L'incerto destino della contrattazione collettiva

In cambio di un'aleatoria contrattazione decentrata, gli accordi che hanno diviso le confederazioni sindacali comportano il ridimensionamento e, per molti versi, la destrutturazione del contratto nazionale. Il risultato è un indebolimento complessivo del sindacato e della contrattazione.

Qualche anno fa’ Mario Napoli scrisse che nel 1993 «senza concertazione non sarebbe nata la riforma della contrattazione collettiva» e richiamarlo serve già ad evidenziare le profonde differenze tra il Protocollo del ’93 e l’accordo quadro del 2009. Nel Protocollo, infatti, la coerenza tra politiche (e soggetti) contrattuali di diverso livello e tra contrattazione e concertazione costituiva il cardine di un sistema di relazioni industriali che – nel quadro della politica dei redditi – perseguiva gli obiettivi dell’equità nella distribuzione dei redditi, dello sviluppo economico e dell’occupazione.

Oggi, invece, la revisione della struttura contrattuale è stata realizzata con un accordo bilaterale, anziché triangolare. Che non si tratti di concertazione mi pare emerga chiaramente ove si considerino almeno due elementi: da un lato, l’esecutivo ha partecipato al negoziato solo quale datore di lavoro pubblico, tanto vero che non ha assunto alcun impegno a varare provvedimenti legislativi, nemmeno per incentivare i premi per obiettivi; dall’altro, sono state proprio e solo le parti sociali ad assumere l’impegno negoziale, non politico, di modificare la struttura della contrattazione collettiva - materia, peraltro, di loro esclusiva competenza, almeno nel settore privato. E non è privo di significato neanche il fatto che i sindacati confederali abbiano dichiarato di voler realizzare anche la riforma della rappresentanza tramite accordo, tanto più che oggi per il Governo – che già l’aveva programmaticamente escluso nel Libro Bianco –un intervento legislativo in materia non sembra prioritario.

Una ulteriore conferma di questa opinione, che non ravvisa alcuna triangolarità nell’accordo del 2009, potrebbe venire dal fatto che l’intesa è stata definita accordo ‘quadro’: un termine che rimanda comunque alla contrattazione collettiva – anche se del settore delle P.A., pure coinvolte nell’accordo - e che sembra utilizzato in questo caso per indicare solo l’ambito di riferimento più vasto ed inclusivo di questo accordo rispetto a quello di un normale accordo interconfederale.
D’altra parte, se alle sfide cui sono state sottoposte le relazioni industriali negli anni ’90 (la globalizzazione dell’economia, l’unione economica e monetaria europea ed il suo progressivo allargamento, l’innovazione tecnologica, le dinamiche demografiche ed i mutamenti del mercato del lavoro) si era cercato di fornire risposte adeguate praticando la concertazione e, per suo tramite, definendo la riforma del sistema contrattuale, nel nuovo decennio le relazioni industriali non potevano non risentire – oltre che dell’incertezza del quadro economico internazionale e dei possibili condizionamenti del processo di riforma in senso federale dello Stato - del mutato quadro politico.

Già dal 2001 negli orientamenti della compagine di centro-destra rientravano, infatti, l’abbandono della concertazione, un’ipotesi di modifica della struttura contrattuale che ne implicava un decentramento disorganizzato e, più in generale, il passaggio da politiche del diritto promozionali a politiche astensionistiche o limitative della tradizionale funzione protettiva del diritto del lavoro, con il connesso allargamento - diretto o indiretto - dei poteri unilaterali dell’imprenditore nell’amministrazione del rapporto di lavoro. Politiche, dunque, che presupponevano il contenimento delle organizzazioni collettive, la limitazione degli spazi per il metodo stesso delle relazioni industriali e l’allargamento dell’area della regolazione di mercato senza mediazioni istituzionali: politiche e indirizzi che non sembrano divergere da quelli dell’attuale governo. Ed è in questo difficile contesto che il negoziato sulla revisione del sistema contrattuale - aperto dai sindacati troppo tardi e con un governo che stava per cadere – è sfociato in un accordo separato.

Passando ai contenuti dell’accordo quadro e del successivo accordo interconfederale con Confindustria, le novità che questi accordi introducono in via sperimentale – e che sono programmaticamente comuni al settore pubblico e privato -  riguardano diversi aspetti del sistema:
- la riduzione e la razionalizzazione del numero dei contratti di categoria;
- la riduzione a tre anni della durata dei contratti che, con l’abolizione del rinnovo biennale, evita la sovrapposizione dei cicli negoziali nazionali e decentrati agevolando, almeno in astratto, lo svolgimento della contrattazione di secondo livello;
 - l’indicazione per una migliore definizione delle procedure negoziali e per il loro più rigoroso rispetto;
- il rafforzamento del  principio della tregua sindacale;
- la revisione della struttura contrattuale, delle funzioni dei due livelli e dei rapporti tra gli stessi, basati – per il momento – solo su raccordi oggettivi, essendo stata rinviata ad una successiva fase la negoziazione di nuove regole in materia di  rappresentanza;
- il ricorso a procedure di conciliazione ed arbitrato in caso di controversie applicative delle nuove regole, per garantire la ‘tenuta’ del sistema, soprattutto con riferimento alle competenze dei livelli contrattuali.

A quest’ultimo fine, in particolare, le parti hanno scelto di operare con gli strumenti dell’autonomia collettiva e di muoversi, quindi, nell’ottica dell’autorafforzamento del contratto collettivo. E’ questa la conseguenza più naturale della logica – già organicamente seguita dalla Commissione Giugni – secondo la quale il positivo andamento delle relazioni collettive è favorito dalla predisposizione di strumenti che privilegino ed antepongano il confronto al conflitto, sì da prevenirlo: anche se questa logica, per la verità, appare stridente in un accordo sulle regole separato.

Alcune delle novità che ho sinteticamente richiamato sono positive, ma nell’accordo gli elementi di criticità non mancano.
Come è noto, il negoziato sulla riforma del sistema contrattuale ha formalmente origine dalla vertenza avviata dalle confederazioni sindacali nell’autunno 2007 per rivendicare l’incremento delle retribuzioni. Tra gli strumenti da utilizzare a questo fine avevano un rilievo prioritario, sul piano della contrattazione collettiva, la modifica delle regole finalizzate a tutelare il potere d’acquisto delle retribuzioni stesse e la effettiva diffusione della contrattazione decentrata, soprattutto territoriale. Questa, infatti, può compensare l’assenza della contrattazione nelle piccole imprese – che sono la stragrande maggioranza della struttura produttiva del nostro paese –, consentendo quanto meno una più equa distribuzione della produttività.

Su questo punto, però, l’accordo quadro rinvia l’individuazione dell’ambito del secondo livello – e, dunque, l’eventuale ricorso alla contrattazione territoriale – a ‘specifiche intese’: una scelta formalmente inevitabile per una regola che deve essere declinata in relazione alle peculiarità settoriali. E, tuttavia, è evidente che l’accordo generale sarebbe stato la sede elettiva per affermare esplicitamente almeno il principio della necessaria effettività del secondo livello, in coerenza con l’obiettivo implicito nell’intesa di decentrare la contrattazione per diversificare i trattamenti di lavoro.

Va notato, però, che rispetto al Protocollo del ’93 manca nell’AQ il richiamo alle prassi esistenti come limite sia all’individuazione del secondo livello negoziale, sia all’estensione della contrattazione decentrata alle piccole imprese. E dunque la formula dell’AQ, secondo alcuni, non escluderebbe a priori la possibilità di estendere la contrattazione territoriale in supplenza di quella aziendale e, per di più, imporrebbe un obbligo a negoziare – anche se non a contrarre – al secondo livello a tutte le imprese cui il contratto di categoria è applicabile, anche a quelle di piccole dimensioni che prima non erano vincolate a svolgerla (Carinci).

Ma, pur se si accogliesse questa interpretazione, l’AQ non sarebbe comunque idoneo a produrre questo effetto almeno nel settore industriale, che poi è anche l’unico nel quale – con l’eccezione dell’edilizia - la contrattazione decentrata è sempre aziendale e, quindi, esclude le piccole imprese.
Infatti, l’accordo interconfederale con Confindustria (come già la pre-intesa del 10 ottobre), riprendendo il Protocollo del ’93, conferma innanzitutto che il secondo livello di contrattazione è «aziendale o alternativamente territoriale, laddove previsto, secondo l’attuale prassi, nell’ambito di specifici settori». È evidente che questa formulazione è un’indicazione di sostanziale chiusura a qualsiasi ipotesi di estensione della contrattazione decentrata territoriale, perché confina quest’ultima ai settori nei quali è già prevista e praticata, con la conseguenza di escludere l’esistenza stessa del secondo livello in vaste aree e settori produttivi.

Ma l’accordo interconfederale, sempre riprendendo il Protocollo del ’93, conferma pure che «il contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria definisce (…) gli ambiti di applicazione della contrattazione di secondo livello nello spirito dell’attuale prassi negoziale con particolare riguardo alle piccole imprese» (par. 2.3, 5° cpv): non saranno assoggettate al secondo livello negoziale, dunque, le imprese di piccole dimensioni finora escluse per prassi, salvo diverse soluzioni che possano essere introdotte dai contratti di categoria.

Per quanto riguarda la distribuzione delle competenze tra i livelli contrattuali, essa è basata ora sia su una clausola di non ripetibilità, che non è più limitata agli istituti retributivi, com’era nel Protocollo del ’93, ma è estesa a tutte le materie e gli istituti, com’era nel Protocollo Scotti del 1983; sia sul criterio della delega delle competenze del secondo livello  da parte del contratto nazionale o della legge.Da quest’ultimo punto di vista la sostituzione del criterio della ‘delega’ a quello finora utilizzato del ‘rinvio’ sembra configurare il rapporto tra i livelli contrattuali in senso più nettamente gerarchico rispetto al passato. Tale sostituzione potrebbe essere collegata, però, al richiamo esplicito alla legge come fonte di tali competenze, visto che la tecnica del rinvio legale alla negoziazione collettiva della competenza ad integrare o a derogare la disciplina posta dalla legge stessa è normalmente identificata con il termine di contrattazione delegata.

Resta da comprendere il perché di questo richiamo esplicito alla legge, già presente nella pre-intesa con Confindustria e confermata dal successivo A.I. Non si può non ricordare, in proposito, che in diversi provvedimenti legislativi questa tecnica è stata utilizzata dal legislatore senza tener conto dei rapporti di competenza esistenti tra i livelli negoziali, al fine di agevolare il decentramento e la diversificazione delle discipline rinviate, anche a rischio di disarticolare la struttura contrattuale. Un rischio che le parti sociali hanno in diverse occasioni provveduto ad arginare riconducendo alle specifiche regolamentazioni di categoria in materia di assetti contrattuali – ed ai raccordi oggettivi e soggettivi in esse previste – le competenze rinviate dalla legge ai contratti collettivi senza alcun coordinamento (così l’A.I. sui contratti di inserimento dell’11.2.2004 e gli accordi interconfederali del settore artigiano del 2004 e del 2006).

Il richiamo alla fonte legislativa contenuto nel nuovo accordo appare finalizzato, dunque, a garantire la contrattazione decentrata sulle materie rinviate dalla legge, anche a rischio di una disarticolazione della struttura contrattuale. Non a caso Cella e Treu rilevano che il contratto decentrato si è trasformato in un possibile ‘cavallo di Troia’ per la destrutturazione del sistema contrattuale.

Nelle intese non c’è – com’è ovvio – nessuna indicazione specifica sulle materie e gli istituti da ‘delegare’ al secondo livello, per non incrinare la necessaria autonomia della contrattazione interconfederale di categoria e, soprattutto, per non ingessare il modello. E, dunque, sia il criterio di distribuzione delle competenze, sia il grado effettivo di decentramento indotto dal nuovo modello contrattuale potrà essere compiutamente valutato, per questo profilo, solo alla luce della disciplina che sarà dettata in materia dai singoli contratti nazionali e, soprattutto, della effettiva diffusione della contrattazione decentrata.

Tuttavia, un elemento fondamentale di giudizio è costituito dalla definizione del ‘peso’ relativo dei due livelli in materia di retribuzione: e a questo l’AQ e l’A.I. provvedono. La competenza fondamentale del contratto nazionale di categoria in materia di retribuzione è quella della tutela del potere d’acquisto delle retribuzioni. Sull’efficacia del nuovo sistema è difficile pronunciarsi, tanto più senza averne le necessarie competenze economiche. Desta, però, perplessità la scelta di depurare il nuovo indice della c.d. inflazione importata e, in particolare, (esclusivamente) della componente energetica. E’ vero che questa esclusione sarebbe sostanzialmente una conferma di quanto già previsto dal Protocollo del ’93, che menzionava le ‘ragioni di scambio’ tra i criteri di orientamento per l’adeguamento delle retribuzioni. Ma nel frattempo lo scenario è completamente cambiato, perché ormai l’aumento – o la riduzione - dei costi dell’energia investe tutta l’Europa e il mercato ruota intorno alle stesse regole per tutti gli stati membri, nei quali vige la moneta unica.
E poi va rilevato che il sistema distribuisce in modo comunque scarsamente equo i vantaggi a gli svantaggi connessi a tale aumento. Del contenimento delle retribuzioni, infatti, beneficeranno tutti i datori di lavoro, indipendentemente dal se e dal quanto utilizzino prodotti energetici importati o siano gravati dagli effetti diretti e indiretti dell’aumento del loro prezzo; i lavoratori, invece, subiranno due volte tali effetti: in termini di prezzi, come utenti/consumatori, e in termini di mancato adeguamento del potere d’acquisto della retribuzioni, come lavoratori.

E questo tanto più che il nuovo accordo – a differenza di quello del ’93 – non è collocato nel quadro della concertazione della politica dei redditi e, quindi, non può prevedere alcun sistema di controllo di altre tipologie di reddito, dei prezzi, delle tariffe e così via. Una minore tutela del potere d’acquisto delle retribuzioni potrebbe derivare, poi, anche dal recupero salariale dei soli scostamenti ‘significativi’ tra inflazione reale e prevista, oltre che dalla cadenza più diluita – triennale e non più biennale – dell’adeguamento delle retribuzioni all’inflazione determinata dalla modifica della durata dei contratti. E, ancora, si dovranno valutare gli effetti derivanti dalla definizione della base di computo sulla quale applicare il nuovo indice previsionale, rinviata alle intese di settore.
In definitiva, la tutela del potere d’acquisto delle retribuzioni ed il ruolo del contratto di categoria in materia sembrano ridimensionati dalla nuova disciplina, a maggior ragione se si tiene presente il ruolo sia del soggetto terzo nella definizione dei tassi di inflazione, sia del livello interconfederale nella valutazione sulla esistenza e sulla significatività degli scostamenti rispetto all’inflazione reale.
Sempre al contratto nazionale, però, è stata riconosciuta anche una funzione – più che nella distribuzione della produttività (che peraltro il Protocollo del ’93 prevedeva) -nell’incentivazione della contrattazione decentrata.

Per favorire la ‘effettività della diffusione della contrattazione di secondo livello’, infatti, l’accordo quadro rinvia ai contratti di categoria successivi la facoltà di definire un elemento economico di garanzia (o un altro istituto analogo) da riconoscere – si dovrebbe intendere – ai lavoratori dipendenti da aziende nelle quali non si esercita la contrattazione di secondo livello. Questo rinvio è quanto mai ampio, salvo che per l’indicazione relativa alle condizioni e alla misura di tale elemento, che devono essere concordate «nei contratti nazionali con particolare riguardo per le situazioni di difficoltà economico-produttiva»: in altre parole, si direbbe che l’importo debba essere contenuto, in modo che anche le imprese che si trovino in tali situazioni possano sostenere il costo.

Il problema è che tutte la imprese che non si trovino in condizioni di difficoltà, erogando questo importo – e sostenendo, quindi, un aumento limitato o addirittura nullo del costo del lavoro, a seconda dell’andamento dei parametri produttivi aziendali – possono evitare la contrattazione decentrata, sia pure a costo di non usufruire degli incentivi legislativi.
Va notato, poi, che l’accordo interconfederale con Confindustria sottopone il diritto a tale erogazione anche alla condizione che i lavoratori interessati (cioè dipendenti da aziende nelle quali non si esercita la contrattazione di secondo livello) non percepiscano «altri trattamenti economici individuali o collettivi oltre a quanto spettante per contratto nazionale(…) con riferimento alla situazione rilevata nell’ultimo quadriennio». L’eventuale accordo individuale per la corresponsione di una voce retributiva ulteriore rispetto a quelle previste dal contratto nazionale ovvero le elargizioni, individuali e collettive, discrezionalmente decise dal datore di lavoro – e, in entrambi i casi, indipendentemente dall’entità (anche minima) dell’importo e dal titolo dell’attribuzione – possono determinare così, in una situazione in cui già è assente la contrattazione di secondo livello, anche l’inapplicazione di questa parte del contratto nazionale, riducendo ulteriormente la già limitata funzione di quest’ultimo, e della contrattazione collettiva tout court, in materia di retribuzione. Insomma, anche questa funzione del contratto nazionale in materia di retribuzione non sembra rilevante e l’elemento di garanzia non appare adeguato a favorire l’effettiva diffusione della contrattazione di secondo livello.

Quanto alle competenze in materia di retribuzione del contratto decentrato, l’AQ (che anche su questi profili riprende la pre-intesa con Confindustria) e l’A.I. confermano quella relativa ai premi di risultato o per obiettivi. I due accordi, però, introducono diverse previsioni al fine di incentivare la diffusione di queste voci retributive nei contratti decentrati e questo (oltre a quanto si è più sopra osservato a proposito delle clausole dell’A.I. Confindustria sull’ambito della contrattazione decentrata) significa evidentemente che essi non riconoscono «un vero e proprio diritto all’apertura della trattativa per l’istituzione del premio di produzione in ciascuna azienda in cui il nuovo sistema si applicherà» come, invece, qualcuno ha sostenuto (Ichino).

La misura più importante di incentivazione della contrattazione in materia consiste nell’incrementare, rendere «strutturali, certe e facilmente accessibili» le misure di decontribuzione e di detassazione in vigore. Questa misura, però, non è nella disponibilità delle parti – che si limitano, infatti, a sottolinearne la necessità – ed è a carico del bilancio pubblico, e non delle imprese. Nessun impegno esplicito in questo senso, peraltro, è stato assunto dal Governo nell’accordo, essendo quest’ultimo presente al tavolo solo in veste di datore di lavoro. E resta da vedere, poi, se l’eventuale nuovo provvedimento legislativo in materia continuerà a consentire l’estensione dell’incentivo – che il Protocollo sul Welfare riservava ai soli aumenti salariali legati alla produttività determinati dai contratti aziendali – anche agli aumenti ed ai premi individuali concessi unilateralmente dal datore di lavoro privato in relazione ad incrementi di efficienza organizzativa, competitività, ecc., con quel che ne conseguirebbe ancora una volta in termini di depotenziamento del ruolo del sindacato e della contrattazione collettiva: questo sarebbe, infatti, un ulteriore e chiaro segnale di labour exclusion, come hanno notato anche Cella e Treu.

Positiva quanto ai destinatari è poi la clausola dell’AQ (prevista anche nella pre-intesa con Confindustria) programmaticamente diretta a favorire lo sviluppo della contrattazione decentrata dei premi nelle piccole e medie imprese, alla quale si aggiunge, nel solo A.I. Confindustria, anche la clausola che mira ad incentivare la contrattazione territoriale dei premi attraverso la determinazione di «criteri di misurazione della produttività, qualità, ecc., sulla base di indicatori assunti a livelli territoriale con riferimento alla specificità di tutte le imprese del settore». Queste clausole, però, sono poco pregnanti e innovative nel contenuto, in quanto sostanzialmente rinviano alla contrattazione la definizione di linee guida o modelli di premio variabile: nulla che non si potesse fare o che non si già stato fatto in diversi contratti nazionali e territoriali anche in mancanza dell’accordo quadro.

Ancora in relazione al profilo della incentivazione della contrattazione decentrata c’è poi da segnalare una delle maggiori novità dell’intesa e, cioè, la formalizzazione delle c.d. clausole di uscita. L’accordo quadro, infatti, riconosce agli accordi territoriali e aziendali la facoltà di derogare il contratto nazionale, rinviando a ‘specifiche intese’ la definizione delle «procedure, modalità e condizioni» per l’introduzione di tali clausole. Tale facoltà di deroga è estremamente ampia quanto alle finalità di perseguire, cioè «governare, direttamente nel territorio o in azienda, situazioni di crisi e (…) favorire lo sviluppo economico ed occupazionale»; al contenuto, in quanto possono essere modificati «in tutto o in parte (…) singoli istituti economici o normativi dei contratti collettivi nazionali di lavoro di categoria»; alla durata, visto che le deroghe possono essere introdotte «anche in via sperimentale e temporanea» e, dunque, anche in via definitiva.

E’ da notare, tuttavia, che nell’accordo quadro vi sono almeno due differenze sostanziali rispetto (alla pre-intesa e) all’ A.I. con Confindustria che, sul punto, è certamente più condivisibile. Infatti, da un lato, l’AQ amplia la facoltà di deroga ai contratti aziendali, anziché solo a quelli territoriali; dall’altro, e soprattutto, non contempla le previsioni secondo le quali «la facoltà di modificare è esercitabile sulla base di parametri oggettivi individuati dal CCNL» e «in ogni caso le intese devono essere approvate dalle parti stipulanti il CCNL».

Queste ultime erano tra le condizioni più rilevanti che anche la Commissione Giugni, nel proporre l’introduzione delle clausole di uscita, aveva indicato per garantire il raccordo tra politiche contrattuali di diverso livello e, ancor più in particolare, per confermare che il ruolo di governo del sistema contrattuale e del decentramento doveva rimanere saldamente affidato ai soggetti negoziali nazionali e, dunque, al contratto nazionale. L’eliminazione di queste condizioni nell’AQ indebolisce, dunque, le funzioni del contratto di categoria: sia quella normativa, - pure confermata con enfasi nell’AQ; sia quella di governo del decentramento contrattuale, riducendo così la coesione degli assetti negoziali.In definitiva, ed a considerarli complessivamente, non sembra che gli incentivi previsti siano in grado di invertire la situazione di scarsa diffusione della contrattazione decentrata, salvo che – eventualmente - di quella in deroga.

Per concludere, qualche osservazione sul modello di struttura contrattuale. In generale, e innanzitutto, emerge un ruolo piuttosto rilevante del livello interconfederale: in materia retributiva, ma anche di monitoraggio, analisi e raccordo delle nuove regole sul sistema contrattuale e, infine, di ‘interessamento’ nei casi di crisi dei negoziati. Quanto al contratto nazionale, la funzione normativa – pur formalmente confermata - risulta indebolita dall’assenza di un coordinamento nazionale della contrattazione in deroga e ridimensionata in materia di retribuzione. Sotto il profilo della tutela del potere d’acquisto delle retribuzioni il ruolo del contratto di categoria è ancora incerto - essendo necessario almeno attendere che ne siano definite le modalità applicative, la base di calcolo retributiva, ecc. - e, comunque, condiviso con un soggetto terzo e con la sede paritetica interconfederale, mentre in materia di produttività – o, più precisamente, di elemento economico di garanzia - appare non solo inferiore rispetto a quello che prevedeva il Protocollo del ’93, ma anche nebuloso, se non potenzialmente negativo, per lo svolgimento effettivo della contrattazione decentrata e, dunque, dell’equità nella distribuzione del reddito.

È stata, invece, confermata la funzione del contratto nazionale – ma di nuovo insieme a quello interconfederale - nella regolazione del sistema di relazioni industriali a livello nazionale e decentrato, anche se questa appare ‘insidiata’ dalla potenziale concorrenza (anche sleale?) della legge nella determinazione delle competenze delegate al secondo livello contrattuale.
Quanto alla diffusione ed al ruolo del secondo livello, va richiamata, da un lato, l’assenza nelle intese di un impegno diretto e formale dei datori di lavoro ad estendere il secondo livello negoziale, soprattutto territoriale, impegno che avrebbe potuto controbilanciare il rafforzamento del livello interconfederale e il ridimensionamento di quello nazionale di categoria; dall’altro, l’introduzione di diversi incentivi – sia pure aleatori - all’estensione del secondo livello contrattuale. I due accordi favoriscono, dunque, «un maggior peso economico della contrattazione decentrata» (Carrieri), anche se solo ove questa si svolga.

L’ultimo elemento del quale tener conto per valutare il modello di struttura contrattuale riguarda le clausole di non ripetibilità e di delega delle competenze, che fanno apparire la distribuzione di queste ultime tra i due livelli in bilico tra il criterio funzionale e quello gerarchico.
Insomma, il punto di equilibrio raggiunto nel negoziato tra le posizioni delle parti che emerge dall’accordo quadro e dall’accordo interconfederale è piuttosto confuso, perché il modello contrattuale appare più decentrato in prospettiva e, contemporaneamente, più centralizzato di quello del Protocollo, senza che vi sia una scelta chiara sul criterio che deve governare la distribuzione delle competenze tra i livelli.

A determinare questo esito ha probabilmente contribuito il fatto che questi accordi non sono collocati nel quadro della concertazione della politica dei redditi. Questo riporta integralmente la materia degli assetti contrattuali nell’area dell’autonomia collettiva e, quindi, del conflitto (Bavaro, Scarpelli). Non è un problema, perché attraverso il conflitto emerge il compromesso sul quale può convergere il consenso, che è l’unico elemento necessario per cambiare la struttura contrattuale, come ci ha ricordato Cella in una fase meno problematica dell’attuale e come ha poi sottolineato Ciampi. Solo che quello di gennaio è un accordo separato e, quindi, fragile. Dal punto di vista giuridico, le clausole in esso contenute hanno mera efficacia obbligatoria, cioè vincolano solo i soggetti che l’hanno sottoscritto. Dunque, la contrattazione collettiva – per coinvolgere anche la Cgil - dovrebbe proseguire secondo le vecchie regole. Se si volessero applicare le nuove, invece, i contratti collettivi potrebbero non essere sottoscritti dalla Cgil, né approvati nelle assemblee dei lavoratori, per lo meno nei settori produttivi e nelle aziende nelle quali questa confederazione ha la maggioranza degli iscritti.

Senza dimenticare che, indipendentemente da quali possano essere nei singoli casi i sindacati non firmatari, c’è il problema dell’efficacia soggettiva degli accordi separati, soprattutto se concessivi. Un problema che fa emergere l’esigenza di contrastare le iniziative contrattuali separate quale motivazione principale della richiesta di una legge sulla rappresentatività, come ancora hanno sottolineato Cella e Treu. In ogni caso, non credo che questa possa essere l’occasione da cogliere per verificare gli effetti positivi della concorrenza tra due modelli di sindacato e di azione sindacale, seguendo la proposta avanzata qualche anno fa’ da Ichino. Mi sembra, piuttosto, che un’intesa separata sulle regole del conflitto – cioè sulle regole di governo della contrattazione collettiva e dei rapporti sindacali – possa innescare un conflitto sulle regole che, oltre a molti altri esiti incerti, determina con certezza l’indebolimento di tutti i sindacati, della contrattazione collettiva e, complessivamente, delle relazioni industriali. È certamente più conveniente impegnarsi nella ricerca di un consenso finalmente ed efficacemente unitario.

Venerdì, 5. Giugno 2009
 

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