La creazione della moneta unica è stato un grande successo, ma il prevalente disegno liberista - e l'equazione sbagliata "più protezione = meno crescita - hanno di fatto bloccato il processo. Che potrà riprendere solo armonizzando le politiche economiche e sociali, e non solo quella finanziaria
La crisi o per lo meno la situazione di stallo in cui versa il processo d'integrazione europea segnala e comunque esprime l'esito dell'indebolimento di tre ordini di motivazioni o circostanze che sono dirimenti per sostenere quel processo: la spinta emotiva e passionale per passare ad una cittadinanza non solo nazionale ma anche europea; la convinzione che in ciò vi sia anche una convenienza economica; il dispiegarsi di un disegno politico idoneo al raggiungimento dell'obiettivo.
Il dibattito sul "Modello sociale europeo", sulla sua natura e sul ruolo nella costruzione dell'integrazione continentale coinvolge in misura intensa come poche altre questioni tutti e tre i livelli sopra ricordati e rappresenta un momento centrale per capire e per cercare di rimuovere gli ostacoli alla ripresa del progetto europeistico.
Lo Stato sociale, pur nella molteplicità dei percorsi e dei risultati che hanno diversificato le esperienze nazionali europee, rappresenta infatti il risultato di spinte sociali, economiche e politiche che in vario modo si sono confrontate e integrate, dando luogo ad istituzioni che, a loro volta, hanno positivamente e significativamente influenzato i più complessivi equilibri sociali economici e politici dei singoli paesi europei e, nel loro insieme, li caratterizzano rispetto al resto del mondo.
Nel percorso di definizione e consolidamento del "Modello sociale europeo" si evidenziano degli aspetti potenzialmente contraddittori che vanno subito sottolineati poiché, se non attentamente valutati, potranno condizionare negativamente il dibattito e le scelte relativi non solo a quel percorso, ma anche al più complessivo processo d'integrazione.
Da un lato, lo sviluppo maggiore mediamente avuto dai sistemi di welfare nei paesi del nostro continente è una peculiarità rilevante che ci contraddistingue, che costituisce un tratto significativo della "Nazione europea" e dunque è da valorizzare. D'altro lato, i sistemi di welfare affermatisi in Europa fanno riferimento a modelli diversi; essi affondano le loro radici nelle tradizioni economiche, sociali, politiche e culturali delle rispettive esperienze nazionali le quali non possono essere né ignorate né sottovalutate.
I percorsi specifici che nella generalità dei paesi europei hanno portato ad una comune presenza più radicata ed estesa dei sistemi di welfare sono parte integrante delle rispettive storie economiche, sociali e politiche e contribuiscono a definire le peculiari esperienze degli Stati nazionali. I quali costituiscono parte fondante della storia europea la quale, dunque, non potrà essere negata o trascurata, ma integrata e per certi aspetti valorizzata nel processo di definizione di una cittadinanza europea.
Uno dei successi indubitabili del percorso fin qui fatto dal progetto d'integrazione europea è stata la creazione dell'euro, che ha determinato un'area valutaria comune di dimensioni economiche superiore a quella del dollaro, cioè di quella che da oltre mezzo secolo rappresenta la valuta dominante e di riferimento degli scambi internazionali, con tutti i vantaggi che da tale posizione discendono. Allo stesso tempo, questo successo rappresenta anche il limite del percorso europeo fin qui fatto e contraddistingue anche il suo carattere liberista che ha individuato essenzialmente nel mercato, in particolare nella sfera monetaria e finanziaria, la dimensione unificante.
In sintonia con il carattere del contemporaneo e più esteso fenomeno di globalizzazione dei mercati, le modalità adottate per accelerare l'integrazione europea hanno generato un'evoluzione asimmetrica dei ruoli di Stato e mercato, alterando i preesistenti e già precari equilibri tra le loro sfere d'influenza territoriale. Il consolidamento del mercato unico europeo, operato con la creazione di una moneta unica e della Banca Centrale Europea, non accompagnato (e finora nemmeno seguito) da un rafforzamento a livello continentale delle istituzioni, ha comportato, tra l'altro, la diminuita capacità di queste ultime d'interagire con il mercato. I limiti o "fallimenti" del mercato, peraltro ben evidenziati dalla stessa teoria economica liberale, nonostante il contesto di quasi monopolio ideologico e politico neoliberista venutosi a determinare a partire dagli anni '80 del secolo scorso, sono stati accentuati proprio dall'indebolimento relativo del ruolo economico delle istituzioni. Oltre al netto peggioramento dell'equità distributiva e all'incremento delle tensioni sociali associate al crescere dell'instabilità economica e della precarietà del lavoro e dei redditi, il consolidamento del mercato europeo si è accompagnato ad un peggioramento anche delle performance economiche dei paesi dell'Unione, in primis della crescita.
Non c'è dunque da stupirsi che sia la spinta emotiva, sia il perseguimento della convenienza economica, elementi entrambi necessari a sostenere il progredire dell'unificazione europea, abbiano riscontrato un brusco rallentamento, determinando l'arresto del suo disegno politico sancito dagli esiti referendari.
Per rimuovere gli ostacoli che hanno bloccato il processo d'integrazione europeo e tutte le potenzialità di avanzamento degli equilibri sociali, economici e politici che sono connesse a quel progetto, è necessario riavviarlo su basi nuove e meno anguste di quelle adottate finora sotto l'influenza della visione neoliberista (e di un asfissiante burocraticismo applicativo) . La rivalutazione del ruolo delle istituzioni e, in particolare, di quelle che sostanziano il "Modello sociale europeo" dovrebbe costituire l'asse della ripartenza del progetto di consolidamento dell'Unione Europea.
Tuttavia, la più recente evoluzione della Strategia di Lisbona - che quando fu varata sembrò delineare una compensazione e un riaggiustamento significativi rispetto alla "Logica di Maastricht" - segnala un ripensamento da parte della Commissione rispetto agli obiettivi e all'impostazione stabiliti nel 2000 nella capitale portoghese. Dopo le delusioni per la mancata ripresa che ha caratterizzato la generalità dei paesi membri dell' Unione e gli scarsi risultati ottenuti rispetto sia agli obiettivi dell'innovazione sia a quelli sociali, la visione che sembra riaccreditarsi è quella che tra la crescita economica e le istituzioni del welfare individua più elementi di trade-off che di complementarietà.
Questa inversione di rotta è però ingiustificata; anzi appare paradossale se collegata alle delusioni prima accennate circa le performance economico-sociali dei paesi dell'Unione.
Questa inversione di rotta è però ingiustificata; anzi appare paradossale se collegata alle delusioni prima accennate circa le performance economico-sociali dei paesi dell'Unione.
Negli ultimi due decenni, caratterizzati dall'integrazione sovranazionale dei mercati e dall'affermazione dello "spirito di Maastricht" come criterio guida per l'integrazione europea, la riduzione dei tassi di crescita, il calo e la crescente instabilità e precarietà dell'occupazione, l'aumento delle diseguaglianze e, a volte, anche della povertà, l'accentuarsi dell'insicurezza dei redditi sono tutti elementi che nella generalità dei paesi europei non hanno ridotto, ma anzi hanno rafforzato strutturalmente, da un lato, le motivazioni originarie e, dall'altro lato, i costi del welfare State. Quelle motivazioni, peraltro, non sono legate solo all'esigenza di attenuare le carenze e le contraddizioni sociali, ma anche al tentativo di ridurre il loro impatto negativo sulla crescita economica e, più in generale, di compensare i limiti d'efficienza del mercato. D'altra parte, la letteratura economica sulle verifiche empiriche delle relazioni esistenti tra la crescita economica e lo sviluppo istituzionale e finanziario del welfare, non conferma la tradizionale posizione liberista del trade-off che vede nel secondo un elemento di freno per la prima.
Le politiche sociali, se ben disegnate e integrate con le politiche industriali e finanziarie, possono esercitare effetti positivi sulla crescita, stimolando lo sviluppo e la diffusione di capitale umano (istruzione e formazione professionale, cura della salute) e la creazione di reti di sicurezza (ammortizzatori sociali, pensioni, assistenza sanitaria, servizi sociali ) capaci di stimolare e favorire l'assunzione da parte delle imprese e dei lavoratori dei rischi connessi all'intrapresa di processi produttivi innovativi. L'innovazione sostiene la competitività di qualità e consente di rimanere nella fascia alta della divisione internazionale del lavoro, ovvero mette al riparo dalla concorrenza che solo nei settori più maturi può essere esercitata dai produttori emergenti i cui costi di produzione sono resi competitivi da salari e oneri sociali incomparabilmente inferiori.
L'innovazione dei sistemi produttivi dipende naturalmente anche e significativamente dal complesso delle politiche economiche e dal contesto infrastrutturale; ma il ruolo delle politiche sociali non è secondario. Esse non costituiscono un lusso che i paesi ricchi possono permettersi, ma uno dei fattori che hanno contribuito a creare la loro ricchezza.
Gli squilibri tra mercati e istituzioni generati dall'integrazione sopranazionale dei mercati che ha caratterizzato anche il processo d'integrazione europeo, unitamente alla loro interpretazione neoliberista, rischiano di favorire anche tra i paesi dell'Unione una corsa al ribasso delle condizioni salariali e sociali finalizzata ad un illusorio contenimento dei costi di produzione; questi, comunque, non potrebbero mai arrivare ad essere comparabili con quelli dei paesi emergenti.
Invece, il conseguente indebolimento dello Stato sociale e delle sue possibilità di contribuire all'innovazione avrebbe l'effetto di minare il circolo virtuoso: politiche sociali ben disegnate che interagiscono positivamente con le politiche e i processi innovativi - aumento della competitività sul più efficace piano della qualità - maggiore crescita economica, delle condizioni sociali e delle stesse possibilità di finanziare le politiche sociali.
Condizione centrale perché quel circolo virtuoso possa continuare ad affermarsi in Europa - senza invece cadere nella trappola della corsa al ribasso e del declino economico e sociale che ne conseguirebbe - è un accresciuto e più efficace ruolo delle istituzioni all'interno dell'Unione, a cominciare da quelle che regolano le politiche fiscali e dello Stato sociale. Tale ruolo può essere costruito, come pure si è iniziato a fare, a partire dal coordinamento delle politiche nazionali. La consapevolezza del legame più ancestrale delle politiche sociali e fiscali con le storie nazionali dei paesi membri può spingere a prudenza nei tempi e nei modi di un più sostanziale processo d'integrazione, ma comunque dovrebbe essere sventato il rischio che differenze impositive e contributive molto elevate possano innescare fenomeni di dumping sociale all'interno dell'Unione. In ogni caso, la costruzione europea - che a livello di mercato è riuscita nell'ambizioso intento della creazione di una moneta e di una banca centrale unica - non può continuare a marcare ritardi asimmetrici negli altri e non meno rilevanti settori della politica economica e sociale.
Come si accennava all'inizio, tra le condizioni per la ripresa del processo d'integrazione europeo c'è anche il dispiegarsi di un idoneo disegno politico. Il riequilibrio tra mercato e istituzioni con gli effetti positivi che ne deriverebbero sugli equilibri economici e sociali, l'attento bilanciamento tra il rispetto delle tradizioni nazionali e la valorizzazione di elementi di storia comune come il welfare State potrebbero sostanziare un progetto politico progressista di costruzione dell'Europa. L'alternativa a questo tipo di progetto non è data solo dal possibile consolidarsi dell'attuale situazione di stallo e dalla regressione rispetto agli stessi risultati raggiunti. Lungo questa strada, anche un rovinoso recesso dalla partecipazione alla moneta unica, per quanto di difficile attuazione e decisamente non auspicabile, non è un esito da escludere.
Tuttavia, non va sottovalutata anche un'altra possibilità, cioè l'affermarsi di un disegno politico europeista di destra, che alla supremazia della logica di mercato potrebbe, sì, aggiungere istituzioni europee, ma essenzialmente tese a conciliare e difendere gli interessi prevalenti delle borghesie nazionali (non necessariamente i più avanzati) ammantati da neo nazionalismo europeo e ideologie neo-con, da comportamenti populisti all'interno e pericolosamente spavaldi verso l'esterno. Si può immaginare che a seguito di un esito infausto della prossima scadenza elettorale, anche il nostro paese potrebbe dare il suo contributo di interessi e di personale politico a questo disegno.
Venerdì, 24. Febbraio 2006