Legge 30, analisi di un fallimento

Il Polo lancia allarmi sui progetti di riforma della legge 30, trascurando il fatto che è stata un disastro: punto per punto, analisi di un fallimento. Quanto al programma del centrosinistra, è già positivo che si sia arrivati a una sintesi unitaria. Mancano però alcuni punti che andranno affrontati
Il programma  dell'Unione ha preso corpo. Sia il benvenuto. Il capitolo che riguarda il lavoro è uno di quelli destinati ad avere maggior peso nei commenti, come già sta avvenendo, e ad esercitare una maggiore influenza sulle intenzioni di voto.

Che giudizio se ne può dare? Sembrerebbe fin troppo facile parlarne male, se lo stesso Cesare Damiano, responsabile lavoro dei DS e coordinatore del gruppo di stesura del capitolo, in un'intervista all'Unità ha voluto prendere le distanze dal punto di approdo che, in sede di sintesi generale, si era raggiunto. Troppi compromessi, troppi "non detti", a dar ragione a chi accusa il programma di essere più un protocollo di intesa tra i partiti della coalizione che un messaggio ai cittadini elettori. Eppure, il primo, fondamentale, giudizio positivo nasce proprio dal fatto in sé, che si sia raggiunta una sintesi, per quanto ampie possano essere le omissioni.

Che si tratti solo di una lista di "no", come ritiene Pietro Ichino, fa invece torto allo spirito e alla lettera del documento. Che abbia poi al centro l'abrogazione della legge 30 è semplicemente falso. La questione della legge 30 non occupa certo un posto centrale. E' piuttosto il centro-destra che glielo attribuisce, presentandola come caposaldo di qualunque suo bilancio di legislatura, manifesto e certificato di garanzia della sua genuina impronta riformatrice. E' a quella parte che andrebbe forse ricordato - e rinfacciato - il fatto che i  risultati siano stati insignificanti, nel bene e nel male:

- che il part-time reso iper-flessibile sia rimasto sugli stessi livelli di quattro anni fa;

- che il lavoro a termine, su cui si è consumata la rottura con la CGIL, prova generale di quello che doveva essere il vero solco che la spada avrebbe difeso strenuamente, la rottura del tessuto della concertazione e la messa ai margini, se non al bando, di quel sindacato, anziché conoscere un impetuoso sviluppo e diventare "tipologia standard" al pari del tempo indeterminato, ha invece perso un po' di peso e di appetibilità, a beneficio del tutelato e costoso lavoro interinale introdotto dal patto per il lavoro del 1996;

- che l'apprendistato sia stato salvato dalle parti sociali (attraverso i contratti che hanno stipulato senza degnare della minima attenzione le scomuniche ministeriali) e dalle Regioni (che tra i contratti e le circolari di Maroni hanno saputo da che parte scegliere); senza il loro senso di responsabilità e la loro ragionevolezza, avrebbe fatto la fine del contratto di inserimento, affossato dai ripetuti successivi disastri combinati, di nuovo, dal ministero (ma anche in questo caso c'è un accordo interconfederale da cui si potrebbe ripartire); tanto per maramaldeggiare un po', sarebbe il caso di ricordare che dapprima ne hanno negato, in sede applicativa, il contenuto formativo attribuito dalla legge, in spregio ai principi di gerarchia delle fonti, poi hanno tentato di farne uno strumento di discriminazione contro le donne, tanto per guadagnarci una bella figura in Europa e nel mondo come paladini della parità;

- che non uno solo dei tanto decantati "nuovi istituti" di flessibilità abbiano suscitato interesse in più dell'1% delle imprese.

Resta da dare, in termini un po' più articolati, un giudizio sul contratto a progetto, contro cui peraltro le associazioni padronali avevano fatto fuoco e fiamme, stroncato dallo stesso prof. Ichino. I primi dati sembrano indicare che la quota di collaborazioni preesistenti che hanno preso la strada indicata dalla legge(contratto a progetto o contratto di lavoro subordinato) sia inferiore alla metà: per il resto, si sono inabissate o si sono trasformate nelle altre forme di lavoro autonomo che la fantasia dei consulenti suggeriva. Che viceversa si stia verificando, con un'estensione non prevista, un effetto di sostituzione tra contratti di lavoro dipendente e collaborazioni a progetto (tutto il contrario di quello che era l'obiettivo dichiarato della legge e tanto paventato dal prof. Ichino).

Succede così che il lavoro a termine alle dipendenze stia effettivamente un po' diminuendo mentre sta crescendo a dismisura il lavoro autonomo a termine (collaborazioni e simili), quella forma elusiva, esclusiva del mercato del lavoro italiano, che le statistiche europee non contemplano (per Eurostat il lavoro autonomo non può essere a termine) e che segnano la vera cifra della precarietà made by Berlusconi.

Che gli effetti, a parte quelli preoccupanti, ma tutti da verificare, derivati dall'introduzione del contratto a progetto, siano stati irrisori non è dunque una scoperta, soprattutto per il centro-sinistra. Del resto non sono pochi ormai i Rapporti di istituti "terzi" (come il CNEL o l'ISAE) o perfino del Centro Studi Confindustria che, dati statistici alla mano e conducendo inchieste ad ampio raggio, lo stanno a certificare. Al ministro Sacconi, che per magnificare i risultati della legge, dovunque si presenti, porta a sostegno il confronto tra il tasso di occupazione del 2004 e quello del 2001, si dovrebbe con molta semplicità ricordare che quel dato non ha significato. Perché la  legge è entrata in vigore a ottobre del 2003 e il tasso di occupazione tra il 1997 (Patto per il lavoro) e il 2003 (legge 30) è passato dal 54 al 59% e che nei due anni successivi al varo della legge (tra il 2003 e il 2005) è diminuito: di un decimo di punto, ma è diminuito.

Meglio dunque tacere della legge 30, se non ha cambiato nulla? Come ragionamento è alquanto bizzarro. Le proposte dell'Unione possono essere criticate, ma la proposta di una Carta dei Lavori che vada oltre i confini del lavoro fordista, quello che si conosceva e si intendeva regolare nel 1970, mantiene una sua attualità ed è perciò giusto riprenderla: si sono persi, semmai, cinque lunghi anni. Ripristinare un bonus assunzioni che incentivi i percorsi di stabilizzazione, in modo mirato, appare di buon senso, alla luce dell'esperienza prevalentemente positiva della fine della scorsa legislatura. In ogni caso, alcune proposte ci sono. Ci si dovrebbe fermare lì senza indugiare nella critica alla legge 30?

La verità è che sarebbe del tutto sbagliato far finta di dimenticare quell'opera di devastazione culturale e politica che il centro-destra ha condotto nel mondo del lavoro con il chiodo fisso di radere al suolo il portato di oltre mezzo secolo di libertà, di civiltà delle relazioni sindacali. Riaffermare i capisaldi di principio, rimuovere le tossine non sarà tempo sprecato, né opera da poco.

Con questo non si vuol dire che tutto, nel sistema costruito dai "padri della repubblica" in questo campo, fosse oro, né che tutto fosse aggiornato (up-to-date, direbbero quelli che se ne intendono). Ma la riforma delle relazioni sindacali si fa accompagnando, con prudenza e delicatezza, otre che con chiarezza di idee, quella "partenogenesi" di cui parla mirabilmente Pierre Carniti su queste pagine web.

Qui, certo, debolezze e omissioni possono essere rimproverate al programma dell'Unione. Sulla rappresentanza ma anche sulla questione annosa, spinosa e mai risolta, della validità erga omnes dei contratti e della loro derogabilità (non certo a livello individuale, ma tra livelli negoziali diversi), tre temi strettamente collegati tra loro che proprio nel loro intreccio hanno regolarmente trovato il motivo, o il pretesto, per non essere affrontati. Qui forse ci voleva e ci vorrà, se il 9 aprile non avverranno disastri, più coraggio sul versante delle parti sociali e maggiore chiarezza di idee su quello della politica.

Così come - questa, sì, appare una critica fondata al programma alla luce delle esperienze del passato - si dovranno compiere scelte molto precise in tema di priorità per sostenere con mezzi adeguati l'impegno a riformare davvero il sistema dei cosiddetti ammortizzatori sociali. Il tema merita molta più attenzione di quanta non se ne dedichi nel programma (e nei talk show pre-elettorali). Ci si potrà tornare. Una premessa vale però la pena di anticiparla da ora: è una riforma che si può anche fare a costo zero per le finanze pubbliche. Ma in questo caso si devono mettere in conto costi sociali, perché ci sarà chi ci guadagna e chi ci perde. E bisognerà stare molto attenti al rischio che tra questi ultimi, magari in nome di una lotta ai privilegi, ci vadano a finire anche i più deboli e i più esposti. Se si lavora di bisturi il chirurgo deve avere mano ferma e sapere da prima con grande precisione dove affondare, altrimenti si commettono delitti.
Giovedì, 23. Febbraio 2006
 

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