Lo 'tsunami silenzioso' che affama il mondo

Gran parte delle spiegazioni del fenomeno dei prezzi alimentari alle stelle prendono in esame solo le cause più contingenti, trascurando quelle strutturali di lungo periodo. Esaminandi le quali non si può che concludere che ci avviamo a un disastro annunciato

Da alcuni mesi sulla stampa italiana il rapido e continuo aumento dei prezzi dei cereali e di altri prodotti agricoli essenziali come il riso e la soia e le sommosse che esplodono in tanti paesi fanno certamente notizia (all’estero ne parlano già da più tempo) e c’è da sperare che l’argomento non cada nel dimenticatoio come succede così spesso quando riguarda i paesi del Sud e i più poveri tra di essi. In effetti si tratta di una serie di problemi di natura strutturale e sono forse il segnale che alcuni nodi che si accumulavano da molto tempo sono venuti al pettine e si stanno trasformando in un problema globale dalla soluzione certo non agevole.

 

La descrizione superficiale è abbastanza facile. Già da qualche anno i prezzi dei principali prodotti agricoli, di quelli essenziali nella dieta della maggior parte della popolazione mondiale, (grano, riso, granturco, ecc.) erano in aumento e questa tendenza di fondo aveva attirato l’attenzione degli operatori finanziari, tanto da moltiplicare i contratti di compravendita “futures”, cioè proiettati in avanti nel tempo, che sembravano garantire sicuri guadagni. A questo scenario si è aggiunta la decisione del governo USA di potenziare la trasformazione delle piante in un carburante per auto che permettesse di ridurre la dipendenza dalle importazioni di un petrolio che aveva visto salire il suo prezzo internazionale a ritmi da tempo non sperimentati. Le operazioni finanziarie e gli aumenti del prezzo del petrolio hanno influito pesantemente sui prezzi del mercato dei cereali rendendo difficile a molti paesi poveri importare alimenti essenziali per le loro popolazioni, che si sono subito trovate in situazioni di carestia e hanno reagito con la violenza all’improvviso abbassamento del loro regime alimentare, già al di sotto della soglia di sopravvivenza almeno nelle fasce più povere.

 

Le cause di fondo

 

Una descrizione di questo tipo corre però il rischio di far scambiare per un evento congiunturale una serie di fatti di estrema gravità e che finora sono stati fortemente sottovalutati dai decisori politici.

Vediamo allora di distinguere tra cause lontane e di fondo, molto trascurate, e cause contingenti e recenti, di estrema gravità specie se confrontate con la situazione ambientale del pianeta.

 

La prima causa riguarda la produzione agricola di molti dei paesi più poveri, ai quali nel tempo è stata imposta la produzione di prodotti ex coloniali (caffé, cacao, zucchero, cotone, ecc.) o di prodotti freschi, tutti più facilmente esportabili perché richiesti dalle imprese multinazionali che li inscatolavano o trasformavano a scala industriale per alimentare i mercati ricchi dei consumatori del Nord. Mentre queste esportazioni venivano pagate ai livelli più bassi possibili e quindi contribuivano pochissimo al cosiddetto sviluppo, un numero rapidamente crescente di paesi ha perso la autosufficienza alimentare, cioè la capacità di nutrire la rispettiva popolazione con produzioni locali, diventando dipendenti dalle importazioni o dagli aiuti alimentari provenienti dai paesi ricchi, che sussidiano le loro produzioni agricole e quindi possono vendere all’estero a prezzi bassi o si liberano delle loro eccedenze facendole acquistare dagli Stati che le inseriscono nei flussi della cooperazione allo sviluppo o degli interventi di emergenza (carestie, alluvioni, uragani, ecc.).

 

Una seconda causa può essere  rintracciata nella riduzione degli aiuti all’agricoltura dei paesi più poveri che si sono ridotti dal 17 al 3% e una terza nelle riserve mondiali di cereali che sono state lasciate abbassare al di sotto del livello di sicurezza. Una quarta causa è senz’altro da ricondurre all’aumento delle richieste di alimenti all’interno della Cina e dell’India, derivante dall’aumento dei redditi medi e alti (mentre sussistono i livelli di sussistenza per le fasce più povere). Inoltre è anche cambiata in misura rilevante la composizione dei consumi: sono aumentati quelli di carne e ciò ha influito sulla richiesta mondiale di bestiame, che a sua volta ha determinato un incremento nel consumo di vegetali e mangimi, specie industriali, per il loro allevamento.

Viene anche segnalata una quinta causa: i mutamenti climatici hanno aumentato le giornate di cattivo tempo (ma anche di uragani, alluvioni, ecc.) in moltissimi paesi e i raccolti degli ultimi due anni non sono stati buoni. Una ulteriore causa di fondo può essere considerato il mancato avvio di procedure di utilizzo razionale dei rifiuti, se si tiene conto del fatto che circa un terzo degli alimenti va ancora a finire nelle discariche. Gli alti livelli del prezzo internazionale del petrolio da oltre venti anni hanno inciso in misura rilevante sulle spese degli agricoltori (per fertilizzanti, gasolio, approvvigionamento di acqua, ecc.) e per il trasporto dei prodotti alimentari, spesso spostati più volte per rispondere alle esigenze delle industrie e della grande distribuzione.

 

Una ottava causa riguarda la eccessiva omogeneità dei semi utilizzati anche in regioni molto distanti tra loro, poiché fanno tutti parte delle varietà ibridate o geneticamente modificate dalle multinazionali agroalimentari, che controllano anche fertilizzanti e pesticidi a scala mondiale. Questo comporta che i raccolti risentono a scala mondiale delle variazioni climatiche e ciò ha reso particolarmente squilibrato il mercato globale.

 

In sostanza il settore agricolo è ormai caratterizzato, dietro le immagini di grandi capacità produttive e di rilevanti possibilità di gestire flussi di materie prime agricole a livello mondiale, da una elevata fragilità produttiva e organizzativa e da una crescente esposizione alle mutazioni del clima sempre più accelerate e al moltiplicarsi di uragani e alluvioni di crescente potenza.

 

Infine, nona e ultima causa strutturale, non si può dimenticare che negli ultimi quaranta anni la popolazione mondiale è più che raddoppiata, con aumenti proporzionalmente molto maggiori nei paesi del Sud del mondo. La domanda generale di cibo è quindi aumentata, ma è stata fronteggiata più con l’aumento delle importazioni dal Nord ricco (in grado di aumentare la produzione di cereali da vendere a basso prezzo) che con l’aumento delle produzioni di cibi locali (in quanto gran parte delle terre coltivabili disponibili erano destinate all’esportazione di alimenti per i consumi eccessivi dei popoli del Nord). Il numero delle persone esposte al rischio di morte per fame è aumentato fino a oltre 850 milioni di persone mentre la malnutrizione ancora più diffusa colpisce in pratica tutte le persone al di sotto della soglia della povertà e della povertà estrema.

 

Le cause più recenti e meno dirette

 

Veniamo ora alle cause più contingenti, difficilmente controllabili e che stanno mutando le caratteristiche dei mercati e dei rapporti internazionali.

 

La prima riguarda il recente, radicale cambiamento del prezzo internazionale del petrolio, in rapido e continuo aumento da oltre due anni, che influisce sui prezzi dei macchinari e dei carburanti usati nelle agricolture povere ma già meccanizzate, che fa costare di più le importazioni di cereali essenziali per l’alimentazione di base delle popolazioni più povere, che rende più difficile gli acquisti di cereali ai programmi di aiuto specifici come quelli del PAM (programma alimentare mondiale della FAO) e che obbliga (per pagare interessi e restituire i capitali ottenuti in prestito)  molti paesi indebitati a esportare più prodotti agricoli richiesti dal Nord proprio mentre sarebbe necessario destinare i suoli dei paesi più poveri a produzioni per il consumo locale. In prospettiva, poiché è abbastanza accertato che la estrazione del petrolio raggiungerà il massimo livello possibile, il famoso “picco”, nel 2012, sembra difficile che i paesi produttori aumentino le loro quote di produzione (le scoperte di nuovi giacimenti, come in Brasile, e le previste 175 nuove perforazioni potranno solo compensare la maggior domanda di paesi come la Cina e l’India), i prezzi internazionali continueranno ad aumentare senza ostacoli.

 

Viceversa, un prezzo “alto” del petrolio rende più facili le esportazioni dei paesi più ricchi come gli Stati Uniti, che possono usare a loro piacimento quella che già nel 1974 Kissinger aveva definito come “l’arma grano, lo strumento più potente dell’arsenale Usa”. Sono inoltre facilitate le operazioni finanziarie e puramente speculative a scala planetaria e le imprese multinazionali possono usare a loro piacimento le risorse di origine petrolifera per agevolare i flussi di investimento produttivi e commerciali verso il Sud e tra i paesi industriali.

 

La seconda causa è rappresentata dalla scelta del governo americano in favore degli agrocarburanti con il fine di sostituire in qualche misura il petrolio come risorsa energetica essenziale. Non appena tale decisione governativa è stata resa nota, nel giro di poche settimane si è verificato un forte aumento del prezzo di vendita del granturco ( e degli altri prodotti utilizzabili come sostitutivi della benzina). Per avere 413 litri di etanolo serve oltre una tonnellata di mais e gli Stati Uniti intendono arrivare entro il 2017 a disporre di 132 miliardi di litri di etanolo; e questa scelta è stata presentata all’inizio come misura favorevole all’ambiente in quanto permetteva di ridimensionare il consumo del petrolio! A oggi, negli Stati Uniti l’etanolo è un affare da 40 miliardi di dollari e dà occupazione a 80.000 persone. Più di recente il Canada ha deciso di permettere che la benzina possa contenere fino al 5% di etanolo e che il diesel ne possa contenere fino al 2%, mentre l’Unione Europea ha deciso che entro il 2020 almeno il 10% dei carburanti per auto sia costituito da prodotti di origine agricola, anche se ha imposto che per fabbricarli non devono essere distrutte foreste primarie, terre ancora vergini, zone umide o ecosistemi di biodiversità. Anche il piano quinquennale cinese prevede di arrivare al 15% delle auto alimentate a biocarburanti.

 

Il ricorso ai biocarburanti produce almeno tre conseguenze negative principali. Se la diversa destinazione d’uso dei prodotti delle coltivazioni di granturco, soia, ecc. deve essere limitata alle terre già coltivate, è evidente che si diminuiscono le produzioni destinate all’alimentazione o all’esportazione nei paesi più poveri, con conseguenze particolarmente gravi specie in prospettiva, con una popolazione mondiale in crescita e una domanda di cibo in aumento insieme ai redditi dei maggiori paesi del Sud. Già da alcuni mesi gli organismi internazionali per gli aiuti di emergenza sono in difficoltà per reperire i cereali che costituiscono la base dell’alimentazione nei campi profughi e nelle aree di accoglienza di chi sfugge alle guerre e ai disastri ambientali.

 

In secondo luogo, nei paesi più ricchi, si evidenzia immediatamente la concorrenza tra le produzioni per l’auto e quelle per l’alimentazione e ciò porta inevitabilmente alla sparizione delle terre che ospitano zone vergini o selvagge, ormai rare e assediate dal cemento. Infine, tutte le produzioni di biocarburanti provocano un aumento rilevante delle emissioni di CO2: la fonte più produttiva, cioè la canna da zucchero coltivata nelle savane del centro del Brasile, crea un debito di carbonio che richiede 17 anni per essere compensato. La fonte peggiore, l’olio di palma che provoca la distruzione delle foreste tropicali, causa un debito di carbonio che richiede circa 840 anni per essere recuperato. Perfino quando si produce etanolo sui terreni che si era deciso di non coltivare (set aside) per non ridurre il reddito dei contadini con produzioni in eccesso che danno scarsi proventi, servono 48 anni per compensare il debito di carbonio. Quindi in realtà la produzione di biocarburanti provoca dei danni al clima attualmente insostenibili e non costituisce certo una vera sostituzione dei danni da petrolio. E’ poi da tenere presente che anche se la produzione di etanolo viene realizzata utilizzando residui delle piante (foglie, fusti, ecc.) si trascura il fatto che questa parte dei vegetali serve per arricchire nuovamente il terreno sfruttato dalle piantagioni e ad evitare che i cereali impoveriscano definitivamente il terreno sul quale sono coltivati. In caso contrario l’erosione potrebbe aumentare anche di 100 volte. Se poi si tenta di ricostituire la qualità dei terreni distribuendo fertilizzanti chimici, si produce, nei processi industriali per fabbricarli, ossido di idrogeno, un gas 296 volte più potente dell’anidride carbonica.

 

Infine, non si può dimenticare che il Brasile, malgrado le recenti scoperte di giacimenti petroliferi sulla costa, insiste sulla sua politica di produzione di etanolo e anzi ha avviato piantagioni di cocco della varietà babacu, destinato ad alimentare un impianto pilota di biodiesel, mentre il Benin, su suggerimento del Fondo Monetario Internazionale, sta cercando di reperire tre milioni di ettari di terreno da destinare a piantagioni di canna da zucchero e manioca per produrre etanolo e di palma da olio e jatropha per fabbricare biodiesel. Almeno 400mila ettari saranno reperiti nelle zone umide meridionali, dove vive oltre la metà della popolazione anche se esse rappresentano meno dell’8% del territorio: risultato, drastica riduzione dei terreni destinati all’alimentazione locale.

 

La produzione di biocarburanti derivati dal mais ha inoltre degli effetti ambientali collaterali. Nel 2007 negli Stati Uniti erano coltivati a mais quasi 38 milioni di ettari e  i coltivatori ricevono ormai 4 dollari per bushel (35 litri circa) invece dei due del passato. Vengono usati ai massimi livelli dei fertilizzanti azotati, anche se il mais ne assorbe solo una piccola parte. I residui di azoto percolano nel suolo e attraverso le falde acquifere e i corsi d’acqua vanno a finire nel Mississippi e nel Missouri che sboccano nel Golfo del Messico. Questi “nutrienti” provocano la proliferazione delle alghe che successivamente si depositano sul fondo, dove sono attaccate da batteri che le decompongono e assorbono tutto l’ossigeno dell’acqua. Finito l’ossigeno, piante e animali acquatici abbandonano la zona. Il fenomeno è noto dal 1974, a metà degli anni ’80 è diventato permanente e oggi la zona morta è un’area di oltre 20mila chilometri quadrati. Cosa succederà con l’aumento della coltivazione del mais?

 

Un terzo fattore deve essere annoverato tra le cause contingenti della crisi alimentare mondiale. Continui sono i riferimenti al ruolo che i semi geneticamente modificati, OGM, potrebbero avere per “risolvere” i problemi della fame diffondendo culture ad alto rendimento, una specie di seconda “Rivoluzione Verde”, in pratica ignorando i gravi danni ambientali causati dalla diffusione a partire dai primo anni ‘50 dei semi ibridati, che richiedevano acqua, fertilizzanti e pesticidi e che quindi hanno dato origine alla terribile chimizzazione dei terreni e hanno contribuito alla diffusione dei tumori.

 

Inoltre la maggior parte dei richiami sono generici o ispirati direttamente dalle aziende più impegnate nelle ricerche genetiche, come la Monsanto o la Syngenta. Non è facile accertare la situazione reale, anche perché negli Stati Uniti l’uso dei semi OGM è permesso mentre in Europa le resistenze sono ancora molto forti (tranne che in Spagna). In pratica i contadini che usano queste sementi erano 5 milioni nel 2001 e oggi sono solo sei milioni. In termini di superfici coltivate si tratta di poco più di 60 milioni di ettari, così ripartiti per piante e tipo di resistenza introdotto per via genetica: soia resistente agli erbicidi (61%), colza resistente agli erbicidi (5%), cotone resistente agli erbicidi (5%), agli insetti (5%), agli erbicidi e agli insetti (3%), mais resistente agli erbicidi (4%), agli insetti (12%), agli erbicidi e agli insetti (5%).

 

La polemica continua in merito alla produttività reale di queste piantagioni rispetto a quelle con sementi naturali o ibridate, in quanto gli OGM non sembrano in effetti garantire sempre raccolti vantaggiosi e presentano quasi sempre il limite della infertilità (se riseminati perdono quasi completamente le loro caratteristiche) che costringe i coltivatori a riacquistare ogni anno le sementi dalle multinazionali che ne detengono i brevetti, con conseguenti costi e perdita di autonomia.

 

D’altra parte, sono sempre alte le preoccupazioni degli esperti per i rischi dei consumatori, in particolare quelli connessi con le allergie, in forte aumento in gran parte dei paesi ricchi. Un recente studio dell’International Assessment of Agricultural Knowledge, Science and Technology sembra ridimensionare fortemente il ruolo del comparto OGM, anche se le imprese continuano nei loro sforzi di ricerca. Anche un esperto come Lester Brown ritiene impossibile replicare la rivoluzione verde, poiché “Esiste un limite fisiologico per i raccolti. Alcune cose potranno essere migliorate, ma non ci sarà una nuova rivoluzione”. Altre sono le vie da percorrere per garantire l’alimentazione di una popolazione mondiale in rapida crescita.

 

L’aumento dei prezzi

 

L’andamento dei prezzi di acquisto dei cereali ha fatto registrare negli ultimi due anni rialzi molto consistenti (che hanno rafforzato le tendenze di fondo all’aumento iniziate da alcuni anni dopo tre decenni di bassi livelli). Per il riso,  dal marzo 2007 al marzo 2008 il prezzo è aumentato del 70%, con punte anche superiori al 140%  nei paesi importatori tra il gennaio e l’aprile 2008; per il mais secondo la FAO l’aumento è stato del 31%; per il grano sempre nel periodo 2007-2008 (marzo), l’aumento è stato del 130%; per la soia dell’87%. Queste cifre però si riferiscono alle rilevazioni sui principali mercati; per i contadini produttori, costretti a vendere alle grandi imprese commerciali (Cargill, Archer Midlands, ecc.) i guadagni sono stati molto minori, mentre i prezzi pagati dai consumatori finali dei paesi costretti a importare sono subito arrivati a livelli non sostenibili per le popolazioni al di sotto della soglia di povertà. Sui mercati locali questi sono stati alcuni aumenti registrati nel 2008: Uganda, mais +65%; Sudan, grano +90%; Nigeria, miglio raddoppiato; Filippine, riso +50% in due mesi; Senegal e Costa d’Avorio, grano raddoppiato; Bangla Desh, riso +66%; Tagikistan, pane raddoppiato; Armenia, grano +30%.

 

Inoltre i pochi paesi in grado di acquistare all’estero e di rivendere ai propri cittadini a prezzi politici hanno subito gravi perdite. E’ anche da ricordare che nella seconda metà del 2007 le riserve mondiali di cereali, accumulate in molti paesi per compensare i raccolti sfavorevoli, sono arrivate al loro livello più basso dopo 27 anni.

 

Le prospettive non sono molto incoraggianti: i prezzi dei cereali potrebbero continuare a crescere del 10-20% all’anno almeno fino al 2015, la FAO formula previsioni ancora più pessimiste fino al 2017. In tutto il periodo varrebbe l’affermazione di un Nobel per l’economia, Gary Becker, che se i prezzi alimentari salgono di un terzo, il tenore di vita dei paesi ricchi diminuisce del 3%, mentre quello dei paesi più poveri si riduce del 20%

 

I costi umani e le sommosse

 

A causa dei meccanismi qui descritti, alcuni paesi dell’America Latina (Bolivia, Repubblica Dominicana, Ecuador, Haiti, Nicaragua), tutta l’Africa a sud del Sahara (ventuno paesi) e poi Cina, Iraq, Afghanistan, Corea, Bangladesh, Nepal, Sri Lanka, Tagichistan, Timor Est e Vietnam in Asia, sono esposti al rischio di una crisi alimentare in un breve volgere di mesi. In alcuni di questi paesi la crisi è già esplosa e si sono registrati numerosi casi di sommosse, spesso represse nel sangue. Almeno cento milioni di persone sono sull’orlo di una carestia destinata a protrarsi nel tempo.

 

Cosa sta succedendo? Argentina, scioperi durati tre settimane e manifestazioni; Messico proteste per gli alti prezzi del mais; Haiti, almeno cinque morti e una ventina di feriti; Egitto, manifestazioni, 300 arresti, 5 morti; Costa d’Avorio, due morti; Camerun, quaranta morti; Mozambico, sei morti; Senegal, incidenti e 24 arresti; Yemen, marcia dei bambini; Tunisia, cortei contro il carovita; Marocco, proteste e 34 arresti; Burkina Faso, sciopero generale e 100 arresti; Filippine, distribuzione di riso sotto scorta militare; Corea del Nord, allarme per imminente crisi alimentare. Inoltre India, Cina e Vietnam hanno bloccato le esportazioni per garantire in via prioritaria le rispettive popolazioni.

 

Invece, chi ci guadagna?

 

Dopo aver quantificato i danni arrecati al pianeta e alle popolazioni più povere, non si può trascurare di dare uno sguardo ai poteri forti che da decenni controllano i prezzi delle materie prime agricole e dei prodotti alimentari industriali e vedere quali profitti riescono a trarre dai meccanismi fin qui descritti. Un paio di articoli del “Corriere Economia” che esce con il Corriere della Sera ogni lunedì sono sufficienti per chiarire questo aspetto fin dai titoli: “Le multinazionali cavalcano l’emergenza cereali. Per il riso attesi rincari del 50% entro agosto. Fame e affari: il piatto pieno di Nestlè, Unilever e Monsanto. Per alimentari e sementi crescita dei profitti fino al 40%. Fertilizzanti boom: +140%”

 

Vediamo però in dettaglio come fanno funzionare il meccanismo globale le multinazionali che controllano i semi, i fertilizzanti, i pesticidi, la produzione e il commercio internazionale dei cereali e vendono gli aiuti alimentari ai paesi cosiddetti donatori. Già nel novembre 2007 la stessa fonte metteva in evidenza le imprese che “in Borsa diventavano ricche con il grano a peso d’oro”. Seconda i dati elaborati da UBS (Unione Banche Svizzere), gli aumenti dei prezzi dei prodotti per l’alimentazione erano passati nei paesi industrializzati da un livello medio dell’”1%  del 2005  al 3% dei primi mesi del 2007. La ricerca sottolineava che ne avrebbero tratto benefici non solo aziende del comparto agroalimentare o della ristorazione come Monsanto o Mc Donald’s, ma anche aziende che controllano l’acqua, come Aqua America, che producono macchine agricole come la statunitense John Deere, oppure le imprese della grande distribuzione come la Tesco (UK) o la Wal-Mart (USA). Un aumento consistente dei prezzi agricoli (un 25% in più della media prevista entro il 2010) vedrebbe aumentare i profitti anche delle imprese che producono erbicidi e antiparassitari come la Bayer, di origini tedesche, la MA Industries israeliana e la Dupont americana, nonché quelle specializzate nella produzione di fertilizzanti come la Potash Corp. e la Agrium canadesi,  e la svizzera Syngenta. Infine le industrie di maggiori dimensioni che vendono prodotti alimentari ai consumatori sarebbero “in grado di schiacciare i margini di profitto dei produttori invece che subire le conseguenze di un aumento dei prezzi all’origine”: Wal-Mart, Tesco, Safeway, per citare solo quelle che operano a scala internazionale.

 

Giovedì, 12. Giugno 2008
 

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