Lo sciopero di Mirafiori e il malessere del lavoro

Dietro la richiesta di andare in pensione prima possibile c'è sempre un lavoro poco gratificante e una percezione di sottoutilizzazione. Moltissimi continuerebbero volentieri a lavorare se le condizioni, anche dell'organizzazione sociale, fossero un po' migliori

A metà maggio i lavoratori di Mirafiori hanno scioperato per sollecitare il governo ad avviare con il sindacato un confronto negoziale  vero, serio e immediato in materia di pensioni e di misure per arginare la precarietà del lavoro.

La lotta degli operai del più grande stabilimento industriale del nostro paese ha avuto sui media una lettura e interpretazione principalmente politica. Poco si è approfondito, invece, il valore del messaggio e del merito sociale contenuti, anche implicitamente, in questa iniziativa.

Fra gli obiettivi dell’astensione dal lavoro spiccavano un più agevole (anticipato) accesso alla pensione d’anzianità rispetto allo “scalone” punitivo del 2008, soprattutto per i lavoratori operai “precoci” e addetti al  lavoro vincolato della catena di montaggio, considerato come particolarmente gravoso (usurante).

La mobilitazione di Mirafiori diffonde una potente eco nazionale, scevra di orpelli ideologici,  sulla mancanza di un giusto riconoscimento e di una adeguata tutela del lavoro operaio, salariato, non qualificato, talora manuale. Lavoro che non solo non è scomparso dalla manifattura né peraltro dall’edilizia, ma ha trovato linfa nel vasto e variegato settore del terziario, dove non operano unicamente le nuove e alte figure tecnico professionali, ma pure addetti a “semplici e spesso ripetitivi lavori “ di custodia, facchinaggio, pulizia,  del trasporto, della logistica, commerciali, di marketing, in campo finanziario, di cura.

Un’indagine condotta dalla FIM-CISL torinese pochi anni fa all’interno del gruppo FIAT, nel pieno della crisi di Mirafiori e dell'azienda, evidenziava che una buona maggioranza dei lavoratori intervistati riteneva che le proprie capacità e conoscenze professionali non erano giustamente riconosciute e conformemente utilizzate; inoltre rispondeva che il criterio più seguito per fare carriera era essere disponibile nei confronti del capo; e, infine, valutava la propria attività meno coinvolgente che stressante o faticosa e, ovviamente, tale da non consentire di aumentare le proprie competenze.

Queste opinioni e percezioni sono condivisibili da molti altri lavoratori, che operano nel tessuto economico torinese. Rappresentano un sentire carsico che, quando riemerge alla luce del sole, pare condensarsi e arroccarsi nella richiesta di una indilazionabile e precipitosa fuga anticipata dal lavoro con il pensionamento di anzianità; tra l’altro foraggiata negli ultimi decenni da una pratica di espulsione collettiva dalle fabbriche che ha individuato nei lavoratori più anziani gli esuberi di cui disfarsi.

Le prospettive di allungamento delle speranze di vita e di possibili nuove opportunità sociali non sembrerebbero suscitare positive reazioni. Eppure, scavando meglio fra di loro, non manca chi ha voglia di riscatto personale, coscienza della propria condizione esistenziale, interesse a scegliere se proseguire a lavorare o anticipare la pensione.

Ciò si delinea fra i cinquantenni, indagati tramite una recente stimolante ricerca dell’IRES Piemonte. Si tratta di “…donne e uomini coniugati che vivono in famiglie lunghe e strette dove il nido non è ancora vuoto: sotto lo stesso tetto abitano ancora i figli, sotto tetti diversi ma non lontani abitano i genitori, tuttora viventi in quasi il 60% dei casi e poco più in là i nipoti, che però sono pochi…”.  Due terzi sono occupati, soprattutto operai, impiegati e insegnanti. Il 55% è contrario ad allungare l’età lavorativa per legge (il 63% degli operai e il 54% degli insegnanti e impiegati). Il 41% sarebbe invece propenso a rimanere a lavorare, pur potendo scegliere la pensione, se il lavoro desse soddisfazione e fossero utilizzate al meglio le loro capacità; se ricevessero una retribuzione adeguata; se fossero rispettati dai più giovani e ci fosse un ambiente gradevole (più per le donne che per i maschi); se gli orari fossero più compatibili (più per le donne che per i maschi). Fra costoro influiscono la maggiore scolarità, le buone condizioni di salute e la capacità di curarsi, l’usufruizione di buone tutele sociali e di una efficace rete di solidarietà familiare; e, non ultima, una esperienza positiva  e arricchente vissuta di fronte ai cambiamenti organizzativi e tecnologici.

Insomma dentro e attorno all’ultimo sciopero a Mirafiori si agitano sentimenti più estesi di protesta e di disincanto, ma pure elementi di proposta e di disponibilità a soluzioni che rendano compatibili la sostenibilità economica oggettiva con la sostenibilità sociale soggettiva nell’affrontare il transito nel mezzo del cammino verso un nuovo progetto di vita.

D’altra parte anche a Mirafiori l’azienda ha già intrapreso delle azioni di miglioramento dell’ambiente di lavoro nella consapevolezza, recentemente espressa con chiarezza a Torino dall’amministratore delegato di FIAT Sergio Marchionne, che: “…Le performance aziendali dipendono in gran parte dalla qualità delle persone, dalla qualità della vita lavorativa, dai rapporti umani che si instaurano tra chi lavora insieme.”

Ecco che allora si impone il ritorno a una nuova liberalizzazione regolata dell’accesso al pensionamento, che, però, non può più essere disgiunta strategicamente dall’osmosi con politiche pubbliche e aziendali di conciliazione delle persone fra lavoro e famiglia, dall’offerta di più servizi pubblici e privati e di regimi di orario family-friendly; non tralasciando la formazione continua; e un sistema universale più efficace di protezione del reddito in caso di mancanza di lavoro.

Questo chiama in causa le scelte del governo che sono sul tappeto nel negoziato con il sindacato sul “dividendo fiscale”; tenendo presente che il nostro paese nel contesto europeo ha una spesa pubblica complessiva inferiore alla media UE15 e specificatamente in quella sanitaria, per invalidità, per le famiglie e la maternità, per gli ammortizzatori sociali, per la casa, per l’inclusione sociale; mentre eccede nelle prestazioni previdenziali per vecchiaia e ai superstiti; malgrado l’importo medio mensile delle pensioni erogate nel nostro territorio sia di 1.082 euro per i maschi (300.000 pensioni)  e 568 euro per le donne(425.000 pensioni).

Ma conta altrettanto la negoziazione delle condizioni retributive e di vita sui luoghi di lavoro e quella territoriale che si è aperta in questi ultimi anni e va intensificata con Regione Piemonte, Provincia  e comuni di Torino, a partire dal capoluogo, sugli strumenti del welfare e della fiscalità locale.

Giovedì, 7. Giugno 2007
 

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