Lo smarrimento del sindacato

Mentre nuove generazioni entravano nel mondo del lavoro si è rinunciato a trovare nuovi linguaggi e di conseguenza a offrire una proposta politica forte ai giovani. Il mezzo aggregante lo si è individuato nell’offerta di servizi, perdendo i caratteri fondativi e la capacità di mobilitazione. Bisogna andare verso una struttura a rete ritrovando la capacità di ascolto

articolo di Gianni Italia aggiunge un altro importante tassello al quadro che Eguaglianza & Libertà va tracciando da diverso tempo sul futuro del sindacato nel nostro paese. Certo quello che si delinea è uno scenario che ha molte probabilità di verificarsi. In effetti (e posso parlare con l’esperienza di dieci anni di Rsu e di partecipazione ai direttivi) il sindacato ha rinunciato in gran parte ormai a quelli che sono i suoi caratteri fondativi. Innanzitutto, la capacità di mobilitazione, ma questo consegue al fatto che il nostro sindacato già da decenni non è più un’agenzia educativa, né per i suoi delegati e funzionari né tantomeno  per i semplici lavoratori, iscritti o non iscritti che siano.

 

Com’è successo questo? Mi viene da dire perché si è rinunciato a farsi educare dai lavoratori stessi: al di là dei tanti convegni sull’evoluzione del lavoro, sulla precarietà, eccetera è sfuggito il legame esistenziale con persone che non solo hanno visto cambiare  i modi di produzione e i modi di relazionarsi nelle aziende, ma hanno sviluppato nuove aspettative e nuove attese.

 

In altre parole, si è percepito che chi entrava nel mondo del lavoro (a partire, diciamo, dagli anni 80 del Novecento) fosse “diverso” dalle precedenti generazioni, ma non si è capito in cosa consistesse questa diversità. Si è a attribuita la mancanza d’impegno e di partecipazione semplicemente al cosiddetto “parassitismo” di chi trovava già tutto bell’e fatto, limitandosi di conseguenza a criticare l’individualismo (che in effetti c’era) delle nuove leve, specialmente di coloro che avevano un livello più elevato d’istruzione.

 

Si è quindi rinunciato da un lato a trovare nuovi linguaggi, dall’altro e di conseguenza a offrire una proposta politica forte ai giovani. Il mezzo aggregante lo si è individuato nell’offerta di servizi, senza rendersi conto che così si potevano fare tessere, ma non iscritti e men che meno militanti. Il sintomo di questo approccio fuori fase lo si è avuto evidente quando sono andate a costituirsi le federazioni degli atipici, senza cogliere che si andava ad affrontare un problema appunto “atipico” con uno strumento sindacale “tipico”.

 

Nel contempo, pur puntando sui servizi, non si davano alle Rsu (se non in rari casi) gli strumenti per essere loro i servizi di fabbrica, creando nei lavoratori la convinzione che il baricentro dei loro bisogni si era ormai spostato fuori dal posto di lavoro e togliendo così di fatto autorevolezza ai delegati. Si è dato per scontato un sistema di relazioni industriali che invece, come si è visto col ciclone Fiat, era semplicemente abitudinario. Quel che è peggio, però, si è cominciata a privilegiare l’organizzazione: cos’è altro infatti il sindacato degli iscritti se non questo? Cade il concetto di sindacato generale, che è fondato sulla solidarietà di tutti i lavoratori,  in favore del sindacato degli interessi, che quindi deve (giustamente, da questo punto di vista) dar soddisfazione innanzitutto a chi paga la tessera. E arriviamo quindi a preparare lo scenario descritto dall’articolo, che a questo punto, come si diceva, è assai probabile.

 

Occorre davvero un sindacato nuovo (forse, mi vien da dire, anche un nuovo sindacato) che riesca ad avere antenne sensibili: c’è così tanta sofferenza inascoltata nei posti di lavoro, che attende solo chi la raccolga! La sua struttura deve però essere a rete e non centralizzata, sia pure con un forte coordinamento che possa far comprendere anche a realtà fisicamente distanti tra loro le profonde problematiche comuni che le legano. Un sindacato che punti molto sull’impegno volontario, con una struttura leggera; che abbia come base ideale la proposta forte di un lavoro come fonte vitale, sia dal punto di vista della realizzazione personale, sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista delle relazioni interpersonali; che abbia per quanto possibile la capacità di valutare la ricaduta sulle persone delle proprie scelte, per evitare il più possibile quell’eterogenesi dei fini che sembra una caratteristica degli ultimi vent’anni (vedi come esempio il referendum del 1995 sull’art. 19 della legge 300): e questo si può fare quasi solo con l’autentico ascolto delle persone. Solo in questo modo si potrebbe ricostruire una coscienza di classe, non più operaia ma sicuramente lavoratrice nel senso più ampio, superando le apparentemente inconciliabili diversità dovute ai diversi status contrattuali dei lavoratori.

 

Difficile? Certo; ma penso che far sindacato seriamente non sia oggi e non sia mai stato facile, come del resto per qualsiasi seria organizzazione di popolo.

Mercoledì, 22. Giugno 2011
 

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