Modello contrattuale? Prima parliamo di salari

Appena chiuso il tormentato contratto dei metalmeccanici la Confindustria ha affermato che il modello contrattuale va cambiato. Ma per il sindacato c'è un problema assai più urgente: riesaminare criticamente la politica di questi anni che ha prodotto una redistrubuzione a svantaggio dei lavoratori. Solo dopo aver individuato una nuova strategia si potrà eventualmente affrontare anche quel problema
Seppure con tredici mesi di ritardo sulla scadenza naturale, la conclusione del contratto dei metalmeccanici è stata condivisa dai lavoratori e salutata con un compiaciuto sospiro di sollievo dalle organizzazioni sindacali. Per parte sua la Confindustria, tramite il suo vice presidente Alberto Bombassei, ha fatto sapere di essersi adoperata per la conclusione della lunga vertenza, ma ha anche sottolineato che questo contratto deve essere considerato l'ultimo del vecchio ciclo. Secondo Confindustria sarebbe infatti indispensabile una "riforma del modello contrattuale". Su questa necessità, anche se è lecito supporre non sul merito della ipotizzata riforma, Montezemolo avrebbe accertato la disponibilità di Angeletti, Epifani e Pezzotta.

Se confermata, devo dire che trovo la notizia francamente sorprendente. Non solo e non tanto perché è difficile intravedere un terreno di conciliazione con i propositi che spingono la Confindustria a sollecitarla. In effetti, l'organizzazione imprenditoriale sostiene che per migliorare la competitività dell'apparato produttivo le aziende, invece di accrescere l'innovazione di prodotto e di processo (e, dunque, gli investimenti) abbiano prima di tutto bisogno di dilatare i margini di discrezionalità e di unilateralità sull'organizzazione del lavoro, sugli orari, sui salari. Pensa insomma che la soluzione al problema della progressiva perdita di competitività consista nel "parlare d'altro".
 
Intendiamoci, questa tendenza a svicolare non è un requisito esclusivo del padronato. Si tratta infatti di un  vizio italico piuttosto antico e diffuso. Del resto, non è inusuale che nelle vicende italiane compaiano sulla scena persone (Berlusconi è il "campione assoluto della specialità" in carica) o gruppi convinti che il modo migliore per risolvere un problema sia quello di inventare un altro problema. Il punto, dunque, non è questo.
 
In effetti non sarà la prima e nemmeno l'ultima volta che tra le organizzazioni dei lavoratori e quelle degli imprenditori ci sono idee ed opinioni contrapposte circa la natura dei problemi e la loro soluzione. Non sorprende nemmeno che si possa mettere mano al sistema delle relazioni industriali. In fin dei conti le relazioni contrattuali sono il prodotto della storia. E possono perciò cambiare con il mutare del contesto storico. Semmai è il termine "riforma" che, in questo caso, è utilizzato in modo improprio. E quindi a sproposito. In quanto essendo la contrattazione una esperienza dinamica essa si rinnova e si riforma continuamente. Da sé stessa. Si potrebbe dire per partenogenesi.

La ragione della meraviglia è invece che i sindacati dei lavoratori si possano rendere disponibili ad un confronto con la Confindustria sugli assetti contrattuali senza una adeguata discussione nelle organizzazioni e tra le organizzazioni. Soprattutto senza una prioritaria ed appropriata discussione  sul nesso esistente tra politica contrattuale e politica economica. Senza cioè un riesame critico delle esperienze di concertazione e di politica dei redditi realizzate negli ultimi dieci - quindici anni, per approfondirne le potenzialità, ma anche le ambiguità.

Mi permetto quindi qualche considerazione al riguardo, nella speranza che possa risultare utile. Innanzi tutto, alla "concertazione" ed alla politica dei redditi negli anni novanta (a partire dall'accordo triangolare del 1993) va certamente riconosciuto il merito di avere impedito che la crisi economica si approfondisse. Tuttavia, questo riconoscimento non esime dal tentare di capire quali siano stati gli effetti di questa politica sul sistema economico e sociale e quali siano gli insegnamenti che se ne possono trarre.

A questo proposito non si può non partire da una constatazione. Proprio nel periodo in cui è stata sperimentata una politica che per definizione si dovrebbe porre l'obiettivo di "governare la distribuzione del reddito", la quota del reddito da lavoro è diminuita sensibilmente a vantaggio di quella attribuita ai profitti ed alle rendite. Non si tratta di un dettaglio di poco conto. Al contrario, è un mutamento di portata storica. Basti pensare che nei quarant'anni precedenti le due quote erano rimaste sostanzialmente stabili. Sia nei momenti di forti tensioni salariali che in quelli di bassa dinamica delle retribuzioni. Quindi il fatto che la politica dei redditi, nell'ultima dozzina d'anni, abbia fallito il suo obiettivo più qualificante (cioè quella di assicurare alle parti sociali una redistribuzione del reddito tendenzialmente equa e relativamente stabile) è un problema su cui non si può non riflettere. Senza pregiudizi.

La riflessione deve andare necessariamente al di là della considerazione che l'obiettivo prioritario assunto all'inizio degli anni novanta, più che di garantire la stabilità nel tempo della distribuzione  tra redditi da lavoro, profitti e rendite, era semmai quello di scongiurare che ripetute svalutazioni della lira creassero le condizioni di una spirale perversa fatta di svalutazione, inflazione (legata all'aumento dei prezzi internazionali) nuova svalutazione, ulteriore inflazione, e così via. Si tratta di una ragione certamente importante per capire perché, con l'accordo del 1993, i lavoratori abbiano accettato una temporanea riduzione della quota del loro reddito. La ragione è che, in una situazione economica particolarmente difficile e pericolosa, una forza sociale responsabile non si può sottrarre al dovere di cercare di contribuire al raggiungimento di un obiettivo di interesse generale. Nel caso concreto, al tentativo di ricostituzione delle condizioni necessarie  per la ripresa di uno sviluppo di lungo periodo. Ma, ovviamente, la compressione del reddito da lavoro avrebbe dovuto essere assolutamente temporanea. Non avrebbe perciò dovuto diventare né progressiva, né tantomeno eterna. Le cose però sono andate diversamente.

Una redistribuzione del reddito a danno del lavoro è infatti proseguita nel tempo. Con effetti cumulativi. Il che, se aiuta a sgombrare il campo dalla congettura (diffusa all'inizio degli anni novanta) che fosse soprattutto l'impatto dei prezzi internazionali la causa principale dei nostri ridotti ritmi di crescita economica, lascia aperta la necessità di capire le ragioni vere della diminuzione del reddito da lavoro. E soprattutto se questo debba essere considerato un inevitabile pedaggio da pagare sempre e comunque.
Ebbene, a mio parere, una prima spiegazione è che avendo deciso di commisurare gli incrementi della retribuzione all'andamento della produttività media del sistema economico ne è derivata una ovvia conseguenza. Con incrementi retributivi tendenzialmente analoghi, anche tra settori con dinamiche della produttività diverse, è successo che nei settori con una produttività superiore alla media sono aumentati i profitti. Viceversa, nei settori in cui la produttività è cresciuta meno della media sono aumentati i prezzi. Il risultato è stato che, nell'uno e nell'altro caso, si è operata una redistribuzione a danno dei salari.

Una seconda spiegazione è che la "politica dei redditi", nel caso italiano, si è sostanzialmente risolta in una "politica dei salari". La ragione è presto detta. Se ovunque ed in generale è piuttosto arduo un effettivo controllo dei profitti, lo è tanto più quando il sistema fiscale è disposto a "chiudere un occhio". O, come da noi, tutti e due. Ugualmente difficoltoso è governare, se non in modo indiretto, gli investimenti. Infine, altrettanto difficile una politica di controllo dei prezzi.
 
Rebus sic stantibus,  la politica dei redditi si è, nei fatti, rivelata uno strumento che ha agito in modo asimmetrico sui diversi soggetti. Perché ha reso certo il contributo del lavoro ed evanescente quello degli altri gruppi sociali. In sostanza, una politica immaginata per evitare le tensioni inflazionistiche derivanti dalla conflittualità sociale ha, di fatto, finito per trasformarsi in una modifica della distribuzione del reddito tra profitti e salari (ovviamente a danno di questi ultimi) ed in una redistribuzione delle risorse tra i diversi settori sociali.

Una terza spiegazione è che una politica dei redditi, per essere efficace, dovrebbe contare su una  politica fiscale e monetaria coerenti. Se si considerano le vicende economiche degli anni novanta, fino alla introduzione dell'euro, sono abbastanza evidenti le difficoltà di riuscire ad utilizzare queste politiche in modo conseguente. In effetti la politica fiscale e quella monetaria sono state realizzate in modo del tutto autonomo e con obiettivi esplicitamente diversi rispetto a quelli di una politica dei redditi. Il risultato è stata una politica fiscale restrittiva (soprattutto sul lavoro dipendente, soggetto al prelievo alla fonte) ed una politica monetaria caratterizzata a lungo da alti saggi di interesse. Politiche che hanno quindi finito per incidere in maniera significativa sul livello del reddito disponibile dalle famiglie e, per questa via, sulla distribuzione globale del reddito.
 
Dopo l'entrata nell'euro, la politica monetaria non è più nelle mani di autorità nazionali e la politica fiscale (in particolare con il governo di centro-destra) si è data come scopo esplicito quello di "confortare i confortati". Baste pensare, ad esempio, allo "scudo fiscale", che ha permesso ai grandi evasori di cavarsela con una aliquota (più serio chiamarlo "obolo") del 2,5 per cento.

Per funzionare infine la politica dei redditi dovrebbe essere accompagnata da "politiche strutturali" (come si diceva negli anni sessanta e settanta, quando si discuteva di programmazione economica) capaci di ridurre le aree di "rendita". Vale a dire tutte quelle situazioni (ipertrofiche nel sistema economico italiano) che si caratterizzano per inefficienza e per comportamenti inflazionistici. In una parola, per l'assenza di effettive condizioni di concorrenza. Politica dei redditi e politiche strutturali dovrebbero essere facce complementari di uno stesso progetto di intervento. In assenza delle seconde e' difficile tenere sotto controllo l'inflazione ed avere ragionevoli garanzie circa una equa distribuzione del reddito.

Quest'ultima considerazione mi induce a ricordare la discussione con Federico Caffè in vista ed a margine degli accordi triangolari stipulati nel 1983 e nel 1984. Caffè esprimeva una posizione critica. Egli sosteneva infatti che la lotta all'inflazione non poteva essere affidata in modo credibile alla politica dei redditi se questa avesse ignorato la presenza di una vasta area di lavoro indipendente. Area che non poteva essere esentata dall'assumere precise obbligazioni. Considerato  la sua capacità ed anche la sua rapidità ad indicizzare i prezzi.

Il rilievo di Caffè era fondato ed il sindacato cercò di tenerne conto in due modi: primo, con contropartite relative all'equo canone, alle tariffe e soprattutto fiscali; secondo, limitando la durata degli accordi in modo da potere apportare tempestivamente correttivi se, alla loro scadenza, gli effetti redistributivi fossero risultati diversi da quelli attesi. A questo proposito non è superfluo ricordare che le obbligazioni previste per i lavoratori dall'accordo del 1983 avevano durata di un anno, mentre quelle relative all'accordo del 1984 si esaurivano in un semestre. La predeterminazione degli scatti di scala mobile si concludeva infatti nei primi due trimestri.

Nel 1993 si è invece deciso di poter definire una intesa a tempo indeterminato. Sicché il combinato disposto del contenimento della dinamica salariale entro parametri prefissati, mentre profitti, rendite e prezzi rimanevano sostanzialmente liberi di autodeterminarsi, ha influito sul progressivo peggioramento della distribuzione del reddito a danno del lavoro. I dati sono evidenti. La conferma arriva per altro anche dalla recentissima indagine della Banca d'Italia sui bilanci delle famiglie italiane. Basterà sottolineare un solo dato. Nel biennio 2002 - 2004, le famiglie con capofamiglia un lavoratore indipendente hanno realizzato un incremento del loro reddito (in termini reali) pari all'11,7 per cento. Al contrario, le famiglie con capofamiglia lavoratore dipendente hanno subito una diminuzione di reddito del 2,1 per cento. Sempre in termini reali naturalmente. E', dunque, evidente che c'è qualcosa che non funziona nelle politiche distributive che sono state realizzate.

Quali conclusioni si debbono trarre?  E' forse necessario un "voto di astinenza" da pratiche concertative e di politica dei redditi? Non credo affatto. Purché, naturalmente, si sappia trarre i dovuti insegnamenti dall'esperienza fatta.
 
Il primo di questi insegnamenti è che la concertazione non può servire anche per curare i raffreddori e le bronchiti croniche. Essa non è come l'Aspirina che, secondo certe scuole mediche, fa sempre bene. La concertazione ha infatti importanti "effetti collaterali". A cominciare dal fatto che esige una "centralizzazione" delle relazioni contrattuali, con tutte le conseguenze connesse.
 
Secondo,  non si può scambiare la "politica dei redditi" per una "politica dei salari". Perché un "disarmo unilaterale" imposto ai salari non può reggere se contemporaneamente si consente un compiacente "incremento degli arsenali" per i prezzi, i profitti e le rendite.  Perché questa asimmetria produce uno squilibrio dannoso. Che non ha senso sul piano economico e, tanto meno, su quello sociale.
 
Terzo, occorre anche che gli eventuali accordi triangolari non siano di durata indefinita, cioè a "babbo morto". Al contrario occorre sempre stabilire una scadenza certa e delimitata nel tempo. In modo da rendere possibile una tempestiva correzione di effetti inattesi, o peggio, indesiderati. Quarto, gli accordi triangolari devono infine contenere chiari obiettivi quantificati e verificabili, ma soprattutto una esplicita distribuzione tra tutti i gruppi sociali degli oneri, necessari al loro conseguimento. Il che esclude, ad esempio, che si possa fare una politica dei redditi tassando le rendite al 12,5 per cento ed il lavoro al 37 per cento.

Per farla breve. Concertazione e politica dei redditi non possono essere un pretesto per scaricare sul solo lavoro dipendente il costo dell'aggiustamento economico. Magari illudendosi ed illudendo che questo costituisca la scorciatoia per recuperare competitività sui mercati interni ed internazionali. Ma proprio per scongiurare questo pericolo il sindacato ed i lavoratori non dovrebbero sottrarsi all'esigenza di una analisi ed un bilancio  dell'esperienza degli ultimi dieci-quindici anni. In modo da potere realisticamente valutare ciò che merita di essere confermato e ciò che, al contrario, dovrebbe invece essere corretto. C'è quindi una discussione che deve essere prioritariamente aperta nelle organizzazioni e tra le organizzazioni dei lavoratori ed è quella sulla "politica sindacale". Quella sul "modello contrattuale" non può quindi che venire dopo. Quando cioè risulteranno chiari motivi specifici che possono eventualmente consigliare interventi di restauro anche degli assetti contrattuali.
Lunedì, 30. Gennaio 2006
 

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