Morti bianche, Casadio: 'Ma le sanzioni sono essenziali'

Intervista a Giuseppe Casadio, che nella commissione Parlamento-Cnel sul lavoro è responsabile della problematica della sicurezza."Essenziale riorganizzare e rendere trasparenti le responsabilità di ciascun soggetto"

Giuseppe Casadio, già segretario confederale Cgil, è oggi presidente della Commissione Lavoro del Cnel. E’ anche membro della commissione dei diciotto esperti - presieduta da Pierre Carniti e promossa dalle tre presidenze di Camera, Senato e Cnel - incaricata di elaborare un rapporto sui cambiamenti del lavoro negli ultimi decenni. A Casadio Carniti ha chiesto di impegnarsi in particolare sui temi della sicurezza sul lavoro.           

 

Con quali orientamenti si è cominciato ad operare?

 

C’è un lavoro di carattere quantitativo, ad esempio sul numero degli incidenti, che già svolgono l’Inail, l’Ispel, il coordinamento delle Regioni. Vale la pena ora di individuare gli elementi di criticità che sorgono e provare ad elaborare qualche linea di proposta. E’ una premessa che vale per i diversi settori della commissione Carniti.

 

E che cosa è emerso finora?

 

L’Italia ormai da alcuni anni registra una stabilità nel numero degli incidenti sul lavoro. La novità sta nell’innalzato livello di attenzione da parte di istituzioni, forze politiche,  mass media. L’andamento quantitativo del fenomeno non è cresciuto né diminuito significativamente. La discesa c’è stata negli ultimi tre-quattro decenni, ad esempio con il calo da 3500 morti l’anno a 1300. Ma negli ultimi cinque anni non siamo in presenza di una variazione significativa.

 

Come va interpretata questa immobilità?

 

C’è un piano istituzionale chiamato ad intervenire con controlli, strategie di prevenzione, sanzioni. Ma è molto frammentato. Hanno competenze più ministeri, più istituti nazionali (Inail, Ispel). E poi le Regioni, le singole Asl. Una grande frammentazione di competenze e quindi anche di responsabilità che rende difficile definire strategie forti e unificanti. E’ forse la contraddizione più macroscopica. C’è, è vero, una revisione in corso anche dal punto di vista del quadro normativo che almeno teoricamente cerca di intervenire anche su questo aspetto.

 

Il riferimento è al testo unico sulla sicurezza?

 

Si, è una legge delega approvata nell’agosto dell’anno scorso ed ora ed ora il Consiglio dei ministri ha varato il decreto attuativo. Non è comunque un lavoro semplice perché due parti sociali, sindacati e associazioni d’imprese, non sono ancora riuscite a trovare valutazioni comuni. Tanto che il governo intenderebbe procedere almeno per una parte delle deleghe previste. Quella frammentazione di cui parlavamo non è comunque superata. La legge individua il tema delle sinergie come uno dei criteri a cui deve rispondere anche il nuovo testo unico ma non essendoci poi su parti importanti un accordo, tutto si complica. Nel migliore dei casi si potrebbero porre delle premesse dopodichè tutte le partite sui sistemi di vigilanza e di controllo sono da gestire, da far funzionare.

 

Emerge dalla ricerca anche una riflessione sull’iniziativa di sindacati e imprese su questi temi?

 

E’ un impegno che si è progressivamente attenuato. Le ragioni sono molteplici. Hanno inciso i cambiamenti intervenuti nei modelli organizzativi delle imprese. Questi hanno reso più difficile anche il compito dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza. Ha inciso il prevalere di una certa enfasi, in molta parte del sistema delle imprese, sui temi della ricerca di maggior competitività, fondata essenzialmente sull’intensificazione delle condizioni della prestazione di lavoro. In ogni caso nella pratica negoziale si è progressivamente attenuata l’attenzione a questa tematica.

 

E’ una difficoltà collegata alla miriade di situazioni produttive?

 

Basti pensare alla  pratica delle esternalizzazioni, più massiccia che in passato, alla trasformazione delle modalità d’impiego dei lavoratori, alla frantumazione delle tipologie contrattuali, alla maggiore densità di lavoratori non organicamente inseriti nell’impresa ma attraverso modalità di appalto. C’è poi da considerare il ricorso a forme contrattuali temporanee, provvisorie, che rendono più difficile l’organico inserimento del lavoratore nel ciclo produttivo e la sua conoscenza dei rischi della condizione lavorativa. Per non parlare dell’affacciarsi nel mercato del lavoro di soggetti nuovi e più esposti, ad esempio gli immigrati. Tutto questo non è stato accompagnato da percorsi di acculturazione, di formazione e da paralleli interventi in termini di investimenti e di tutele, capaci di migliorare il livello di autocoscienza dei lavoratori e di migliorare le condizioni oggettive dei processi produttivi.

 

Che cosa dedurre da una tale descrizione?

 

Il quadro normativo italiano che ha accompagnato questi fenomeni ha contribuito ad evitare che tutte queste trasformazioni provocassero una nuova ripresa ed un aumento dopo anni di calo degli incidenti sul lavoro. Ma ha anche impedito che si continuasse in un trend di miglioramenti significativi come era stato negli anni precedenti.

 

Quali sono le proposte possibili?

 

Più che su nuove norme credo si debba puntare su una riorganizzazione che consenta, per un verso, di semplificare e rendere trasparenti le responsabilità di ciascun soggetto. Anche sul fronte istituzionale. Mentre, dall’altro verso, occorre  puntare a ricostruire le condizioni per rimettere in campo un protagonismo diretto dei soggetti interessati, imprese e lavoratori. Il grande passo avanti in Italia su questo tema si è fatto, nel passato, a partire da tutto il dibattito negli anni sessanta, sul rifiuto della delega sui temi della salute. Non nuove norme ma riorganizzazione, fatto salvo per un aspetto. Quello delle sanzioni. Il sistema ispettivo sanzionatorio va ripensato e reso anche più severo. Di questo si sente il bisogno più che di inventare nuove regole.

Domenica, 9. Marzo 2008
 

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