L'Italia 'in frantumi' di Gallino

Le impietose analisi del sociologo torinese sui nuovi vizi del nostro capitalismo, ridotto a staccar bollette con i servizi pubblici invece di produrre ricchezza
Siamo di fronte a una "metamorfosi" che segnala una pur grave crisi di assestamento e la faticosa transizione verso una nuova architettura economica fondata sulla vitalità della piccola e media industria? O piuttosto viviamo la vigilia di un declino che fa temere l'eclissi dell'economia italiana e una sua possibile marginalizzazione dagli irreversibili processi della moderna globalizzazione?

Mentre dalla Bocconi di Milano e dalle colonne de La Stampa l'economista torinese Giuseppe Berta mette in guardia ogni tanto dal catastrofismo di certe forzature, il sociologo torinese Luciano Gallino è per la seconda ipotesi. E non solo per via dei cinesi e degli indiani: se vogliamo competere con loro siamo perduti, perché il lavoro dalle parti del comunismo capitalista costa 20-25 volte meno del nostro. Francesi, tedeschi, inglesi hanno costi del lavoro più alti del nostro, ma scommettono sull'innovazione di prodotto che migliora il rapporto tra qualità e prezzo, non solo sull'innovazione di processo per risparmiare capitale umano. Puntano sui brevetti e sulle tecnologie avanzate, mentre noi ci accontentiamo di vivacchiare sulle scarpe, sulle piastrelle e sui settori di nicchia. Stiamo peggio di tutti gli altri perché abbiamo rinunciato alla fatica di scegliere i settori da abbandonare e da sviluppare. Ma chi tira a campare prepara la propria agonia: in dieci anni abbiamo visto ridursi dal 4,6 al 3 per cento la quota italiana delle esportazioni mondiali.

C'era una volta la politica industriale. Ma tale nozione è sconosciuta a uomini di governo che accettano ogni intervento dello Stato o come il frutto di un'emergenza come l'influenza aviaria, o come il residuo di decrepiti e nocivi assistenzialismi che fanno dire al ministro Maroni - vittima di un eroico rigurgito anticapitalistico - di non voler aiutare la Fiat con nuova cassa integrazione. Quando si tratta di non lasciare per strada i lavoratori, il ministro teme lo spreco di preziose risorse, che vorrebbe più brillantemente destinare alle virtù espansive ed autoequilibratrici del mercato.

Ma il capitalismo italiano è diventato predatore, se mai è stato produttore. Finita l'informatica, abbandonata l'industria aeronautica, un ricordo l'elettronica di consumo, sgretolata la chimica, secondaria la siderurgia, boccheggiante l'automobile, l'imprenditoria italiana preferisce ricavare da bollette telefoniche e pedaggi autostradali quanto prima ricavava da pneumatici e magliette. Gli imprenditori lasciano i profitti che producono ricchezza e la distribuiscono con il self made man del rischio e dell'innovazione laboriosa. Considerano l'attività produttiva una fastidiosa appendice dell'attività finanziaria e, con sempre più frequenti sortite in imprese speculative, dimostrano di preferire il ritorno alla rendita e a quelli che, descrivendo la cronica debolezza della borghesia italiana, Valerio Castronovo ha chiamato "impieghi di riposo". Però, come i baroni che mandavano i loro soprastanti nelle piazze del sud ad assumere i braccianti a piacimento, anche i capitalisti italiani del terzo millennio si ingegnano a pagare la manodopera il meno possibile. Come spiega Bruno Trentin, la vogliono scegliere giovane, immediatamente usabile nei lavori meno qualificati, e perciò in ogni momento sostituibile.

Nel suo recente volume "Italia in frantumi", che raccoglie i suoi interventi su Repubblica fra il 2001 e il 2005, Gallino osserva che l'impresa efficiente non è quella dove la manodopera va e viene come in un porto di mare o perché mal pagata se qualificata, o perché mal pagata perché ricattata. Al contrario, l'impresa moderna è quella in cui il personale è una risorsa che va rispettata, valorizzata e addirittura progressivamente aggiornata.

Da qui deve passare il riformismo italiano: anche dalla redistribuzione del reddito. In Italia il 50 per cento della ricchezza è in mano al 10 per cento delle famiglie, mentre il 50 per cento delle famiglie possiede appena un decimo della ricchezza disponibile. E dati della Banca Mondiale dicono che nel 2002 "una sola persona tra le dieci più ricche del mondo aveva un patrimonio pari al doppio del prodotto annuo generato da 35 milioni di tanzaniani". Così va il mondo. La globalizzazione lasciata libera di seguire il suo corso spontaneo distribuisce disuguaglianze e non benessere. "Quando si arriva al punto in cui la metà del mondo guarda alla Tv l'altra metà che muore di fame, la civiltà è giunta alla fine". Visione un po' apocalittica e catastrofica. Ma chi è capace di smentirla?
 
Luciano Gallino
Italia in frantumi
Editori Laterza, Roma-Bari 2006, pp.188, euro 12
Venerdì, 24. Marzo 2006
 

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