A Mirafiori hanno perso tutti

Marchionne canta vittoria, ma avendo ottenuto le condizioni richieste dovrà fare i miracoli che ha promesso agli azionisti e ai sindacati. Confindustria marginale, governo assente e sindacati firmatari più deboli e meno rappresentativi. La Fiom esalta giustamente la prova di orgoglio degli operai, ma deve loro una risposta e l’errore più grave sarebbe quello di scambiare per vittoria una sconfitta

Molti della mia generazione, specie se con un percorso alle spalle in quello che una volta si diceva il movimento operaio, stanno seguendo con grande partecipazione (e angoscia) le vicende Fiat. Per quel che mi riguarda, non riesco a sottrarmi a un sentimento di sconfitta - mi riferisco alle vicende Mirafiori e Pomigliano al di là del referendum - ma non mi rassegno all’impotenza. Non credo si possa assistere senza reagire. Occorre innanzi tutto capire come si è arrivati a questo, partendo da un’analisi della dinamica dei protagonisti, Fiat, Confindustria, governo e sindacati.

 

Mi sono fatto l’opinione – anticipo subito la prima sintesi, sia pure in progress, cui mi sembra di poter pervenire – che la vicenda stia portando a esiti molto negativi da qualunque punto di vista la si voglia esaminare e dunque per ciascuno dei protagonisti. Di questo esito, di questo gioco tragico, a somma negativa, in cui perdono tutti, che riassume come in una metafora la vicenda più generale del nostro paese, credo che ciascuno degli attori porti la sua parte di responsabilità: non se ne salva nessuno. Ma c'è ancora una via di uscita?

 

Partiamo dalla azienda. La Fiat è stata risanata, sembra, sul piano finanziario mettendo a segno qualche colpo: la buonuscita dall’operazione GM ideata dall’Avvocato e gli aiuti di Stato per il salvataggio Chrysler. Il suo prodotto è però rimasto quello che era, le quote di mercato sono diminuite dappertutto (eccetto il Brasile) e resta questo il trend di lungo periodo al di là delle oscillazioni (Per brevità rinvio su questo stesso sito al contributo di Antonio Lettieri, molto puntuale nel descrivere la strategia aziendale). In Europa le innovazioni, sono rimaste limitate essenzialmente ai motori, a parte il varo della nuova piattaforma per la Giulietta, senza un impatto strutturale di lungo periodo. I modelli più venduti restano quelli di classe A e B, la fascia alta sarà riservata agli stabilimenti Chrysler (non inganni il fatto che il modello di punta, la 300, si venderà in Europa con il marchio Lancia essendo una operazione puramente commerciale) e il fatturato aggiuntivo di quel marchio dovrà servire a rimborsare gli aiuti (Usa) e a scalare quella compagine (Usa).

 

Il dato essenziale è dunque che l’azienda ha subito una trasformazione:una multinazionale non più Italy based ma Usa based. Mr. M. non è un italiano alla guida di una multinazionale italo-americana ma, Ad dai molti passaporti, l’esecutore degli indirizzi dettati da un’assemblea di azionisti che ragiona avendo la testa tra Detroit e Wall Street, avendo investito capitali in una corporation con unità produttive dislocate in varie parti del mondo tra cui, marginalmente, l’Italia.

 

E' un amministratore con questo genere di mandato che si è potuto permettere di impostare il confronto, non con il sindacato italiano, ma con il sistema paese Italia nel modo cui abbiamo assistito. Nessun dialogo, con nessuno degli altri attori, ma solo condizioni “prendere o lasciare”. Il procedimento per definire le nuove condizioni di lavoro a Mirafiori, come condizione per l’investimento, non doveva assomigliare in nulla ad una trattativa. La premessa dell’accordo Mirafiori sta a certificarlo: l’azienda “presenta”, “illustra”, redige il documento conclusivo. Passi per lo stile, ma nella sostanza sono mancati due passaggi fondamentali in qualunque negoziato con queste caratteristiche: 1) una fase di condivisione di scenario, il piano essendo rimasto alle enunciazioni generali (volumi auspicati, 250-280.000, tipologia, classe D e Suv, e investimento globale, 1 miliardo). Si richiede il consenso di sindacati e dipendenti per assicurare il contributo alla competitività che sarà a loro carico, ma non si lascia loro il minimo spazio per dar modo di valutare, ora e in corso d’opera, l’adeguatezza di quanto farà l’azienda, che avrà le responsabilità preminenti per giungere a quel risultato. 2) Una fase di confronto tra piattaforme sui punti specifici.

 

Che non sia la prassi delle relazioni industriali “occidentali” lo sanno mr. M,, gli azionisti Fiat e, a maggior ragione quelli Chrysler, in maggioranza sindacati auto, lo sanno i firmatari e lo sa il governo italiano. Ma mr. M ha scelto questa forzatura, per di più per un risultato del tutto marginale com’è la limatura di qualche frazione di punto del costo del lavoro in quattro stabilimenti, peraltro considerati periferici, non perché possano divenire luoghi di punta dell’innovazione strategica ma solo per garantire le condizioni per una manutenzione evolutiva degli assett come alternativa a un percorso di dismissioni progressive e delocalizzazione: “Non ho mai fatto investimenti di così pessima qualità per l’azienda come a Mirafiori e Pomigliano” (Intervista a Repubblica del 18 gennaio).

 

Andiamo anche oltre. Se avesse avuto una qualche idea di investimento strategico sull’Italia la Fiat avrebbe potuto richiedere ai sindacati molto di più che un po’ di minuti in meno di pausa e una stretta corporativa sulle relazioni sindacali. Ma per parlare di innovazione di prodotto avrebbe dovuto dimostrare, per essere minimamente credibile, di rimettere in discussione alcune delle scelte chiave compiute negli ultimi decenni: sui centri di ricerca, sugli ingegneri motoristici lasciati andare (da quelli Alfa fino agli ultimi “maghi del diesel” lasciati a GM), sull’eco-mobilità (risultati risibili) e mettere sul piatto ben altri impegni di formazione.

 

Ovvero avrebbe potuto aprire sull’innovazione dei processi e portato finalmente un soffio di aria nuova nell’organizzazione del lavoro e nel sistema delle gerarchie: più orizzontalità (competenze) e meno verticalità (potere di comando e affidabilità), meno distanze tra palazzi degli uffici (centri di alta tecnologia e non solo luoghi del comando) e catene di montaggio. Non sto parlando della fabbrica ideale ma di cose attuate e vissute in giro per il mondo dove si sta andando più veloci verso il futuro. Di cose che comportano rotture di privilegi consolidati e che possono costare perfino più care ai sindacati. Ma comunque mr. M. non le ha messe sul piatto, semplicemente non avendo motivo né mandato per farlo perché non interessano alla Fiat Corporation of America.

 

Che risultato può vantare ora? Come nel caso di Pomigliano dovrà andare avanti a investire e arrivare ai risultati, nell’Italia che adesso, se sarà uno zoo, sarà quello voluto da lui. Produrre secondo i volumi annunciati e, soprattutto vendere, cosa assai più difficile, come ha promesso non solo a sindacati e governo ma ai suoi azionisti. Se questa è la vittoria, ne può gioire senz'altro, ma a gatto nel sacco. Intanto, ha una fabbrica più gestibile o meno? La Fiom lo attende al varco. Se fa qualche apertura ora è un cedimento, quando, se l'avesse compiuta prima, sarebbe stata probabilmente la mossa del cavallo. Se tiene il punto, come dopo Pomigliano, rende difficile il lavoro dei sindacati firmatari e vanifica buona parte delle condizioni di gestibilità richieste.

 

Mettiamo insieme gli elementi, mandato degli azionisti, prospettive dell'investimento (che ora è obbligato a fare in Italia), clima interno alle fabbriche e rapporti con Confindustria e governo: chi se la sente di considerarla una vittoria? E chi può assolverlo dall'accusa di essersela cercata?

 

Quanto al sistema imprenditoriale italiano, è rimasto a guardare. Altri sistemi imprenditoriali hanno messo gli occhi sulla partita (vedi avances su Alfa e Ferrari), non quello italiano, in cui scarseggiano la cultura e il coraggio che servirebbero per affrontare una sfida di questa portata, fin troppo incline piuttosto – espressione genuina del nostro capitalismo familiare  – a confondere la tutela degli interessi di categoria con la ricerca di convenienze nel rapporto con la politica, che in questo caso non ne annusa le condizioni. Ha vinto Confindustria? Hanno un bel dire che ha vinto il cambiamento, che quando vince è come il sangue di san Gennaro che si liquefa e fa contento un popolo. Di certo, si vedono rimettere in discussione il sistema di relazioni industriali, quello presente e quello verso cui muovevano, con le controparti in fibrillazione e i loro stessi aderenti incerti sulle scelte strategiche di fondo, quali regole ancora valide e quali da cambiare.

 

E il governo? Assente, disinteressato, salvo che per un aspetto (che non è invece, contrariamente a quanto molti sembrano credere, di importanza cruciale per la Fiat di mr. M): la possibilità di un ulteriore passo in avanti nella strategia di divisione dei sindacati nel quadro di una più generale disarticolazione dell’opposizione per consolidare il monopolio del potere politico di cui ritengono di poter godere. Quanto ad inquadrare la trattativa in un disegno strategico di difesa degli interessi preminenti del paese, la sola idea che così facendo si sarebbe corso il rischio di non portare a casa l’ulteriore divisione sindacale ha fatto decidere per l’astensione. La sintesi è nel rancore gelido con cui il presidente del Consiglio annuncia da Berlino – a poche ore dal referendum – che, semmai fosse stato bocciato l’accordo, il governo non solo non avrebbe mosso un dito per riaprire la partita ma avrebbe avallato la scelta di smantellare Mirafiori e delocalizzare in Canada.

 

Messa così, si potrebbe dire, non poteva perdere, ma significherebbe giudicare il nostro esecutivo qualcosa di estraneo alla natura istituzionale di un organo di governo: preferisco dire che con queste premesse non poteva vincere in nessun caso.

 

E l’opposizione, ci si potrebbe chiedere, visto che non è riuscita a entrare in partita e a giocare un ruolo, avrebbe potuto pesare? Probabilmente si, ma il discorso, pur di grande interesse, aprirebbe un campo di considerazioni sullo stato del centro-sinistra che va ben oltre il tema che stiamo trattando. Rinvierebbe d’altra parte all’ultimo attore, al sindacato.

Il sindacato esce sconfitto ben più degli altri attori.

 

Quella che appare più sconcertante è la sproporzione tra quanto l'azienda ha “incassato” dai sindacati firmatari e le contropartite da questi ottenute. La colpa viene fatta ricadere sulla Fiom che, scegliendo l'ostracismo, ha fornito un alibi per le forzature (definite tali senza mezzi termini) della Fiat. Ma, si potrebbe obiettare, proprio un atteggiamento contrario “a prescindere” da parte della Fiom avrebbe reso più prezioso/esoso il consenso dei firmatari. Perché non si ha l'impressione che come tale sia stato fatto pesare, ad esempio avanzando all'azienda una piattaforma di richieste più ambiziosa (due delegati presi a caso saprebbero stendere una lista pressoché infinita)? E sì che almeno per uno dei punti più controversi, l’assenza di sedi di confronto e verifica sulla concreta attuazione del  piano, l’occasione poteva essere ghiotta se si considera che nella Newco peseranno molto (per circa un terzo) tra gli azionisti proprio i sindacati dell’auto nordamericani, affiliati a una Internazionale, l’Ituc, di cui è vice-presidente un certo Luigi Angeletti. Niente di più banale di una sede di codeterminiazione, o anche solo di esame congiunto pallidamente somigliante a quella in piedi a Detroit. Perché non è mai stata all’ordine del giorno? Forse non à un caso che il referendum abbia penalizzato e in definitiva reso più debole, non più forte, il fronte dei sindacati firmatari.

 

Sarà allora vero che ne esce vincitrice la Fiom? Se ci si toglie lo sfizio di scorrere un po' di commenti sul web (ad esempio i post all'articolo di Repubblica.it che commentava il risultato a caldo) un 90% è di quel tenore. C'è perfino chi ipotizza (dietrologo di destra) un ingegnoso sistema di ripartizione dei voti, sotto il ferreo controllo della Fiom, in modo che il SI vincesse dello stretto necessario e qualche malizioso (forse non solo di destra) che si domanda se la Fiom avrebbe esultato altrettanto in caso di vittoria del NO. La pancia fa dire a un popolo di sinistra che la vittoria è degli operai del NO e della FIOM.

 
Qui, a mio avviso, sta in agguato la trappola più pericolosa. Perché non vi è errore peggiore del confondere una sconfitta con una vittoria. Prendere atto di una sconfitta può permettere di ripartire cogliendo i punti di forza su cui far leva, se ve ne sono (e ve ne sono). Ma una vittoria deve solo essere celebrata e custodita, difesa. Cosa potranno mai custodire e difendere i lavoratori di Mirafiori che hanno votato no? Un solo bene, molto importante: l'alto senso di dignità con cui i lavoratori di Mirafiori (non solo quelli Fiom) archiviano questa prova di valore storico. Per farne che?

 

Per riaprire la trattativa, sembra essere la prima richiesta. Non è però accompagnata da alcuna proposta specifica: tornare indietro è la sola rivendicazione, riavvolgere il film, ricominciare daccapo. Poiché così formulata non è fatta  per essere accolta, è più che altro una clausola di stile. Resta allora grande, secondo me enorme, a fronte della sconfitta, un vuoto, che è anche una domanda. Che cosa chiede la Fiom alla Fiat, se chiede qualcosa, e che cosa offre in cambio, se qualcosa ritiene di dover offrire? Non io dovrei saperlo ma quelle migliaia di lavoratori che si sono esposti e hanno espresso una domanda di rappresentanza che non si risolve con la frustrazione di aver perso, sia pure con dignità.

 

Proviamo a capirlo, prima di concludere. A) Investire il miliardo (e i 20 mld complessivi). Fiat lo farà.

B) Indicare come e dove. Lo ha fatto. La Fiom ha da dire qualcosa sul piano? Ha modifiche da proporre, idee alternative? Suggerisce altri prodotti o diversi processi? Tanto per dire, le considerazioni qui svolte sulla strategia aziendale sono solo una parte - ben modesto tentativo - di quello che si può leggere sulla stampa in questi giorni al riguardo. Chiede procedure di esame congiunto in itinere? Cosa rivendica, cosa offre il più grande sindacato della categoria?

C) Farlo senza toccare i diritti. Quanto a questo punto, per la Fiom le proposte Fiat ledono diritti “indisponibili”. Se il dissenso resta su questo livello di principio non c'è trattativa. Un diritto indisponibile non lo modifica né l'azienda, unilateralmente, né una trattativa, per quanto sia ampio e rappresentativo l'arco dei firmatari. Prevale l'individuo, a cui giunge direttamente uno scudo dalla legge che lo tutela. In questo caso la Fiat ha sbagliato tutto, la trattativa (che non c’è stata) non si doveva proprio aprire. Un giudice (a Berlino) risolverà il problema. Se invece non lo risolve?

 

Questa domanda apre un capitolo che non si esaurisce in poche righe e riguarda un tema che voglio però enunciare. Riassume il senso di una questione attorno a cui ruota la visione strategica e l'idea di sindacato che prevale attualmente in Fiom.

 

Nel momento in cui si richiede che gli interessi dei lavoratori siano tutelati in quanto diritti, dalla legge, quale compito resta al sindacato? E se si ritiene che la contrattazione non tuteli a sufficienza gli interessi del lavoro, si devono portare altri interessi dentro la sfera dei diritti? E dove finisce questo processo se non nel trasferimento in toto della tutela degli interessi nel campo dei diritti e dunque del ruolo del sindacato in quello del legislatore?

Alla Fiom dà molta noia l'accusa di voler essere, più che una quarta confederazione, un surrogato di partito del lavoro (o un suo primo embrione) ma non a caso è così che vengono giudicate le sue mosse, prima ancora che dai suoi detrattori, in primo luogo dai suoi numerosi (forse eccessivi, nel fervore più che nel numero) sostenitori.

 

Rilevo allora che la Fiom è il sindacato che si era caratterizzato storicamente (tra gli anni settanta e gli anni novanta) per essere il sindacato riformista per antonomasia: unitario, progettuale, capace sempre di calare gli interessi dei lavoratori entro una cornice di interesse generale per far andare avanti, attraverso la difesa degli interessi, unitaria e democratica, la condizione generale dei lavoratori del paese e quindi, indirettamente, far avanzare il quadro politico verso stadi di maggiore democrazia sociale. Un programma ambizioso, di un'ambizione che il gruppo dirigente Fiom ha sempre portato come una bandiera.

 

Oggi il programma appare l'inverso: produrre, con i mezzi consentiti di agitazione politica, spostamenti progressivi del quadro normativo per tutelare interessi che il sindacato non è più in grado di tutelare con lo strumento che gli è proprio e gli è assegnato: il negoziato, la stipula di accordi collettivi.

 

Si è dunque rovesciato nel suo contrario il sogno dei Trentin, Airoldi, Vigevani?
Mercoledì, 26. Gennaio 2011
 

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