L'Europa e le delusioni di un federalista

La costruzione europea sta subendo un'involuzione che, prima che a livello istituzionale, è nella percezione delle persone. Trent’anni dopo gli entusiasmi delle prime elezioni a suffragio universale manca totalmente una visione del futuro e dell'urgenza di ripensare l'Unione attraverso la sua molteplicità

"Les historiens de l'avenir seront stupéfait du temps qu'il nous a fallu
pour comprendre la nécessité d'une Europe unie" (Alexandre Marc)

Da europeista e federalista europeo non posso che sentire forte la
preoccupazione per l'involuzione che la costruzione europea sta subendo,
prima che a livello istituzionale, nella percezione delle persone.Eppure
la crisi globale dovrebbe spingerci a riapprofondire l'orizzonte di
senso che, dopo la seconda guerra mondiale (o meglio
durante, se consideriamo il Manifesto di Ventotene di Spinelli e
Rossi) ha spinto i padri fondatori dell'Unione Europea a dare corpo al
primo (incompiuto) esperimento di democrazia transnazionale al mondo.

Per alleviare lo sconforto di queste settimane ho ripensato alle
precedenti elezioni europee, quelle del 2004, dell'allargamento.
In quei giorni stavo ultimando sul campo la mia tesi di laurea che si
concentrava su alcune aree della Bosnia Ervegovina, in particolare
rispetto al tema della cooperazione decentrata e della ricostruzione
del tessuto multinazionale e multireligioso in territori fortemente
colpiti dalla guerra.

Prijedor nella parte serba di Bosnia, ex buco nero d'Europa era anche
la città che, pur con evidenti problemi, era simbolo del ritorno e di
un faticoso, ma reale, recupero di una dimensione plurale. I cittadini
di Prijedor, Bosnia Erzegovina, decidettero di votare anche loro
per le europee, in quel giugno 2004. Pur non avendone diritto.
Decisero di scrivere “Anch’io cittadino d’Europa”, nei
diversi alfabeti latino e cirillico, sulla scheda elettorale. Era un
modo originale di ricordare che anche i Balcani erano (sono) parte
d’Europa. L'affluenza di queste elezioni simboliche superò quella di
diversi nuovi stati che, controvoglia, votavano per la prima volta i loro
rappresentanti al Parlamento Europeo.

In quei giorni, in quel "luna park triste" che, almeno allora
continuava ad essere buona parte della Bosnia Erzegovina, capitava
spesso, tra una grappa e l'altra, di osservare gli occhi delle
persone. Anche nel sorriso più bello e più profondo non si potevano
ignorare i segni di ciò che, su vari (e a volte mobili) fronti le persone
 avevano sofferto durante la guerra.

Devo essere sincero, in questi anni anch'io ho dimenticato spesso
quegli occhi, quelle schede, quelle sensazioni di ostinata, pur se a
volte contraddittoria, speranza. Una speranza umana, ma anche politica.

Ho ripensato a Prijedor quest'inverno a Strasburgo. Faceva freddo,
come in Bosnia, d'inverno, e fu durante la manifestazione presso
il Parlamento Europeo della Confederazione Europea dei Sindacati
contro l'estensione indiscriminata dell'orario di lavoro attraverso
la revisione della relativa Direttiva. Operazione che i sindacati europei,
 insieme al Parlamento Europeo, hanno (finora)saputo contrastare
efficacemente.

Nel momento in cui percepivo l'utilità dell'Europa, di un'Europa
sociale e, si spera, un giorno federale, ho rivisto come in un film i
tunnel della miniera di ferro vuoti e che erano serviti da fosse
comuni, ma anche i campi di fragole delle cooperative di donne
musulmane che avevano ricominciato a frequentare il mercato della
città e ad avere clienti serbi.

Purtroppo in questi giorni, in queste settimane, le elezioni europee,
innegabilmente anche a causa dei fallimenti dei tentativi di riforma
dell'Unione di questi anni, sono  tuttalpiù l'occasione di qualche
regolamento di conti interno ai vari partiti. O di qualche slogan che,
di fronte alla deriva egoista e xenofoba, non può che apparire vuoto
e poco convinto.Trent’anni dopo gli entusiasmi delle prime elezioni
a suffragio universale sono annegate nella sfiducia dell'abitudine.
Manca totalmente una visione del futuro e dell'urgenza di ripensare
l'Europa attraverso la sua molteplicità.

Ma ripensando agli occhi di Prijedor viene
alla mente un passo di Raymond Queneau, tratto da I fiori blu.
"All'indomani le acque s'erano ritirate nei letti e ricettacoli
consueti e il sole era già alto sull'orizzonte, quando il Duca si
svegliò. Si avvicinò ai merli per considerare un momentino la
situazione storica. Uno strato di fango ricopriva ancora la terra,
ma qua e là piccoli fiori blu stavano già sbocciando".

Francesco Lauria


 

Venerdì, 5. Giugno 2009
 

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