Ma alle imprese serve produrre in Cina?

Cadute le ultime barriere commerciali, il Made in Italy, e in particolare il tessile, deve sostenere un vero e proprio assalto. Ma la soluzione non sembra quella di andare a produrre in Oriente, almeno a guardare i bilanci delle imprese che lo fanno da anni

L'8 Marzo scorso, le organizzazioni sindacali e le associazioni imprenditoriali hanno realizzato una giornata di sciopero e di mobilitazione  per richiamare l'attenzione del governo e del mondo politico sui seri problemi che attraversa in questo momento il Made in Italy. Come è noto le risposte non sono state all'altezza della gravità dei problemi. Le norme contenute nel decreto sulla competitività sono alquanto generiche, mentre da parte del mondo politico si è assistito o a proposte impraticabili (i dazi) o a silenzi e mancanza di proposte.

Il tema centrale come è noto, è la invasione di prodotti tessili a basso costo provenienti dalla Cina, India e altri paesi del Far East, non solo in Italia ma anche nei paesi dove il "sistema moda" italiano esportava e ne traeva un primato economico, occupazionale e anche culturale. Con il gennaio 2005 sono cadute le ultime barriere commerciali e prodotti quali scarpe, abbigliamento intimo, occhiali ed altro stanno invadendo le nostre catene distributive e quelle degli altri paesi industrializzati a costi bassi e per alcuni prodotti anche sottocosto.

I riflessi sul nostro sistema industriale sono pesanti e per alcuni versi in via di peggioramento. La Fondazione di Dublino stima  in 250.000 addetti la caduta occupazionale del sistema industriale della moda europeo, ed essendo l'Italia un paese che occupa più della metà degli addetti europei i conti sono presto fatti: ci si aspetta una caduta di circa 100.000 addetti, se si vogliono fare previsioni minimamente realistiche.

Le risposte da parte del nostro sistema imprenditoriale sono state - fino ad oggi - varie e per molti versi contraddittorie, ma riassumibili in tre grandi tipologie.

Alla prima  appartengono le aziende che hanno deciso di produrre interamente in Italia. Tod's, ma anche consorzi di aziende della pelletteria (100% Made in Italy), alcune aziende delle confezioni, ritengono che il modo migliore per combattere l'invasione dei prodotti sia quello di valorizzare il marchio Made in Italy attraverso ideazione, e lavoro fatto interamente in Italia. Concentrarsi, puntare su innovazione tecnologica di processo e di prodotto e sulla professionalità dei lavoratori italiani potrà sembrare una idea romantica ma significa rivisitare le radici del successo del sistema moda italiano nel mondo.

Una seconda area è quella che punta alla forza del proprio "brand". Marchi prestigiosi quali Prada, Gucci e in generale quelli dello stilismo (Versace, Armani, Valentino) si sentono protetti dalla forza del proprio marchio e non credono che i prodotti del Far East possano insidiare i loro prodotti e le loro quote di mercato. Al limite il loro vero pericolo sono le contraffazioni e vogliono misure concrete in questa direzione.
In altri termini producono anche fuori dall'Italia, a partire dal bacino del Mediterraneo e nell'est europeo, ma stanno abbastanza alla larga dalla Cina e dai paesi del Far East.
Emblematico  in questo senso è l'atteggiamento produttivo di Benetton, pioniere nella de-localizzazione delle produzioni in tutto il mondo, che in Cina ha solo una joint-venture con una azienda locale per quantità produttive molto modeste.

C'è infine l'area delle aziende che hanno creduto nella nuova frontiera e si sono insediate in maniera massiccia nel territorio cinese. Quasi 700 ore annue di lavoro in più che in Italia ed un costo del lavoro complessivo di un migliaio di euro annui (contro i 22 mila italiani) e inoltre nessuno standard ambientale da rispettare, fanno di quelle zone una sorta di  paese di Bengodi.

Ci sono delle aziende e dei gruppi che sono stabilmente insediati in Cina da circa dieci anni, importando in Italia semilavorati e prodotti finiti (camicie in particolare) per poi commercializzarli.

Francamente i vantaggi di questo processo di de-localizzazione per i conti economici delle aziende si fa fatica a vederli, i bilanci e la redditività delle aziende e dei gruppi non segnano decise inversioni di tendenza. Al contrario la competitività anche di queste aziende nei mercati di sbocco è seriamente messa in discussione da comportamenti aggressivi e spregiudicati delle grandi catene produttive e commerciali cinesi.

In altri termini - seppure siamo ancora all'inizio di un processo in corso -  non sembra una grande idea quella di andare a produrre in Cina cedendo inevitabilmente know-how ad un concorrente aggressivo quanto spregiudicato.

Emblematico è l'esempio della occhialeria dove si contrappongono alcune aziende cinesi con il distretto del Cadore (BL). E' a tutti nota la competizione che una azienda cinese ha operato nei confronti della Luxottica (leader mondiale degli occhiali) per l'aggiudicazione di un marchio ed una catena commerciale statunitense, che ha costretto la Luxottica a rilanciare sul prezzo di acquisto; meno noto è l'accaparramento di acetato e metallo che le aziende cinesi fanno a scapito delle piccole aziende della occhialeria di Belluno, accrescendo i costi delle materie prime e mettendole fuori mercato.

Certamente siamo di fronte ad un processo ancora in corso i cui esiti non sono prevedibili, ma è necessario concentrarsi sulla natura della competizione a cui il sistema "made in Italy"  è chiamato. La concorrenza non sembra essere di natura produttiva bensì commerciale; è su questo che l'Europa e i paesi membri devono controbattere.
Lasciare la competizione senza regole è un errore che non giova neanche allo sviluppo di quei popoli.

Un paese - come la Cina -  con ancora 600 milioni di contadini che premono sul mercato del  lavoro industriale è in grado di mantenere orari e salari  a livello di sussistenza ancora per parecchi anni, e al tempo stesso operare dumping sui costi .
Sull'insieme di questi problemi -soprattutto in Italia - siamo chiamati ad organizzare una risposta convincente.

(Stefano Ruvolo - Femca-Cisl - Federazione Energia, Moda, Chimica e Affini)
 

Giovedì, 7. Aprile 2005
 

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