Mito e realtà della 'nuova economia'

Dopo il fallimento del Doha Round per non scontentare un pugno di agricoltori americani facciamo un punto sul significato della mondializzazione dell'economia: le cifre dicono che è molto diverso da come lo si presenta correntemente, nei fatti e nelle conseguenze
Il fallimento dei negoziati sul commercio internazionale (iniziati nel 2001 a Doha nel Quatar e conclusi con un nulla di fatto a Ginevra nel luglio 2006) allunga la catena dei fiaschi diplomatici, ma allunga anche la catena delle occasioni economiche perdute. Secondo le previsioni della Banca Mondiale, la liberalizzazione del commercio internazionale legata al Doha Round avrebbe stimolato un aumento di 287 miliardi di dollari del prodotto mondiale; di cui 86 miliardi per i soli paesi in via di sviluppo. Quanto sarebbe bastato per far uscire 66 milioni di persone dalla povertà.

Dietro questo fallimento ci sono gli interessi di meno di 10 milioni di persone. Lo zero virgola zero quindici della popolazione mondiale. A tanto ammontano gli agricoltori dei paesi ricchi. In particolare di Europa e Stati Uniti. Il negoziato è saltato infatti per proteggere i loro sussidi. Anzi, a dar retta a brasiliani, indiani ed al commissario europeo Peter Mandelson l'area che ha provocato la crisi fino al coma della trattativa è molto più ristretta. Si tratterebbe infatti delle poche centinaia di migliaia di coltivatori di riso, di cotone, di granoturco e frumento americani, i quali assorbono i tre quarti dei sussidi americani all'agricoltura. Sussidi che l'amministrazione Bush si è categoricamente rifiutata di tagliare rendendo di fatto impossibile la prosecuzione del negoziato.

Lo scarico di responsabilità e lo scambio di aspre accuse, soprattutto tra Europa e Stati Uniti, può darsi che riesca a far risorgere la fenice (del Doha Round) dalle proprie ceneri. E, dunque, sia pure con fatica non è da escludere che tra qualche tempo la trattativa possa riprendere. Non prima di qualche mese però. Perché nel frattempo in Francia si terranno le elezioni presidenziali e negli Stati Uniti le elezioni di medio termine. Due paesi nei quali la lobby degli agricoltori è fortissima. E tanto Chirac che Bush non sembrano affatto intenzionati a sfidarla.

Secondo le ricostruzione fornite dalla stampa, il corto circuito che ha prodotto il black-out di Ginevra troverebbe una spiegazione ed una responsabilità precisa nell'ottusità e nell'arroganza della Amministrazione americana. In effetti il negoziato ruotava intorno a tre questioni. La prima. Ai paesi emergenti, come Brasile, Cina, India, era richiesto di ridurre ad un massimo del 15 per cento i loro dazi industriali, che (in settori come l'auto e la siderurgia) arrivano ora al 35 per cento. La seconda. All'Europa si domandava invece di abbattere del 54 per cento i dazi sull'importazione di prodotti agricoli.  La terza. Agli Stati Uniti era infine chiesto di tagliare i suoi sussidi alla produzione agricola interna.
 
Ebbene, iI paesi emergenti sembravano pronti a ridurre le tariffe doganali sui prodotti industriali. L'Europa era arrivata ad offrire un taglio vicino alla richiesta (il 52 per cento rispetto al 54 ). Gli Stati Uniti si sarebbero invece rifiutati di ridurre i loro sussidi agricoli sotto la cifra annua di 22,5 miliardi di dollari. Il che significa che, in buona sostanza, anziché ridurli li avrebbero addirittura aumentati di circa tre miliardi di dollari all'anno, rispetto a quanto speso nel 2005, quando hanno concesso ai loro agricoltori sovvenzioni per circa 20 miliardi di dollari. Un po' più del reddito nazionale del Kenia. Un quarto di quello dell'Egitto. Il doppio di quello della Costa d'Avorio. Otto volte quello del Mali. Quindici volte quello del Ciad. Quaranta volte quello dell'Eritrea. E si potrebbe continuare. Due dei venti miliardi di sovvenzione agli agricoltori americani vanno a poco più di un centinaio di produttori di cotone. Grandi e grandissime aziende che, grazie al sussidio, fanno lauti profitti. Il punto da tenere ben presente è che senza questi aiuti le esportazioni americane di cotone si dimezzerebbero e la produzione mondiale si sposterebbe verso l'Egitto e l'India. Due paesi il cui cotone è mediamente di qualità superiore a quello americano. Ma non essendo sussidiato è anche però inesorabilmente meno competitivo.
 
Difficile, allo stato, fare previsioni su come e quando il Doha Round potrà essere sottoposto ad un trattamento di rianimazione. Non si può comunque escludere in assoluto che, alla fine, la diplomazia riesca ad inventarsi qualche gabola per rimettere in piedi il negoziato. In ogni caso, la vicenda permette già alcune considerazioni.
 
La prima riguarda i sussulti che periodicamente animano le lodevoli campagne per sensibilizzare l'opinione pubblica internazionale circa la necessità di accrescere gli "aiuti" dei paesi ricchi ai paesi poveri. Compresa la riduzione ed in alcuni casi la "cancellazione del debito". A questo proposito voglio ricordare un piccolo episodio, del quale sono stato testimone. Una decina di anni fa il Parlamento Europeo organizzò una seduta solenne con lo scopo di discutere la situazione dell'Africa sub-sahariana e le possibile iniziative dell'Europa per contribuire a migliorarla. Ospite d'onore della seduta era l'allora presidente del Kenia. Nell'occasione furono pronunciati discorsi importanti. Anche se non privi di retorica, come succede spesso nelle cerimonie formali. Al termine della seduta un intervento icastico del presidente del Kenia provvide però a mettere la discussione con i piedi per terra. "Se proprio siete intenzionati a darci una mano - disse in sostanza - invece di esercitarvi a formulare ipotesi improbabili è meglio che vi impegnate a fare la cosa più urgente e concreta che dipende solo da voi: smettere di finanziare la vostra agricoltura. Perché le vostre sovvenzioni non solo distorcono il mercato, ma strangolano la nostra produzione agricola, aggravando di conseguenza anche la nostra dipendenza alimentare". A distanza di due lustri i problemi sono rimasti più o meno gli stessi. Gli aiuti pubblici costituiscono tuttora quasi un terzo del reddito degli agricoltori europei ed i paesi ricchi (Europa inclusa) a proposito di "libero mercato" restano poco inclini a superare la scissione tra parole e fatti.

Il secondo ordine di considerazioni riguarda la "globalizzazione". E' possibile che anche senza gli accordi che erano nei propositi del Doha Round l'integrazione economica del mondo non si fermi. Resta tuttavia il fatto che un successo del negoziato avrebbe implicato il rilancio di un sistema di regolazione multipolare, in un mondo che in tutti i campi manifesta una crescente e pericolosa tendenza al disordine. Il fallimento aggrava perciò le brutte notizie. Non a caso, immediatamente dopo l'interruzione dei negoziati, le tendenze commerciali meno positive si sono subito messe in moto. La Russia ha rinviato al 2007, o al 2008, il suo ingresso nel Wto (l'organizzazione del commercio mondiale). L'India ha detto che svilupperà i suoi accordi commerciali su base bilaterale invece che multilaterale. La Cina, timorosa di indesiderati contraccolpi al proprio regime politico, ha deciso di rallentare il passo delle sue "riforme economiche". Da queste notizie dobbiamo dedurre che per la globalizzazione si prepara un futuro di nuvole basse? Non è detto.
 
Intanto bisogna mettersi d'accordo su cosa intendiamo quando parliamo di globalizzazione. Perché il termine globalizzazione (o mondializzazione, nella versione francese) del mercato, usato per indicare una fase inedita nella storia del capitalismo, esprime un concetto incerto. Per non dire falso. Secondo la definizione dell'Ocse (l'Organizzazione  per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, che riunisce tutti i paesi capitalisti sviluppati) per globalizzazione si deve intendere "quel processo mediante il quale i mercati e la produzione dei diversi paesi sono sempre più interdipendenti, in corrispondenza alla dinamica degli scambi di beni e servizi ed ai movimenti di capitali e di tecnologie".
 
Sulla base di questa definizione non è difficile convenire che non si tratta assolutamente una novità nella storia del capitalismo. Senza risalire troppo indietro, in effetti già alla vigilia della prima guerra mondiale (esattamente nel 1914), le economie dei singoli paesi industrializzati mostravano uno straordinario grado di integrazione. Integrazione misurabile sulla base del commercio internazionale e dagli investimenti diretti all'estero (in rapporto al prodotto mondiale). Ossia degli investimenti volti a fondare o ad acquisire imprese all'estero.
 
Tra il 1914 ed il 1950 si è poi verificato un crollo del commercio mondiale. Crollo causato da due guerre mondiali e dalla grande crisi economica del 29-33, alla quale i diversi paesi hanno cercato di reagire con svalutazioni competitive per rendere più convenienti le proprie merci sul mercato interno e su quello internazionale. Le svalutazioni competitive hanno però prodotto una inevitabile spirale verso il basso, con una drastica ripercussione sull'insieme del commercio internazionale. Pochi dati possono bastare per dare il quadro della situazione. Con la Grande Crisi l'interscambio era caduto del 30 per cento, in linea con il crollo della produzione. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, malgrado le enormi spese per il riarmo facessero risalire la produzione industriale del 20 per cento in rapporto al livello precedente la Grande Crisi, l'interscambio era rimasto ancora inferiore del 15 per cento rispetto al livello del 1929. Bisognerà quindi arrivare alla fine del secolo per ritornare ad una quota del commercio internazionale (rapportato al prodotto mondiale) pari a quella esistente nel 1914.

Il carattere di novità della globalizzazione appare persino più inconsistente se misurato in relazione agli investimenti diretti all'estero per la creazione o l'acquisizione di imprese. Con tutte le cautele necessarie nei confronti tra epoche diverse, è stato tuttavia calcolato che nel 1999 lo consistenza degli investimenti diretti all'estero rappresentava solo il 20 per cento dell'indebitamento a lungo termine a livello internazionale (vale a dire dell'insieme dei debiti contratti dai singoli paesi) rispetto al 35 per cento del 1914.

Come mai dunque nell'opinione pubblica si è fatto strada il convincimento che la globalizzazione costituisca un processo inedito? Personalmente penso che nel successo di marketing del "mito della globalizzazione", abbiano giocato un ruolo rilevante tre ingredienti: l'enfasi sulla cosiddetta new economy; lo spauracchio sulla crescente capacità concorrenziale dei paesi in via di sviluppo; la sapiente campagna di promozione circa le presunte le virtù salvifiche dell'ideologia liberista.
 
A partire dagli anni ottanta i mezzi di informazione hanno fatto a gara nel magnificare il paesaggio rigoglioso, i fiumi di latte e miele, che la new economy sembrava promettere al mondo globale. Non a caso, pochi anni dopo il quotidiano La Repubblica decide di cambiare  il proprio supplemento economico settimanale per concentrarlo sulla new economy.  Presumibilmente giudicata, oltre che più di moda, anche la base reale dello sviluppo futuro. La cosa curiosa è che il radicale mutamento editoriale viene realizzato  quando ormai si stavano avvertendo i primi scricchiolii a cui, nel giro di poco tempo, faranno seguito crolli più o meno clamorosi di un buon numero di progetti ed iniziative riconducibili alla cosiddetta  new economy.
 
Al momento non c'è una definizione chiara e condivisa per ciò che si debba intendere con  il termine  "nuova economia". Tuttavia l'orientamento più gettonato è quello che allude ad una nuova onda lunga di sviluppo generata dalla diffusione di internet con la connessa propagazione di investimenti in titoli tecnologici quotati in Borsa. Titoli che schiere entusiaste di navigatori in rete sarebbero ansiosi di acquistare. Anche qui vale l'osservazione che ho già fatto a proposito della globalizzazione. Che cioè che la "nuova economia", forse non è così nuova.

In effetti, gia nel Seicento in Olanda scoppiò una corsa speculativa sui tulipani. Speculazione che fece la fortuna di pochi (e svelti) furbacchioni e la rovina di molti creduloni. I quali, come Calandrino, pensavano di avere avuto la fortuna di imbattersi nella "pietra filosofale". Meno di un secolo dopo, nel 1715 In Francia, John Law, un avventuriero non privo di talento finanziario, inventa la Banque Royale e la "cartamoneta". Invenzione che permette allo Stato francese (oberato da due miliardi di livres di debiti) di scongiurare una bancarotta pressoché inevitabile.
 
L'anno dopo Law completa l'operazione facendosi accordare dallo Stato il monopolio dei traffici con la Luisiana, territorio americano su cui la Francia "vantava" dei diritti e che si favoleggiava fosse ricco di ogni ben di Dio: oro, diamanti, thè, tabacco, legnami pregiati. Sulla base di quella concessione fonda la Compagnia del Mississipi, (successivamente dell'Occidente) per sfruttare le ricchezze di quella terra favolosa. Si affretta quindi ad emettere le azioni della Compagnia, al valore nominale di 500 livres ciascuna. La credulità e l'avidità di tanti aspiranti alla ricchezza facile decretano il successo dell'emissione. Nel giro di poco tempo le azioni vanno a ruba. Il loro valore sale rapidamente a mille livres, poi a duemila, poi a diecimila, poi a ventimila. Parigi è impazzita e la febbre del Mississipi  diventa contagiosa.
 
Presto Banca e Compagnia si saldano in una unica holding finanziaria. Il cerchio è apparentemente perfetto. La banca emette biglietti di cartamoneta prestandoli allo Stato che con quelli rimborsa i suoi debiti e paga le sue spese, fornendo così a molti risparmiatori i mezzi per sottoscrivere le azioni della Compagnia il cui ricavato, chiudendo appunto il cerchio, è riprestato allo Stato. Sembrava l'uovo di Colombo. Se non che due dettagli misero fine alla cuccagna. Il primo, che i soldi delle azioni avrebbero dovuto servire a finanziare gli investimenti per lo sfruttamento della Luisiana. Il secondo, ancora più decisivo, era che in Luisiana non c'era proprio niente, se non foreste, paludi, alligatori e sparse tribù di indiani piuttosto infastiditi di ricevere visitatori indesiderati. Per fare buon peso si deve aggiungere che spagnoli ed inglesi accampavano a loro volta diritti su quel territorio e pensavano che la forza fosse il modo più appropriato per farli valere. Così le poche migliaia di coloni che si erano fatte persuadere ad andarci avevano fatto una brutta fine. Sicché, con la stessa rapidità con cui si era formato, il castello di carte (banconote ed azioni) crollò. Law riescì a malapena a sfuggire alla folla inferocita degli arricchiti ed impoveriti di colpo, scappando per mezza Europa ed approdando alla fine a Venezia, dove morirà nel 1729.

La creatività finanziaria di Law non andrà però dispersa. Malgrado il pessimo ricordo lasciato, la cartamoneta farà la sua ricomparsa pochi decenni dopo per iniziativa di due governi rivoluzionari assolutamente a corto di quattrini: gli Stati Uniti d'America e la Francia giacobina. Come le monete di carta anche le imprese speculative più avventate ed improbabili avranno numerose repliche. Giorgio Ruffolo, in una sapiente ed estrosa "storia dell'economia dal Paradiso terrestre all'inferno della finanza" ("La coda del diavolo", Einaudi editore), segnala alcuni casi davvero eccentrici. Ad esempio: nel 1824 viene fondata la Metropolitan Bath Company per pompare acqua dal mare fino a Londra, offrendo così i benefici di bagni salati a tutti coloro che non potevano permettersi vacanze al mare. Invece la London Umbrella Company promette di sollevare le persone "dall'inconveniente di portare l'ombrello quando il tempo è buono e di esserne sprovvisti quando piove", grazie ad una serie di stazioni per l'affitto di ombrelli a prezzi contenuti. Invenzione di sicuro avvenire. Ma che purtroppo per una serie di contrattempi non riuscirà ad avere il seguito concreto che invece avrebbe meritato. Altrettanto significativo il progetto presentato alla Borsa di Londra di "drenare il Mar Rosso alla ricerca di oro e gioielli lasciati dagli egizi travolti dalle acque mentre stavano inseguendo gli ebrei".

Insomma ogni epoca ha conosciuto le sue avventurose esplosioni di "nuova economia". Tornando al presente c'è da osservare che nel linguaggio degli addetti ai lavori la formula new economy viene utilizzata in riferimento all'evoluzione in atto negli Stati Uniti, che per primi (anche con la realizzazione di un apposito indice di Borsa) avrebbero intuito le grandi possibilità offerte da internet e dintorni. C'è però un aspetto che tutte le persone di buon senso non dovrebbero sottovalutare. Pare infatti piuttosto audace definire "nuova economia" quella basata sugli investimenti in Borsa di titoli di imprese tecnologiche. Per il semplice fatto che (se ha ragione Robert Kubarych, già capo economista a Wall Street ed ora al Council af Foreign Relations) la stragrande maggioranza di esse non farà mai profitti.
 
La questione non è di scarso rilievo. Perché una economia che riesce a pompare denaro senza produrre profitti (che i manuali di economia continuano a ritenere la base dell'accumulazione capitalista) sarebbe molto più che nuova. In effetti sarebbe niente di meno che il preannuncio del superamento del capitalismo e per i più religiosi del superamento del "peccato originale" (da cui è derivata la condanna a "lavorare con il sudore della fronte") con il ritorno nel Paradiso terrestre. Insomma, il capitalismo non fallirebbe a causa della ribellione del proletariato contro lo sfruttamento (come ipotizzava Carlo Marx) ma in modo del tutto inatteso, in conseguenza della nuova economia e della scorribande finanziarie che l'accompagnano.

C'è poi un ulteriore aspetto alquanto intrigante. Come si sa gli economisti hanno teorie diverse e sono divisi su molte opinioni. Sono però tutti più o meno d'accordo nel definire l'economia come la "scienza che studia l'uso ottimale di risorse scarse". Ora, se quelle finanziarie (con un po' di inventiva) diventano infinite vuol dire che siamo alla fine dell'economia. Così, dieci anni dopo la fine della storia, proclamata da Fukuiama, saremmo arrivati anche alla fine dell'economia. Che appunto non sarebbe più né vecchia né nuova, ma semplicemente  finita. Riccardo Baccelli scriveva:  "l'esperienza è quel che ci rimane dopo che si è perso tutto il resto". Se questo è vero non è da escludere che il crollo (già iniziato) di molti titoli "tecnologici", con le connesse perdite in conto capitale, possa comportare qualche utile esperienza. Quanto meno per aiutare a distinguere l'economia dei "furbetti" da quella "reale".
 
Vengo ora al secondo ingrediente che, a partire dagli ultimi due decenni del secolo appena terminato, ha contribuito non poco ad alimentare la "leggenda" di una globalizzazione inarrestabile. Mi riferisco allo spauracchio abilmente agitato a proposito della supposta, dirompente, espansione della capacità concorrenziale di un certo numero di paesi in via di sviluppo. Acquisita grazie ai  bassi salari ed all'inconsistenza dei diritti (sia sociali, che civili e politici). Il messaggio che in questo modo stato veicolato è alquanto semplice. Se vogliamo salvare un po' delle nostre attività produttive dobbiamo darci una regolata e sottoporre anche noi a cura dimagrante tanto i salari che i "diritti del lavoro".

L'offensiva sul punto ha avuto inizio con l'allarme per il dilagare della apparente, inarrestabile capacità concorrenziale di paesi del Sudest asiatico. Prima si è parlato delle "quattro tigri". Cioè: Corea del Sud, Hong-Kong, Singapore e Taiwan. Poi sono venuti i "dragoni". Vale a dire: Brunei, Filippine, Indonesia, Malaysia, Thailandia. Una tracimante letteratura allarmistica si è prodigata per un certo numero di anni a denunciare il rischio che la crescente capacità concorrenziale di questi paesi avrebbe inevitabilmente messo in ginocchio le imprese dei paesi capitalisti industrializzati. Questo l'insistito, reiterato ammonimento. I dati effettivi del commercio internazionale, di cui  disponiamo, mostrano però una realtà piuttosto diversa. Le cifre sulla evoluzione del commercio mondiale sono significative. La quota dell'Asia che nel 1979 era pari al 16,6 per cento, rimane sostanzialmente stabile nel 1989 (16,8 per cento) per salire al 20,8 per cento nel 1999. Questa espansione non avviene però a danno dei paesi industrializzati, la cui quota passa dal 66,2 per cento del 1979 al 67,9 per cento del 1999, ma a spese dell'Africa che passa da una quota del 4,2 per cento nel 1979 all'1,6 per cento nel 1999.

Sappiamo inoltre che un importante indicatore della competitività è il saldo tra esportazioni ed importazioni. Ebbene: mentre nel decennio 1979-89 la bilancia commerciale dei Paesi in via di Sviluppo, considerati nel loro insieme, aveva un saldo attivo medio annuo di 29 miliardi di dollari, dal 1992 essa è divenuta deficitaria in misura crescente fino al 1995 per raggiungere un saldo attivo consistente solo nel 1999. Questo andamento complessivo si deve ascrivere soprattutto ai Paesi del Sudest asiatico, che rappresentano oltre la metà dell'interscambio mondiale dei Paesi in via di sviluppo. Il dinamismo economico dei Paesi del Sudest asiatico, messo in evidenza dagli alti tassi di crescita del Pil fino al 1996, si è ovviamente riflesso anche nella loro accresciuta partecipazione al commercio internazionale. Ma c'è un dettaglio che non andrebbe ignorato. Un aumento delle importazioni superiore a quello delle esportazioni è indicativo del fatto che in questi paesi è prevalso il mercato di sbocco rispetto a quello di produzione. Il che dovrebbe suggerire una valutazione più realistica a proposito dell'irresistibile competitività delle imprese del Sudest asiatico.

Non a caso, negli anni più recenti, l'interesse per le "tigri" ed i "dragoni" si è del tutto affievolito. In compenso si è incominciato a parlare molto dei "bric". In inglese i bricks sono i mattoni. Nella letteratura internazionale sarebbero invece i mattoni del nuovo ordine dell'economia mondiale. L'acronimo "bric" è stato usato per la prima volta tre anni fa in un rapporto della Goldam Sachs per indicare Brasile - Russia - India - Cina, come le emergenti "superpotenze" che nell'arco di una cinquantina d'anni cambieranno la classifica del G6. Della vecchia nomenklatura del G6 dovrebbero sopravvivere solo Stati Uniti e Giappone. Mentre spariranno Germania, Francia, Regno Unito ed Italia, per fare appunto posto ai quattro nuovi arrivati.  Non si capisce però perché questo avvicendamento dovrebbe essere considerato un dramma. Non si capisce infatti per quale ragione dovremmo allarmarci se dal 2050 quattro vecchi paesi industrializzati (con più o meno 60 milioni di abitanti ciascuno) dovessero scendere dal podio del G6 per fare spazio a paesi assai più popolosi (188 milioni il Brasile, 143 la Russia, un miliardo e 100 milioni l'India, un miliardo e 300 la Cina). Oltre tutto c'è da sperare che da qui al 2050, se un Club come quello del G6 dovesse sopravvivere, i quattro paesi europei possano essere finalmente rappresentati dall'Unione Europea. Ma soprattutto c'è da tenere presente che le previsioni economiche a cinquant'anni sono ancora più improbabili di quelle metereologiche a cinque giorni. Che, come ciascuno può facilmente verificare, hanno un grado di inattendibilità alquanto elevato.

A questo proposito può essere utile ricordare che negli anni sessanta all'Ocse erano in vigore delle tabelle di indici (formate tenendo conto anche dei diversi tassi  di crescita) utilizzate per formulare previsioni sugli andamenti futuri. Ad un certo punto le tabelle dovettero essere accomodate. Perché i sempre più alti tassi di crescita giapponesi di quel periodo (che per alcuni rami di industria avevano un ritmo superiore al 35 per cento annuo) portavano al risultato che nel giro di pochi decenni l'economia giapponese avrebbe sopravanzato quello degli Stati Uniti. Cosa che, come sappiamo, non è invece avvenuta. E' una conferma del fatto che i cosiddetti esperti sbagliano come (e forse si più) delle persone comuni. La sola differenza è che sbagliano per motivi più sofisticati.

Molte cose che non siamo assolutamente in grado di prevedere potrebbero perciò succedere nei prossimi decenni. Per intanto limitiamoci a prendere atto che il reddito della Russia non ha ancora recuperato il livello del 1989. Che in Cina la democrazia è anoressica, anche se la crescita economica potrebbe (auspicabilmente) suscitare rivendicazioni di diritti sociali e politici con possibili effetti sul sistema politico e sociale. In India e Brasile la democrazia è in una condizione un po' migliore, ma un economista indiano (Lord Desai) sostiene che "l'India, per rimanere stabile, deve continuare ad essere caotica". Probabilmente intende dire che l'India è talmente diversa, per etnie, caste, ricchi e poveri, appartenenze politiche e religiose, che per continuare a crescere non può che seguire un percorso eccentrico. In minor misura e con caratteristiche diverse lo stesso problema esiste anche in Brasile.

In ogni caso, è probabile che anche negli anni a venire il ritmo di crescita dei Bric risulti significativamente più elevato rispetto a quello dei paesi di vecchia industrializzazione e che dunque il rimescolamento delle tradizionali graduatorie sia solo una questione di tempo. Non si capisce però per quale ragione dovremmo considerare questo rimescolamento come un evento negativo. In effetti il miglioramento delle condizioni di vita degli oltre due miliardi e mezzo di abitanti dei Bric dovrebbe, semmai, essere considerato un evento assolutamente auspicabile. Un fatto che, oltre tutto, può aiutare, in aree particolarmente popolose del mondo e che purtroppo sono finora rimaste ai margini, anche lo sviluppo della democrazia e, dunque, anche un più sostanziale riconoscimento dei diritti umani e di libertà.
 
Naturalmente è possibile, anzi è pressoché certo, che culture secolari diverse possano produrre anche forme di democrazia diverse rispetto a quelle a cui siamo abituati. Insomma, è bene tenere presente che Confucio non è Montesquieu e nemmeno Jefferson. La tradizione e la cultura confuciana vede in modo completamente diverso dal nostro il rapporto tra individuo e società. Il confucianesimo si basa sul principio di autorità e di responsabilità collettiva. Esso pone l'accento sui doveri dell'individuo verso la comunità. La cosa vale anche per i governanti che, sebbene comandino in nome di un "mandato del cielo", devono dimostrare di esserne degni. Quindi solo se essi compiono gravi abusi il popolo ha il diritto di cambiare il "mandato del cielo" e rovesciare il potere costituito. Sarebbe bene non dimenticare che si tratta pur sempre di una cultura millenaria, anche se diversa dalla nostra, e che perciò sarebbe un errore tragico pretendere di imporle la nostra supremazia culturale. Tuttavia, contrariamente a quanto sostiene un certo giornalismo di quart'ordine, non è una cultura incompatibile con la tutela dei diritti umani e con la "democrazia". Naturalmente, dobbiamo quindi metterci bene in testa che la "democrazia degli altri" non sarà necessariamente identica alla nostra. Poiché essa riflette appunto una storia ed un cultura diversa, dobbiamo realisticamente aspettarci che assuma anche forme diverse.

C'è poi da aggiungere che la classifica del reddito per "nazione" è del tutto priva di senso. Perché quello che conta è semmai il reddito pro-capite. A questo proposito non si può non riconoscere che una significativa riduzione delle disuguaglianze tra le varie aree del mondo costituisca uno sviluppo auspicabile. Non fosse altro perché rafforzerebbe le ragioni della pace. In effetti, un mondo nel quale la ricchezza di pochi si contrappone alla deprivazione, alla miseria ed alla fame di molti non può che essere un mondo sempre più instabile e quindi sempre più insicuro per tutti.
 
La strumentale campagna allarmistica circa la necessità dei paesi di vecchia industrializzazione di arginare la concorrenza dei paesi emergenti, altrimenti ritenuta esiziale, non è solo frutto di disinformazione o di ingenua confusione. Essa è infatti funzionale ad un preciso disegno politico. Poiché l'assunto è che i paesi emergenti riescono a togliere quote di mercato a quelli sviluppati grazie ai bassi salari ed a una minore rigidità del lavoro, la conseguenza che ne viene tratta è che anche questi ultimi siano costretti a dolorosi quanto inevitabili aggiustamenti economici e sociali. La tesi esplicitamente proposta (che in definitiva è uno dei principali postulati della "dottrina liberista") è che per cercare resistere alla concorrenza i paesi industrializzati non possano fare altro che accrescere la flessibilità del lavoro e ridurre i salari. Compresi quelli indiretti che costituiscono la principale base finanziaria dello Stato sociale.

L'ideologia liberista ha, dunque, offerto la strumentazione culturale e politica alle misure di aggiustamento che un po' ovunque nei paesi di vecchia industrializzazione si è cercato di mettere in campo. Veniamo quindi al terzo motivo che ha contribuito ad alimentare la "leggenda della globalizzazione". In effetti la questione cruciale non è tanto la presunta novità della globalizzazione (salvo che  per un aspetto al quale accennerò più avanti) quanto l'uso che ne hanno fatto e le conseguenze che ne hanno tratto gli ideologi del liberismo. Essi sostengono infatti che un paese è ricco o povero in relazione alla sua capacità, o meno, di sottrarre spazi commerciali ad altri e di non farsi sottrarre quelli che ha. Perché lo sviluppo, l'occupazione ed il livello di benessere di ciascun paese dipendono interamente dalla competitività nella cosiddetta economia globale. Da qui l'allarme verso i paesi del Sudest asiatico prima, e verso Brasile, Russia, India e Cina dopo. I quali, grazie ai bassi costi del lavoro, toglierebbero quote crescenti di mercato ai paesi più sviluppati d'Occidente.

Per scongiurare questo pericolo il rimedio pervicacemente riproposto è, come ho già ricordato, quello di: ridurre i salari, gli oneri sociali e di accrescere la flessibilità nei rapporti di lavoro.  Il tutto con una bolla di accompagnamento che vorrebbe essere consolatoria. Il cui scopo è, in sostanza, quello di raffreddare le proteste ricordando ad operai ed impiegati che è sempre meglio lavorare per meno salario e qualche diritto in meno, che correre il rischio di perdere il lavoro.
 
Si tratta però di una prescrizione il cui fondamento scientifico è inversamente proporzionale al successo politico che ha finora riscosso. Paul Krugman, uno dei più noti economisti americani (ha insegnato a Princeton, Yale, Stanford ed al Mit) ed uno dei primi e più brillanti studiosi della globalizzazione, ha scritto a proposito della deindustrializzazione e del connesso aumento della disoccupazione: "Prima del 1970 gli autori che mostravano preoccupazione per questa tendenza la attribuivano alla automazione, ossia alla rapida crescita della produttività industriale. Dopo di allora è diventato più comune attribuire la responsabilità della deindustrializzazione alle importazioni" (P. Krugman, Un'ossessione pericolosa. Il falso mito dell'economia globale. Etaslibri, Milano 1997).

Con abbondanza di dati Krugman dimostra la falsità della tesi che stabilisce un nesso diretto  fra inasprimento della concorrenza internazionale ed incremento della disoccupazione nei paesi di vecchia industrializzazione. Soprattutto egli considera paradossale che, nella controversia sugli effetti della globalizzazione, gli Stati Uniti vengano spesso citati come la potenza che avrebbe reagito meglio, mentre Giappone e Germania vengono altrettanto spesso indicati come esempi negativi. La sua spiegazione è che i devoti del liberismo trascurano un aspetto che nei discorsi sulla competizione globale dovrebbe essere invece considerato decisivo. Nel 1999 gli Stati Uniti hanno visto crescere ulteriormente l'enorme disavanzo della loro bilancia commerciale di altri 346 miliardi di dollari, mentre contemporaneamente il Giappone incrementava il proprio avanzo di 123 miliardi di dollari e la
Venerdì, 15. Settembre 2006
 

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