Marx, dopo due secoli non è ancora inutile

Che il valore derivi solo dall’attività del lavoratore è un concetto superato, e la teoria ha elaborato molti approfondimenti in proposito. Ma l’asimmetria di potere negoziale, a cui nella società della conoscenza si aggiunge l’asimmetria di informazione, sono ancora una realtà e rendono molto attuale il suo appello ad unirsi per contrastare lo sfruttamento

Cosa si può dire, alla luce degli sviluppi della teoria economica standard, sull’attualità di Marx economista? Crediamo sia utile anzitutto partire dalla teoria del valore-lavoro, l’assioma che regge l’analisi economica marxiana, che egli ricava soprattutto da un’interpretazione un po’ sbrigativa del pensiero di Adam Smith.

Per Smith, in una società primitiva, dove il lavoro è scarsamente organizzato, il rapporto tra i prezzi naturali delle merci (ad esempio tra il prezzo naturale di un castoro e quello di un cervo), dipende dal tempo di lavoro necessario alla “produzione” di ciascuna merce (ad esempio, due ore di caccia per un castoro, un’ora per un cervo). Si tratta in realtà di rapporti di scambio ma non di prezzi di mercato, i quali richiedono, oltre alla valutazione del tempo di lavoro, la presenza di un utile medio, definito da un mercato.

Smith indica però anche che in una società più evoluta, dove il lavoro è organizzato da un imprenditore, ai fini del calcolo dei costi di produzione non è possibile considerare soltanto il tempo di produzione del lavoro ad essa adibito, perché il lavoro in forma organizzata richiede che il capitalista anticipi il costo dei mezzi di produzione e i salari dei lavoratori e paghi le eventuali rendite ai proprietari terrieri. Abbiamo qui, dunque, una visione più complessa, in cui il prodotto non è frutto soltanto del “dispendio di cervello, muscoli, nervi, mani ecc.” (Marx) del lavoro che avviene nel corso dell’attività lavorativa, ma anche del ruolo eminentemente (ma non esclusivamente) finanziario esercitato dall’imprenditore; il quale deve non solo procurarsi i mezzi per pagare lavoro e fornitori, ma deve scegliere entrambi secondo un determinato progetto di ciclo produttivo, contrattarne il prezzo, coordinarne l’opera nel corso del processo produttivo, pagare le rendite e infine portare il prodotto al mercato e venderlo. Il valore del prodotto non è dunque frutto di un solo tipo di attività (il lavoro), ma di due tipi assai diversi (il lavoro del lavoratore e quello dell’imprenditore).  

Questa visione più complessa fa emergere che il tenet fondamentale di Marx, ovvero l’idea che il lavoro e solo il lavoro sia creatore di valore, possa sopravvivere solo se all’interno della generica categoria “lavoro” si include anche il lavoro dell’imprenditore. E, una volta riconosciuta questa qualificazione, anche senza introdurre nella generazione del valore il mercato e le preferenze dei consumatori, ecco che viene meno l’idea che tutta la ricchezza sia prodotta solo e soltanto dai lavoratori, e che quindi il profitto sia di per sé un’appropriazione a loro danno.

Ma se questo è vero, allora Marx crolla sui suoi stessi fondamenti? Sì e no. Andiamo con ordine.

Per comprendere meglio cosa è attuale e cosa non lo è più di Marx analista critico dell’economia (avrebbe respinto con sdegno che lo si chiamasse economista) bisogna andare più in profondità nella comprensione delle differenze profonde insite nel concetto stesso di lavoro: il lavoro è diverso, non è solo disomogeneo. Il lavoro come processo sociale è diverso.

1. Il mercato del lavoro è un mercato duale. Molti osteggiano da posizioni opposte l’idea stessa, ormai pienamente accolta dalla grande maggioranza degli economisti, che il lavoro sia in buona sostanza una merce e che quindi come tale si scambi in un mercato, forse particolare (un’istituzione sociale, come insegna Robert Solow, 1990), ma pur sempre un mercato. Tuttavia è necessario rendersi conto che il lavoro è una merce del tutto particolare. È una merce che assume caratteristiche molto diverse a seconda della prospettiva che caratterizza i due lati del mercato: quello del compratore e quello del venditore. Compratore e venditore di “servizi di lavoro” (ammesso che di questo si tratti) hanno del mercato in cui operano due visioni, due prospettive molto diverse.

Per il compratore, che ormai ha esteso il suo punto di vista alla totalità degli economisti mainstream (nonostante la lingua italiana lo chiami ancora “datore di lavoro”), la merce che vuole acquistare sono servizi di lavoro con determinate caratteristiche professionali, in termini di qualità, intensità, varietà e durata, e ovviamente di costo. Le caratteristiche personali contano poco, a meno che non influiscano sulle citate caratteristiche professionali. Il mercato, in altri termini, è per lui il mercato della forza lavoro.

Per il venditore, invece, la merce che offre (i propri servizi di lavoro) è portata al mercato nella speranza di guadagnare con essa l’accesso a un determinato contesto lavorativo, definito primariamente dalla retribuzione, diretta e indiretta, immediata e differita, dai benefici sanitari e previdenziali ma anche, con essi, di ottenere una determinata potenza produttiva, che porta con sé un determinato status sociale, una determinata identità e dignità. Il mercato, in altri termini, è per lui il mercato dei posti di lavoro.

 

Il mercato del lavoro si caratterizza quindi per un’immediata (e irriducibile) dualità di visione: se nel caso dell’imprenditore ciò che si cerca sono servizi di lavoro, che vengono remunerati con i benefici retributivi e sociali connessi con il rapporto di lavoro, nel caso del lavoratore ciò che si cerca è una posizione, una determinata condizione economica e sociale legata ad un determinato posto di lavoro e alla corrispettiva remunerazione. Condizione che il lavoratore “acquista” dal datore di lavoro. Ma in cambio di cosa? 

2. Va detto che gli sviluppi dell’economia del lavoro non hanno ad oggi ancora ben chiarito la compresenza di questa duplicità di prospettiva che complica di molto l’analisi, preferendo adottare tacitamente la prospettiva dell’imprenditore, che nel mercato del lavoro altro non vede che lo scambio di servizi di lavoro.

Ma è certo che la comprensione della complessità e del dualismo che caratterizzano questo strano mercato rendono merito all’altra intuizione fondamentale di Marx sul lavoro, e cioè che il capitale (e quindi specularmente il lavoro nel capitalismo) sono in essenza rapporti sociali, e dunque il capitalismo è un costrutto storico economico che genera e scambia rapporti sociali, non solo merci.

Esistono tuttavia contributi teorici importanti che si muovono nella direzione qui indicata e il primo è quello che vede, all’interno del mercato del lavoro, la compresenza di due mercati: il mercato del lavoro esterno e il mercato interno (Doeringer e Piore, 1971; Tarantelli, 1978). Il mercato esterno è il vero e proprio mercato del lavoro, sul quale offrono i propri servizi di lavoro, in concorrenza tra loro, persone non ancora occupate o in cerca di un posto migliore di quello in cui si trovano. Il mercato interno, invece, è quello che definisce, per le persone già occupate, procedure all'interno dell'organizzazione, spesso negoziate con i sindacati, per spostare gli occupati da un posto a un altro, per stabilire dei percorsi di carriera e per fissare la remunerazione del lavoro e i benefici connessi.

Le imprese, nelle proprie strategie di gestione del personale, fanno alternativamente ricorso all'uno o all'altro mercato: acquistando sul mercato i servizi di cui hanno bisogno, eventualmente offrendo un salario più alto rispetto a quello dei concorrenti; oppure, nel mercato interno, coltivando la professionalità dei propri dipendenti, investendo nella loro formazione, regolando benefici economici e non, e garantendosi in questo modo la disponibilità dei servizi di lavoro di cui prevedono di avere bisogno.

Possiamo anzi dire che esiste una sorta di gerarchia delle imprese, a seconda di quanto esse si collochino a contatto con il mercato esterno oppure sviluppino il proprio mercato interno. Nel primo caso abbiamo imprese occasionali, poco strutturate, e comunque che occupano lavoratori prevalentemente temporanei, con un alto turnover occupazionale. Nel secondo troviamo invece imprese molto strutturate, grandi imprese, attività professionali e, soprattutto, il pubblico impiego e al livello più alto della gerarchia i dipendenti pubblici non contrattualizzati (professori, prefetti, giudici, militari, diplomatici ecc.).

Nella prospettiva del mercato dei posti e non dei servizi di lavoro, il mercato interno si differenzia significativamente da quello esterno in quanto, una volta superate le barriere all’entrata (tramite procedure selettive o concorso pubblico) che limitano in misura consistente la possibile concorrenza tra i due mercati, di regola prevede diverse durate del rapporto di lavoro a seconda della professionalità, del ruolo, dell’anzianità ecc. del lavoratore, fino a garantire l’impiego a vita. Ma il mercato interno conferisce al lavoratore anche una capacità decisamente maggiore di influire, direttamente o indirettamente, sull’organizzazione del proprio lavoro, una più ampia informazione sugli obiettivi aziendali, le strategie e gli strumenti per conseguirli, e soprattutto la possibilità di definire orbite o intorni salariali (wage contours) che definiscono la remunerazione del proprio lavoro non tanto in funzione del tempo impiegato, quanto in termini di “giuste relatività” (fair relativities) nei confronti dei guadagni di gruppi socioprofessionali paralleli, superiori o inferiori.

3. Il lavoro nelle organizzazioni vicine al mercato esterno o a quello interno può essere studiato anche con riferimento all’ipotesi della compresenza, nel mercato del lavoro, di due diversi meccanismi di concorrenza: il tradizionale modello di wage competition e quello di job competition (Thurow, 1975; Antonelli e De Liso, 2012). Nel primo le imprese hanno di fronte a sé un’offerta di lavoro essenzialmente omogenea sotto il profilo qualitativo, rispetto alla quale il compito della domanda è di selezionare gli individui disposti a lavorare per il salario minore. Nel secondo, invece, le imprese si confrontano con un’offerta di lavoro qualitativamente disomogenea, che impone costi di addestramento diversi per ricoprire utilmente i posti di lavoro disponibili. In questo caso la selezione non avviene sul livello salariale, quanto sui costi di formazione; e la ricerca di lavoro premia chi, a giudizio dell’impresa, ha bisogno di minori investimenti formativi per occupare i posti di lavoro vacanti.

In organizzazioni molto strutturate, organizzate in modo complesso e dotate di potere monopolistico, la produttività è infatti connessa più al posto di lavoro che all’individuo; e il reddito da lavoro dipende, così, più dal posto di lavoro cui l’individuo riesce ad accedere che dalle sue caratteristiche personali.

Non disponendo di informazioni dirette sui costi di formazione dei singoli lavoratori, le imprese ordinano i lavoratori in base alle loro caratteristiche di retroterra, utilizzate come indicatori indiretti dei costi necessari per ottenere una prestazione di lavoro standard. L’occupazione viene offerta per primi ai lavoratori con le caratteristiche di retroterra che comportano i costi di formazione più bassi. Il titolo di studio e il rendimento scolastico possono risultare buoni predittori delle differenze nei costi di formazione; l’istruzione indica, infatti, le capacità di assorbimento di conoscenze dei candidati ed è rilevante per il datore di lavoro anche perché segnala, indirettamente, la disponibilità alla disciplina industriale.

In presenza di un eccesso di offerta di lavoro, nel modello standard, per avere accesso ai posti di lavoro desiderati i lavoratori devono ricorrere ad aggiustamenti di salario; in quello di job competition, al fine di risultare più appetibili per le imprese, cercano di dotarsi di caratteristiche di retroterra personale che riducano i costi che le imprese dovranno sostenere per formarli.

L’osservazione fondante del modello di job competition è che nelle economie contemporanee molte delle competenze cognitive (sia generali che specifiche) non vengono acquisite da parte dei lavoratori prima della loro entrata nel lavoro. Al contrario, essi se le procurano con programmi formali e informali di apprendimento sul lavoro solo dopo aver trovato un’occupazione. La ragione di ciò sta nel fatto che in questi nuovi contesti produttivi, caratteristici dell’economia della conoscenza, formazione e produzione sono attività complementari, prodotto congiunto dei processi produttivi reali, e che solo questi ultimi consentono di perfezionare le competenze professionali effettivamente necessarie sul posto di lavoro (firm-specific). In altri termini – in modo in fondo non dissimile ma assai più evidente di quanto già notato da Mincer (1974) a proposito del valore dell’esperienza – la professionalità del lavoratore risulta un prodotto congiunto dei processi produttivi in cui è inserito.

È facile vedere come il modello di wage competition si attagli al paradigma fordista e al lavoratore costretto a mansioni elementari, parcellizzate e routinarie della produzione di massa, mentre quello di job competition individui strutture salariali relativamente rigide, ambiti produttivi più intensivi di conoscenza, più professionalizzati e meno ripetitivi, e modalità di lavoro in team complessi e dotati di responsabilità sui processi produttivi. Dunque, la job competition costituisce una strategia adeguata al funzionamento dei mercati del lavoro interni, mentre sui mercati esterni prevale il ricorso a meccanismi di concorrenza sul salario e sulla flessibilità dei rapporti di lavoro.

4. Quanto abbiamo sinteticamente trattato ai fini della comprensione del funzionamento del mercato del lavoro e del suo fondamentale dualismo ci conferma nell’ipotesi avanzata all’inizio: nel mercato del lavoro coesistono due diverse visioni del lavoro stesso, che caratterizzano il punto di vista di chi vende e di chi compra il lavoro, secondo la visione dell’imprenditore, oppure di chi cerca e di chi offre i posti di lavoro, secondo la visione del lavoratore. Il mercato esterno, dove prevale il modello di concorrenza della wage competition, è in prima approssimazione avvicinabile alla visione del luogo dove si scambiano servizi di lavoro, mentre il mercato interno, dove prevale il modello di job competition, si può invece avvicinare alla visione del luogo dove ciò che si scambia sono i posti di lavoro.

Possiamo dunque riprendere ora la domanda che ci eravamo posti e avevamo lasciata senza risposta: se ciò che cerca l’imprenditore sono servizi di lavoro, che vengono remunerati con benefici retributivi e sociali, ciò che il lavoratore cerca è un posto di lavoro tale da assicurargli una determinata condizione economica e sociale. Condizione che viene assicurata al suo lavoro dai servizi di capitale che l’imprenditore mette a disposizione del suo lavoro (non solo gli strumenti e la squadra di lavoro ma anche, tornando a Smith, la capacità finanziaria necessaria a pagare lavoro e fornitori, di scegliere un progetto di prodotto e di ciclo produttivo adeguati, di gestire in modo opportuno il processo produttivo, di portare il prodotto al mercato e di venderlo). Dunque, se l’imprenditore è alla ricerca di servizi di lavoro che remunera con il salario, il lavoratore è alla ricerca di servizi di capitale che valorizzino il suo lavoro e li remunera con il profitto che il suo lavoro consente all’imprenditore di accumulare.

Siamo cioè, in termini molto astratti ma non per questo errati, di fronte ad una relazione economica di “mutua agenzia”: il lavoratore è agente dell’imprenditore quanto all’erogazione di servizi di lavoro, ma a sua volta l’imprenditore è agente del lavoratore quanto alla valorizzazione del suo lavoro attraverso la predisposizione dei necessari servizi di capitale.

Siamo pertanto di fronte ad una condizione di sostanziale reciprocità che, per quanto oscurata da immensi problemi di carattere culturale e sociale, dovrebbe favorire la fiducia e la cooperazione per il miglioramento delle condizioni di entrambi i contraenti il rapporto di lavoro. Ciò non avviene, o avviene con grande difficoltà. Perché?

5. Se torniamo a Smith troviamo che egli ci indica con chiarezza che il salario è determinato dalla contrattazione tra lavoratori e imprese in un contesto di strutturale asimmetria dei poteri contrattuali. Ciò per il semplice fatto che, in caso di conflitto, i datori di lavoro possono attendere di giungere a un accordo per un periodo di tempo assai più lungo (mesi, anni) di quanto possano i lavoratori (giorni, settimane). I primi dispongono infatti di un capitale di sostentamento del quale i secondi sono privi. È questa strutturale asimmetria di poteri ciò che rende il mercato del lavoro un mercato essenzialmente “del compratore” di servizi di lavoro, ovvero “del venditore” di posti di lavoro; e che richiede pertanto la nascita del diritto del lavoro e del sindacato come argine all’iniquità degli scambi che in esso hanno luogo. Non foss’altro che per determinare la condizione di parità nel mercato che massimizza l’utilità dello scambio.  

L’asimmetria di potere contrattuale era drammaticamente vera ai tempi di Smith, quando le associazioni sindacali erano vietate e spesso punite con la morte, ma è sostanzialmente vera ancora oggi, nonostante lo sviluppo delle associazioni sindacali e dei sistemi di protezione sociale ne abbiano attenuato l’asprezza. Ed è proprio l’asimmetria di potere contrattuale ciò che impedisce al rapporto di lavoro salariato di farsi palese come un caso evidente di mutua agenzia e ostacola, di conseguenza, la considerazione del profitto come remunerazione dell’impresa da parte del lavoro in cambio dei servizi di capitale utilizzati per valorizzarne la prestazione lavorativa e rafforzarne la posizione sociale.

6. Se, dunque, siamo partiti dalla constatazione della fallacia della proposizione marxiana fondamentale che attribuisce la produzione del valore esclusivamente al lavoro, possiamo concludere notando che, sotto il profilo morale dell’equità dello scambio che avviene nel mercato del lavoro, la sollecitazione marxiana all’unità del lavoro resta tuttora valida (e, per certi versi, anche più valida), a fronte della constatazione che l’asimmetria di potere contrattuale tra lavoratori e imprese nella fissazione delle retribuzioni e delle condizioni di lavoro ancora sussiste, e anzi si è fortemente rafforzata nei paesi sviluppati con la diffusione dei lavori flessibili e precari, la riduzione della protezione sociale del lavoro, l’indebolimento dei sindacati e il venir meno del ruolo dello Stato come garante dell’obiettivo della piena e dignitosa occupazione.

L’analisi che abbiamo condotto non ci consente di individuare lo sfruttamento come caratteristica costitutiva del lavoro nell’economia capitalistica, almeno nei termini dell’appropriazione ipso facto da parte dell’imprenditore di un valore che è prodotto esclusivamente da parte del lavoro salariato. E tuttavia ne individua la permanente possibilità nelle radici sociali, tuttora ben presenti, che consentono una strutturale asimmetria dei poteri negoziali nella contrattazione e nel conflitto industriale.  

Va inoltre notato che oggi, nel contesto dello sviluppo impetuoso dell’economia della conoscenza e della sua appendice finanziaria, all’asimmetria di potere negoziale si è venuta ad aggiungere un’altrettanto profonda asimmetria, di carattere informativo, che regola alcune forme di lavoro e di produzione di valore trasformandole in sfruttamento. Si tratta del lavoro in piattaforma, della gig economy organizzata in reti, della raccolta a titolo gratuito, attraverso il web, di informazioni personali dotate di valore economico e altro ancora – attività che sono consentite dal muro di conoscenza cristallizzato nelle piattaforme, negli algoritmi e nel web, che separa in modo insuperabile chi governa i sistemi e chi ne è governato.

In questa sede, su questi nuovi aspetti dello sfruttamento è sufficiente questo brevissimo accenno, che va peraltro temperato con la constatazione  che, all’opposto, lo sviluppo di nuovi modelli organizzativi basati sulla conoscenza offre, nelle configurazioni produttive avanzate, anche interessanti prospettive di riduzione (se non di eliminazione) dell’alienazione produttiva attraverso lo sviluppo di forme di apprendimento collettivo, rotazione delle mansioni, lavoro in gruppo, suggerimenti dal basso e partecipazione cognitiva dei lavoratori al processo produttivo e organizzativo: prospettive tali da fare assimilare la conoscenza dei singoli e dell’organizzazione ad un unico bene comune (Hess e Ostrom, 2009; ma si veda l’esperienza anticipatrice della Olivetti di Adriano Olivetti), un patrimonio che tutti sono tenuti ad alimentare e a cui tutti hanno diritto di attingere.

Chiudiamo quindi questo intervento con una nota ottimistica sulla possibilità che la costruzione di comunità di conoscenza (knowledge communities) sempre più ampie e diffuse nelle imprese, nelle pubbliche amministrazioni e nello stesso corpo sociale riescano a limitare, almeno nelle situazioni più avanzate, l’asimmetria informativa e quella di potere negoziale, riducendo con ciò stesso le malattie sociali dello sfruttamento e dell’alienazione, così centrali nel pensiero di Marx e tuttora diffuse nella misura denunciata dal vertiginoso aumento della disuguaglianza economica. Temiamo però che difficilmente l’attenuazione dell’alienazione, se mai si raggiungerà, potrà bastare a liberare l’uomo dalla catena di malinconia che ne avvince l’esistenza e lo spinge a cercare continuamente nell’ignoto il superamento del suo limite.

Giovedì, 1. Novembre 2018
 

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