Ma la pensione 'di base' salva i precari

Sono un numero molto elevato le figure di lavoratori che non raggiungeranno un importo sufficiente a condurre una vita dignitosa. Le caratteristiche, i possibili costi e i vantaggi della proposta
Ho appena letto l'intervento di Roberto Pizzuti (vedi qui) e la prima reazione è che finalmente si inizia a ragionare sul fatto che il sistema pensionistico contributivo non è in grado di assicurare ad una larga parte del mondo del lavoro pensioni adeguate anche in relazione alle modifiche intervenute nel mercato del lavoro. Un'apertura di discussione su questo punto e sulle possibili, diverse, soluzioni non può che essere utile.
 
Alcuni chiarimenti su una proposta di pensione di base formulata dal sottoscritto e da Gabriele Olini, non necessariamente coincidente in toto ad una analoga formulata da altri all'interno dell'Unione.

La proposta non parte dalla necessità primaria di ridurre il costo del lavoro, ma nasce da una riflessione sulla inadeguatezza del sistema contributivo maturata nell'ambito dei lavori contenuti nei tre Rapporti Inpdap sullo Stato sociale e dalla convinzione che le forti differenze contributive esistenti tra diverse tipologie di lavoro aumentino le convenienze verso il lavoro precario.
 
Da queste considerazioni deriva la convinzione dell'esigenza di armonizzare, se non riunificare, le diverse aliquote contributive e quella di riformare il sistema pensionistico. Non potendo pensare di uniformare le aliquote contributive a livello dei lavoratori dipendenti la soluzione armonizzatrice non può che essere quella di diminuire queste e di aumentare quelle degli autonomi e dei parasubordinati.
 
Perché non solo di queste ultimi, di quegli 800.000 a cui si riferisce Roberto Pizzuti? Perché in realtà i precari non sono solo quelli. La "furbizia" italica in questo campo ha espresso tutta la sua inventiva creando anche gli associati in partecipazione, le false partite Iva (persino nell'edilizia esistono miriadì di lavoratori costretti ad aprire la partita Iva e a lavorare nominalmente come autonomi) e molti lavoratori, specie nelle regioni meridionali, sono "autonomi per necessità". Il numero è ben superiore ad 800.000 ed affrontare anche il loro problema pensionistico secondo la proposta di Roberto Pizzuti sarebbe complesso dal punto di vista giuridico-amministrativo (nominalmente non sono parasubordinati) e, qualora fattibile, più costoso da quello finanziario. Tra gli stessi lavoratori dipendenti ve ne sono molti a tempo determinato con continui, ma non necessariamente contigui,  rinnovi contrattuali e con carriera contributiva irregolare.

La destinazione a previdenza pubblica di una parte del Tfr risponderebbe certamente alla diminuzione dei tassi di sostituzione dei lavoratori dipendenti regolari, ma non affronterebbe minimamente il problema di tutti gli altri. Rimarrebbe comunque irrisolta, sempre che lo si consideri un problema, la forte divaricazione contributiva esistente nel mercato del lavoro.
 
E' certo che una riduzione dei contributi pensionistici pone un problema che non può essere credibilmente risolto con una differenziazione tra aliquota di calcolo e aliquota di finanziamento. Non solo le osservazioni di Sandro Gronchi sulla distruzione del sistema contributivo, ma anche le considerazioni avanzate dai sindacati a fronte dell'iniziale proposta di Maroni sono perfettamente valide. Se si diminuisse la contribuzione pensionistica il problema di come sopperire alla conseguente diminuzione di copertura pensionistica andrebbe obbligatoriamente affrontato. La proposta di una pensione di base è una risposta al problema.
 
Proprio per evitare questi effetti sul sistema pensionistico, nell'ambito delle discussioni nate sulla proposta Prodi di riduzione del cuneo contributivo alcuni hanno proposto di intervenire sui cosiddetti oneri impropri (disoccupazione, mobilità, malattia, maternità, Cuaf). L'idea presenta aspetti positivi: non tocca il sistema pensionistico (non risolve quindi la sua inadeguatezza), armonizza le aliquote tra le diverse tipologie di lavoro (non escludendo un incremento dei contributi degli autonomi) e rende minore la concorrenza tra atipici e dipendenti regolari. Avrebbe inoltre il pregio di costare di meno dato che i 5 punti non sarebbero dati a tutti ma solo in funzione della capienza degli oneri impropri esistenti nei vari settori.

E' proprio su questo punto, a mio avviso, che vi è una delle debolezze della proposta. Una attenta analisi degli oneri impropri nei diversi settori produttivi mostra che una riduzione di questo tipo favorirebbe in misura maggiore settori come il commercio, i servizi e l'edilizia in confronto ai settori manifatturieri specie se innovativi. Mentre nell'industria manifatturiera, e in misura minore nell'edilizia, vi è una forte differenza tra oneri impropri degli operai (5% circa) e degli impiegati (2,75%), nel commercio e nei servizi, e in altri settori del terziario non avanzato, gli oneri impropri gravano nella stessa misura (5%) su operai e impiegati.

Nel commercio la percentuale di impiegati è del 57%, nei servizi privati alle imprese del 56%, nell'industria in senso stretto del 32%. Gli sgravi sarebbero inversamente proporzionali all'esposizione dei settori alla concorrenza internazionale. I meno avvantaggiati sarebbero proprio i settori manifatturieri più esposti alla concorrenza e, solitamente, con un maggior numero di "impiegati". E' più logica, allora, una misura universalistica uguale per tutti i settori.

Vi è, poi, da notare che una eliminazione degli oneri di disoccupazione andrebbe in controtendenza all'esigenza di porre anche a carico delle imprese gli oneri derivanti da processi di ristrutturazione e che una diminuzione degli oneri impropri non può essere riversata in parte in favore dei lavoratori dato che su questi non gravano direttamente a differenza di quelli pensionistici. E' comunque una proposta da approfondire.
 
Tornando all'idea della pensione di base, Roberto Pizzuti osserva che una pensione universalistica e indipendente dall'età di pensionamento potrebbe disincentivare il finanziamento della componente contributiva favorendo l'uscita dal sistema. Concordo con questa affermazione e infatti la proposta Benetti-Olini si riferisce ad una pensione non di cittadinanza, ma di lavoro, con un minimo di anni di contribuzione necessari, erogata solo a partire da una data età ed, eventualmente, legata parzialmente al numero di anni di contribuzione. Ci siamo esercitati su numerose ipotesi a partire dall'ammontare dell'importo massimo della pensione di base, dell'età anagrafica di erogazione, del numero minimo di anni di contribuzione e via dicendo proprio per rispondere ai possibili comportamenti elusivi e per assicurare comunque da una copertura adeguata. I calcoli sono disponibili, le ipotesi possono essere diverse e dipendono dagli obiettivi di copertura e di selezione nella distribuzione dei vantaggi.
Nelle nostre ipotesi di base, per quello che concerne i lavoratori dipendenti, ne risulterebbero avvantaggiati, data una pensione di base uguale per tutti, i redditi più bassi e svantaggiati quelli più alti con una redistribuzione di reddito pensionistico a nostro avviso non negativa.
 
I costi della proposta. In termini immediati vi sarebbero quelli derivanti da minori entrate contributive per i dipendenti al netto dell'aumento dell'imposizione fiscale. A parziale copertura vi sarebbero le maggiori entrate contributive al netto della diminuzione dell'imposizione fiscale per gli autonomi e parasubordinati. Il costo risultante dipende dalla combinazione di aliquote e dalla partecipazione o meno dei lavoratori a questa riduzione. Ipotizzando un'accoppiata di aliquote 27,7/24 rispettivamente per dipendenti e autonomi il costo da noi stimato sarebbe di 4.400 milioni di euro in caso di decontribuzione solo a favore delle imprese e di  5.700 milioni di euro con una riduzione dei 5 punti riservata per 1/3 a favore dei dipendenti (il maggior costo in questo caso deriva dal pubblico impiego).

Il costo aumenterebbe di circa 900 milioni di euro se l'aliquota degli autonomi fosse fissata al 23% e diminuirebbe di circa 600 milioni di ero se fosse portata al 25%.
Importi rilevanti come si vede che potrebbero peraltro essere coperti parzialmente da un disboscamento delle sottocontribuzioni oggi esistenti e che gravano sull'Inps per un importo di circa 10.000 milioni di euro.
 
Riguardo alla pensione di base il costo è futuro e raggiungerebbe il suo impatto maggiore in termini di Pil solo tra una trentina di anni, quando cioè la curva della spesa/Pil inizierebbe a diminuire. Vi è poi da osservare che la pensione di base assorbirebbe la parte di assegno sociale spettante nel sistema contributivo a tutte le pensioni, di fatto molte di quelle degli autonomi, che risulteranno inferiori all'importo dell'assegno stesso. Il suo costo netto sarebbe, pertanto, inferiore.

I costi ci sono, la decisione non può che essere politica in base alle priorità che il governo vuole darsi.
 
Un'ultima annotazione infine. Roberto Pizzuti si domanda, partendo peraltro erroneamente dall'idea che alla base della proposta ci sia la motivazione della riduzione del costo del lavoro, se sia opportuno appesantire il bilancio pubblico per premiare a pioggia il sistema produttivo così com'è, o se, invece, almeno parte di quelle risorse non possano essere più convenientemente utilizzate, destinandole a finanziare politiche industriali e sociali più idonee ad innovare il nostro sistema produttivo e a migliorare strutturalmente la sua competitività e la capacità di crescita.

Domanda doverosa che necessita però anche di proposte concrete rispetto ai modi selettivi di intervento, proposte che stentano ad apparire e che confliggono con l'idea diffusa, che Roberto stesso ha, di cosa sono gli imprenditori italiani.

Se ci fossero proposte concrete di interventi selettivi, di politiche industriali e così via, si potrebbe discutere in concreto delle "scelte" da fare considerando le limitate risorse a disposizione. Altrimenti si confrontano proposte con "desideri" sia pure condivisibili.
Roberto Convenevole avanza una proposta di intervento sull'Irap che dovrebbe favorire, secondo le sue stime, i settori sottoposti alla concorrenza internazionale e sfavorire i settore oligopolistici italiani rafforzati dal processo di privatizzazione degli anni scorsi. Credo vada esaminata.

Resterebbero peraltro due problemi. Come unifichiamo il mercato del lavoro (non basta modificare la legge Biagi se le convenienze restano le attuali) e come assicuriamo una adeguata copertura pensionistica a tutti?
Martedì, 13. Giugno 2006
 

SOCIAL

 

CONTATTI