ne ha presi il 51%, mentre Hillary Clinton il 49. Obama conduce più o meno di 468.000 voti. Negli Stati che si sono espressi col sistema dei caucus, Barak è ben avanti su Clinton, col 67% del voto. Barack conduce anche nel conto dei delegati eletti nelle primarie sia dal voto che dai caucus, con 1.413 a 1.242 e nel conto totale dei delegati che comprende anche i “superdelegati” formalmente dichiaratisi per 1.622 a 1.485. In effetti, l’unica categoria nella quale Hillary è avanti è questa dei superdelegati, funzionari del partito che hanno il diritto di votare per il candidato che preferiscono.

A questo punto, la senatrice Clinton avrebbe bisogno di schiacciare il senatore Obama nelle primarie di Pennsylvania – con almeno il 60% contro il 40% dei voti – per poter sperare di strappare un maggior appoggio tra i membri del partito. Se invece Barack riesce a piazzarsi entro una forchetta di 8-10 punti, Clinton da quel voto riuscirà a prendere solo pochi delegati in più dei suoi. A quel punto credo che parecchi “superdelegati” potranno cominciare ad impegnarsi con Obama e che la sfida sarebbe virtualmente finita. La Clinton sa bene che nelle primarie ancora in calendario dopo la Pennsylvania (dove si assegnano 158 delegati) ha poche possibilità di battere Obama, e che in Nord Carolina (il 6 maggio, 115 delegati) verosimilmente subirà una pesante sconfitta.      

Un numero crescente di autorevoli esponenti del partito (ad esempio, la presidente della Camera, Nancy Pelosi) sostengono che, se mai i superdelegati rovesciassero quella che primarie e caucus mostrano essere la volontà del partito, a novembre sarebbero guai grossi per i democratici.

Al contrario, la campagna di Clinton diffonde il messaggio che i superdelegati devono votare secondo coscienza e non secondo la volontà della gente. Non è un messaggio che si raccomandi presso molti superdelegati ed è anzi possibile veder aumentare i superdelegati che impegnano il loro voto per Obama. Vedremo nei prossimi giorni chi avrà avuto ragione.

In ogni caso, ci sembra che il fatto stesso di un Obama favorito sia una prova sorprendente di quanto siano cambiati gli Stati Uniti. Quali sono i fattori principali di questo successo? La personalità del candidato? Il senso di frustrazione dell’elettorato di fronte alle rovine causate dalla presidenza Bush ed alla necessità di una svolta radicale? Più in generale, qual è il significato del “cambio” che Obama promette?

Si, ci sono diversi aspetti elettrizzanti nel successo, fino ad oggi, della candidatura di Barak Obama. La più importante, ritengo, è che oggi abbiamo una nuova generazione di afro-americani che vengono identificati prima come americani e poi come neri. In parte questo si spiega con la personalità, il carisma personale di Barak Obama, ma si tratta di una tendenza che ha cominciato ad affermarsi prima nella società e adesso nella politica. Io lo chiamo l’effetto “Tiger Woods”. La generazione di leaders afro-americani coi quali io sono cresciuto era fatta anzitutto da “leaders neri”. In questa categoria metterei Jesse Jackson,  il reverendo Al Sharpton ed anche esponenti del Congresso come John Lewis, Julian Bond e John Conyers. Tiger Woods è visto come forse il miglior giocatore di golf professionista di tutti i tempi, non come un nero che gioca a golf. Colin Powell è stato considerato come un generale del massimo livello (anche se poi screditato come segretario di Stato); Condoleezza Rice viene considerata in primo luogo come consigliere sui temi della sicurezza. E in Massachusetts, abbiamo eletto un governatore afro-americano, Deval Patrick, fatto della stessa stoffa.

Questo non vuole affatto dire che il razzismo sia morto in America. Ne siamo ancora lontani. Ma adesso è diventato possibile, almeno per alcuni leaders neri, avanzare ed essere credibili tanto tra la popolazione di colore quanto in larga parte della popolazione bianca. Ma sono tanti quelli che continuano a essere visti come neri, che vivono vicini alla soglia di povertà in condizioni di profondo disagio, e che continuano ad essere trattati come cittadini di seconda classe.

Siamo tuttavia di fronte a un progresso reale e a uno dei pochi nuovi fenomeni, in America, che sono felicissimo di registrare.

Ci sono differenze importanti fra i programmi di Hillary Clinton e Barack Obama (Iraq, riforma sanitaria, economia)?

In realtà, le differenze sono di pochissimo rilievo sugli snodi programmatici fondamentali. La differenza reale è nel fatto che Hillary è vista come parte della vecchia guardia del partito democratico, mentre Barack e considerato parte della nuova. E c’è anche, diffuso tra i democratici, una sorta di rifiuto per quello che Hillary sembra considerare come una specie di suo diritto alla successione. Sono in molti a respingere questa convinzione che “meriti” la candidatura per essere stata “first lady” e per essere la prima donna credibilmente “presidenziabile”.

Personalmente, credo che mentre rispetto alla linea politica e ai programmi le differenze siano  minori, la differenza di “stile” sia enorme. Barack sarà in grado di andare per il mondo e aprire un dialogo nuovo sia con gli alleati che con gli avversari. Sarà in grado di forgiare nuove alleanze in politica interna per far passare importanti cambiamenti di legislazione. Hillary avrebbe problemi seri su tutti e due questi versanti.

Se lo scontro, in campo democratico, andrà avanti ancora per mesi c’è un rischio di successo di McCain sul candidato che alla fine presenteranno i democratici?

Non c’è dubbio. Il senatore McCain gira per il paese parlando di riconciliazione e facendo appello agli elettori indipendenti - i tanti che voteranno non considerandosi democratici o repubblicani: gli indecisi. Se i due candidati democratici continuano ad attaccarsi per mesi, chi di loro arriverà al traguardo ci arriverà in qualche modo con addosso gli attacchi del suo competitore interno. La mia personale speranza è che diventino sempre di più gli esponenti democratici a prenderne coscienza e a chiedere che Hillary si faccia da parte.

 E’, in conclusione, da scartare la possibilità di un ticket presidenziale che metta insieme Clinton e Obama?

Io credo che sia stato messo in campo troppo risentimento in questo confronto perché sia possibile che uno dei due candidati, a questo punto, scelga l’altro come suo vice. Se scommettessi, direi che il candidato vicepresidente di Barack potrebbe essere Bill Richardson (di origine messicana). Se, invece, in qualche modo, Hillary riuscisse a vincere la nomination, allora non ho idea di chi sceglierebbe come”vice” nella corsa per la presidenza.

 

*Barry Bluestone è professore di economia politica e Direttore della Scuola di Scienze sociali della Northeastern University (Boston). E’ membro fondatore, insieme con Jeff Faux e Robert Reich, dell’Economic Policy Institute di Washington, autore di molti libri di analisi economica e sociale fra I quail (insieme con Bennet Harrison): “The Deindustrialization of America”; “The Great U-Turn: Corporate Restructuring and the Polarizing of America; Growing Prosperity”: “The Battle for Growth with Equity in the Twenty-first Century” e (con Irving Bluestone )”Negotiating the Future: A Labor Perspective on American Business”

Martedì, 8. Aprile 2008
 

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