Meno tasse sui salari significa tagli di spesa

I 15 miliardi di minori imposte chieste dai sindacati aggiunti ai 30 (a regime) necessari agli aggiustamenti strutturali costituiscono una massa di risorse che nessun "tesoretto" può coprire e hanno perciò una implicazione inevitabile di politica economica

La questione salariale è all’ordine del giorno, tutti riconoscono che le retribuzioni italiane sono basse, troppo basse, e che quindi bisogna porvi rimedio. La denuncia del problema è generalizzata, troppo generalizzata per non destare qualche sospetto, e infatti alcune proposte sembrano sottendere altri obbiettivi, o almeno anche altri obbiettivi, rispetto alla crescita delle retribuzioni.

 
Diminuzione della pressione fiscale sul lavoro dipendente e revisione dell’attuale modello di contrattazione sono gli strumenti indicati per affrontare la questione salariale. Sull’indicazione di questi due temi l’accordo è vasto, dal governatore della Banca d’Italia ai sindacati, dall'economista Tito Boeri al presidente di Confindustria, fino ai principali esperti economici del Corriere della Sera.

 

I sindacati hanno chiesto l’apertura di un confronto con il governo e le controparti datoriali per incrementare il potere di acquisto delle retribuzioni attraverso il fisco, il controllo delle tariffe e la riforma del modello di contrattazione. In particolare sul fronte fiscale, per CGIL CISL UIL “la priorità è diminuire le tasse ai lavoratori dipendenti e pensionati. Ciò deve essere fatto in maniera chiara e significativa, in modo che tutti possano percepirne i benefici”. A questo fine il sindacato chiede un intervento pari a 1 punto di Pil, ossia circa 15 miliardi di euro.

 
E’ difficile trovare chi non si dichiari d’accordo con questa rivendicazione: da Draghi a Montezemolo a Giavazzi (quest’ultimo sfotte anche i sindacati e, la sinistra in genere, per la troppa prudenza manifestata sulla modifica della tassazione delle rendite finanziarie), tutti concordano con la necessità di diminuire il carico fiscale sul lavoro. Il generale consenso alla proposta di riduzione della pressione fiscale sul lavoro dipendente sottende tuttavia, almeno in una parte dei sostenitori, un secondo e, forse, più importante obbiettivo, la riduzione della spesa pubblica.
 
Proviamo infatti ad immaginare cosa significa ridurre di 15 miliardi le entrate fiscali. Il ministro del Tesoro ha confermato in una recente intervista che sarà necessario trovare nel prossimo triennio 10 miliardi di euro ogni anno per annullare il disavanzo e per alcune spese aggiuntive che lo Stato non può evitare (spese per infrastrutture, o i contratti di servizio con Poste e Ferrovie, o il rinnovo del contratto per il pubblico impiego). Si tratta, quindi, di un aggiustamento strutturale che passa dai 10 miliardi del primo anno, ai 20 del secondo per stabilizzarsi a regime sui 30 miliardi. Aggiungiamo a queste cifre i 15 miliardi di riduzione delle entrate fiscali e arriviamo a 45 miliardi. Difficile, peraltro, immaginare che nelle prossime tre finanziarie non si affrontino anche altri problemi come, ad esempio, il precariato, la famiglia, la povertà e tutto quello che tradizionalmente si chiede in ogni finanziaria.

Dovremmo quindi aspettarci manovre complessive nel triennio non inferiori ad almeno 50 miliardi di euro, limitando di molto il campo degli interventi.

 
Come si troveranno queste risorse?

 

Immaginare che tutto sarà reso possibile dalla lotta all’evasione o da nuovi tesoretti appare illusorio. Le prospettive economiche non sono positive, la crescita del Pil potrebbe anche essere inferiore a quella programmata (l’Ocse ha abbassato all’1,3% la crescita del Pil nel 2008 rispetto all’1,5% previsto dalla Relazione previsionale e programmatica), con necessità di ulteriori risorse per annullare il disavanzo. Una crescita più contenuta ridurrebbe inoltre l’ammontare degli attesi tesoretti e renderebbe più difficile la lotta all’evasione. Il tutto a parità del quadro politico, dato che una sua modifica potrebbe anche peggiorare le prospettive.

 
Se tutto questo è vero non è difficile immaginare quale sarà l’obiettivo delle prossime manovre: trovare le risorse attraverso il taglio della spesa pubblica o rinunciare al rientro dal deficit.

Insomma, sinistra e sindacato si troveranno di fronte alla necessità, se effettivamente vorranno una riduzione della pressione fiscale sul lavoro dipendente della misura indicata, di affrontare il nodo della spesa pubblica.

 
Questo spiega in buona misura il consenso che la richiesta di diminuzione della pressione fiscale sul lavoro dipendente incontra presso economisti come Boeri e Giavazzi, presso Montezemolo e presso Draghi. Diminuzione della pressione fiscale sul lavoro come via per ottenere il taglio della spesa pubblica. La richiesta sindacale porterebbe quindi acqua al mulino di coloro che sostengono la necessità di una riduzione della pressione fiscale come strumento per ottenere una riduzione della spesa pubblica.
 

Non è dato di sapere se le confederazioni hanno chiare le implicazioni macroeconomiche della loro richiesta nell’attuale quadro economico, ma il problema che si troveranno ad affrontare è quello dei tagli alla spesa pubblica. Nel suo intervento presso la Scuola di Polizia Tributaria il ministro del Tesoro ha indicato nella pubblica Amministrazione il settore in cui ottenere i risparmi necessari, anche attraverso una nuova politica di impiego del personale pubblico. La pressione sui pubblici dipendenti sarà quindi fortissima e se questo non bastasse, sanità e pensioni sono gli altri settori su cui i sostenitori del taglio della spesa pubblica chiederanno di intervenire.

 
E’ sbagliata, quindi, la rivendicazione delle Confederazioni ? Certamente no. La pressione fiscale sul lavoro dipendente è cresciuta, specie considerando le imposte locali. Mentre il cuneo fiscale è stato ridotto per le imprese, poco o nulla è stato restituito alla gran massa del lavoro dipendente.

Quest’ultimo, inoltre, è quello che ha pagato più di tutti il cambio lira-euro. A differenza di commercianti, professionisti e delle imprese non soggette alla concorrenza internazionale che hanno potuto aumentare i prezzi dei loro prodotti e servizi realizzando spesso nei loro prezzi un cambio lira-euro pari a 1.000, i lavoratori dipendenti hanno subito il cambio ufficiale a 1.936, con una perdita netta di potere d’acquisto. Se con l’entrata nell’euro hanno guadagnato in termini di minori tassi di interesse e in maggiore stabilità per il paese, hanno perso in termini di valore reale delle retribuzioni. Non si tratta di mettere in discussione l’entrata nell’euro, ma di prendere atto di un effetto fortemente negativo sui redditi fissi che il passaggio all’euro ha determinato. Una diminuzione della pressione fiscale è quindi necessaria, anche se non sufficiente, per aumentare il potere di acquisto dei dipendenti.

 
Il sindacato confederale non è mai stato un sostenitore di una diminuzione della spesa pubblica, vedendo in questa lo strumento necessario per garantire attraverso il finanziamento del welfare una migliore distribuzione del reddito nazionale e un sostegno ai lavoratori, e ai cittadini, in difficoltà. Le tasse, pertanto, sono sempre state viste come il necessario strumento per finanziare una spesa pubblica che si vuole alta. Il problema è sempre stato quello della lotta all’evasione e dell’equità del carico fiscale.

 

Oggi siamo ad un punto di svolta. L’emergenza salariale spinge il sindacato, ferma restando la lotta all’evasione, a chiedere una forte diminuzione della pressione fiscale, ma questo aumenterà, assieme ad altri fattori, la spinta per un taglio non marginale alla spesa pubblica.

Per il sindacato è allora urgente affrontare con consapevolezza il tema della spesa pubblica e della sua riduzione per non trovarsi poi con le spalle al muro.

Domenica, 16. Dicembre 2007
 

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