L'Economist e l'ottimismo della globalizzazione

Grandi titoli sul fatto che i paesi di nuova industrializzazione avrebbero raggiunto il 50% della produzione mondiale: ma c'è un piccolo trucco. Se si fanno i calcoli ai cambi di mercato, la loro quota negli ultimi 25 anni risulta non aumentata, ma dimunuita al ritmo di un punto all'anno

Il Corriere della sera in Italia, l'Economist nel mondo, offrono una lettura equa e piacevole a chi vorrebbe un mondo non solo migliore ma "diversamente" migliore. La lettura è palesemente ottimistica, ed è utile seguirla. Ma fino a un certo punto, al di del quale gli argomenti subiscono una evidente torsione, e il sentiero dell'ottimismo svolta nettamente a destra (per quanto civile e intelligente) in direzione di una visione apologetica. Vediamo di che si tratta.
 
L'Economist datato 21 gennaio riprende ed elabora alcuni numeri selezionati nell'immenso database che il Fondo Monetario Internazionale aggiorna continuamente sullo stato del mondo (World Economic Outlook). Il punto più interessante ed originale dei dati FMI è che, per una sorta di inveramento della teoria vichiana dei ricorsi storici, la produzione di ricchezza nel mondo (in termini di prodotto lordo aggregato) è tornata a ripartirsi a metà tra paesi sviluppati (oggi il 20% della popolazione del mondo) e paesi meno sviluppati (oggi l'80% della popolazione del mondo), esattamente come si ripartiva nella decade finale dell'800.

In mezzo c'è un secolo, nel corso del quale i paesi sviluppati sono rimasti costantemente a contribuire ben al di sopra del 50% della produzione mondiale di ricchezza. Si ritornerebbe così nel solco della storia, poiché solo con l'affermarsi della rivoluzione industriale in Europa, nel secolo di pace tra la conclusione delle guerre napoleoniche e la prima guerra mondiale, i paesi che tale rivoluzione hanno attuato, hanno gradualmente sopravanzato il resto del mondo nel ritmo di produzione del reddito.

Fin qui i numeri, e dietro ai numeri la naturale assunzione che il far west che si chiama più elegantemente globalizzazione dell'economia non avvantaggia i ricchi, come ognun vede dal suo modesto ed angusto angolo visuale personale, ma invece i poveri, i quali dopo la svolta datata 2005 recupereranno gradualmente le posizioni di testa nell'economia globale.
 
Ma, come ammette più avanti lo stesso Economist, questo raffronto non è corretto e tuttavia viene utilizzato per comporre due titoli clamorosi "Le nazioni ricche non dominano più la produzione globale" e "Risalendo la china. Le economie che si solevano definire Terzo mondo stanno riguadagnando la loro storica preminenza". E' un vecchio trucco questo, di assegnare una specie di libero arbitrio a chi compone i titoli: il testo documenta una tesi ed il titolo sunteggia la tesi opposta.
 
La base dell'equivoco risiede nel ricalcolo del reddito prodotto, che l'Economist prende a riferimento, sulla base del potere d'acquisto (purchasing power parity - ppp) locale delle monete e non sui rapporti di cambio sul mercato globale (market exchange rate). Ma in un mondo che si va sempre più globalizzando obiettivo strategico di chi ha in mano le chiavi del potere è appunto quello di abbattere tutte le barriere che isolano i singoli mercati, il che avrà come effetto, più o meno graduale, quello di far coincidere i prezzi basati sul potere d'acquisto nei mercati locali con quelli basati sui rapporto di cambio tra diverse monete.
 
Tornando dunque ai dati che segnano la prospettiva, il prodotto lordo dell'insieme dei paesi meno industrializzati (includendovi generosamente anche quelli di più recente industrializzazione), calcolato ai cambi del mercato internazionale, rappresentano il 25% e non il 50% del totale mondiale, e negli ultimi 25 anni la loro quota è diminuita del 26%, in media un punto all'anno. Inoltre il reddito pro capite dei paesi avanzati resta, comunque lo si misuri, diverse volte superiore a quello dei meno avanzati, anche se tra questi ultimi si includono i paesi di più recente (ultimi 20/30 anni) industrializzazione. Come si sapeva, c'è poco da stare allegri, poiché in prospettiva gli squilibri nel mondo appaiono più profondi della pur nera attualità.

L'analisi dell'Economist si completa con un esempio più circoscritto: negli ultimi 25 anni, la produzione mondiale dell'Asia, l'area economicamente più dinamica del mondo in tale periodo, sarebbe aumentata  di oltre il 50% se valutata secondo il metodo ppp, mentre secondo il metodo delle parità di cambio la quota dell'Asia sul totale mondiale sarebbe rimasta pressoché eguale.
 
C'è un altro elemento nell'analisi dell'Economist che richiede una reinterpretazione: rileva l'Economist che la tendenza generale dei salari nel mondo è alla riduzione, ma che l'aumento della competitività compenserà i lavoratori mediante la diminuzione dei prezzi dovuta alla graduale apertura dei mercati. Così, parallelamente, alla graduale riduzione dei salari si accompagnerebbe il graduale  aumento del potere d'acquisto di un salario pur ridotto, del che al momento non vi è segno in nessuna parte del mondo, senza considerare che alla riduzione dei salari reali si accompagna un processo di precarizzazione dei posti di lavoro che aggiunge debolezza alla posizione nella società dei lavoratori dipendenti e di quella sempre più ampia fascia di lavoratori costretti al ruolo di indipendenti proprio dal processo di precarizzazione in corso.
 
Battistrada e buttafuori di questo nuovo corso è la World Trade Organisation, che nella scialba edizione di quest'anno degli incontri tra politici, economisti e imprenditori di Davos, è assurta agli onori della cronaca, sopravanzando in apprezzamenti sia il Fondo Monetario Internazionale, sia le stesse Nazioni Unite. Il ruolo strategico del WTO è proprio quello di circoscrivere e in definitiva cancellare quelle aree di mercato locale nelle quali alligna la mala pianta del ppp e sottometterle al mercato globale ordinato dalle parità di cambio ed ai prezzi del mercato globale.
 
Solo che, è stato rilevato anche a Davos, la performance del WTO è ad oggi molto deludente: il pargolo nato dalle ceneri del General Agreement on Trade and Tariffs (GATT) è di costituzione gracile e sta praticamente ancora sotto incubatrice a oltre dieci anni dalla nascita. Dopo il deludente risultato della riunione del WTO di Singapore, nel dicembre 2005, si confida di concludere entro il 2006 il ciclo di trattative denominate "Doha round", iniziate nel 2001: al riguardo a Davos il direttore del WTO ha valutato che l'avanzamento della trattativa è attualmente al 60%, mentre il negoziatore USA ha concesso "forse siamo anche all'80%, ma il restante 20%, tutto affidato alla volontà politica, vale come un 100%".
 
Le prospettive non sono quindi buone, e tuttavia il WTO resta la sola organizzazione internazionale nella quale i rappresentanti delle nazioni del mondo hanno tutti voci in capitolo, alla pari, diversamente dalle Nazioni Unite dominate dal Consiglio di Sicurezza, dall'FMI e dalla Banca Mondiale, dominate dai contribuenti più ricchi. Sembra inoltre che il disegno emerso negli incontri, peraltro informali, di Davos, sia quello di affrontare l'insieme dei problemi posti dalla globalizzazione dell'economia in corso e non solo alcuni di essi, come ad esempio quello dei prodotti agricoli. Il paradosso è che si parla molto di Cina e India, ma manca la voce dei protagonisti. Ha scritto, a questo proposito, il New York Times che il club transatlantico dei ricchi continua a considerarsi rappresentante del mondo, ma curando di non confrontarsi con coloro che effettivamente rappresentano le novità di cui si discute: appunto, la Cina, l'India o il Brasile.
 
In conclusione quel che si vuole indicare è che anche l'"autorevole" Economist a volte (anzi molto spesso) prende sottogamba le difficoltà che si stagliano sull'amato cammino verso una globalizzazione dura e pura. Quondam dormitat bonus Homerus: il sonno della ragione contagia anche le sentinelle della fortezza del capitalismo avanzato!   

Martedì, 31. Gennaio 2006
 

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