'L'economia associativa': oltre il Welfare State

Un approfondito saggio di Franco Archibugi sulla necessità di puntare sul cosiddetto "Terzo settore", che, se difficilmente arriverà a sostituire il mercato, potrebbe però affiancarlo più di quanto avvenga ora

“L’economia associativa” di Franco Archibugi è un libro importante la cui lettura è essenziale per tutti coloro che si occupano di politiche sociali e soprattutto per i non pochi che ne parlano sui media. Purtroppo raramente a proposito; più frequentemente a sproposito. E’ un libro importante per la straordinaria mole di informazioni, di documentazione, di letteratura scientifica. E’ un’ampia ed accurata esplorazione, che mette in evidenza i problemi, le condizioni strutturali ed istituzionali attraverso le quali appare possibile la trasformazione  dello “Stato sociale” (gloriosa costruzione del secolo scorso, oggi indebolita dagli acciacchi derivanti dall’età ed anche dai sempre più insistiti assalti politici) in nuove e più adeguate forme di integrazione sociale.

Non a caso Archibugi prende le mosse da un libro, di particolare interesse anche se non tra i più noti,  dello svedese Gunnar Myrdal (premio Nobel dell’economia nel 1974) dal significativo titolo “Oltre il Welfare State”. Il punto infatti è esattamente questo. Perché il problema vero non è quello di sottoporre (per ragioni di tollerabilità economica e soprattutto politica) a progressive cure dimagranti il sistema di protezione sociale, secondo la tesi prevalente nella vulgata mediatica, ma appunto quello di “andare oltre”. Anche per corrispondere meglio ai nuovi bisogni ed alle nuove domande sociali. A questo fine Archibugi concentra l’attenzione sul peso e sul ruolo crescente di quella che definisce “l’economia associativa”. Economia che, in sostanza, è costituita da imprese senza scopo di lucro e da sempre più estese forme di volontariato.

L’importanza dell’economia solidale, o del cosiddetto “Terzo settore” (che lo distingue quindi tanto dal settore dell’economia privata, che da quello dell’economia pubblica) induce anche a qualche ulteriore considerazione di carattere politico-culturale. Mi limito a tre.

La prima. Archibugi si dichiara comprensibilmente estenuato  dal dibattito su “limiti e  fallimenti” tanto del mercato che dello Stato. Alimentato dai devoti delle rispettive scuole di pensiero. Credo tuttavia che non si debba sottacere che è appunto “il Buon Samaritano “ che rimedia ad un fallimento sia del mercato che dello Stato. Scongiurando così (volendo parafrasare il Livio di “dum Romae consulitur”), un esito catastrofico. Che cioè, mentre gli addetti si accapigliano (tra i tifosi del mercato e quelli dello Stato) il poveretto sulla strada di Gerico viene lasciato morire. Rischio purtroppo sempre più presente. E non solo sulla strada di Gerico.

La seconda. Malgrado l’offensiva cultural-mediatica a supporto dell’individualismo domini il campo ormai da qualche decennio, il numero di coloro che si dedicano ad iniziative di volontariato ed in generale ad attività non “profit” è in costante aumento. Fino al punto che il peso “dell’economia associativa” concorre ormai alla formazione del Pil per circa il 13 per cento. Valore sempre meno lontano dal peso in decrescita (circa il 20 per cento) dell’industria rispetto al resto dell’economia. Perciò non può che sorprendere la sproporzione di attenzioni e di risorse riservate a ciascuno dei due settori. Come se dall’industria dipendesse ancora il futuro del paese, ed il “terzo settore”, anziché una categoria economica, fosse invece semplicemente la risposta ad un impulso caritatevole.

La terza. Può esistere un’altra economia, rispetto a quella che la vulgata considera canonica? Può esistere un’alternativa ad una economia di mercato votata ad una accumulazione perenne? Sappiamo bene che da quando esiste la scienza economica, ci sono stati economisti, filosofi, sociologi, incluso un certo numero di utopisti, che hanno cercato di immaginare un’altra economia. Persino i più contemporanei “no global” si sono dati da fare a questo proposito sostenendo con vigore che il “mondo non è una merce”. Slogan che esprime il rifiuto di sottomettere la vita ai diktat dei mercanti ed in particolare delle multinazionali che trivellano il mondo per estrarne un valore illusorio, a costo di distruggere la vita stessa. Nei fatti però l’unica concreta alternativa economica al liberismo è durata solo settant’anni. Dalla Rivoluzione di Ottobre (1917) alla caduta del muro di Berlino (1989) ed è implosa in un ultra liberismo selvaggio e… persino mafioso. Si tratta quindi di un ritorno a zero. Non di un punto di partenza per possibili ulteriori sviluppi. Allora che si può fare? Ci si deve rassegnare?

Non c’è dubbio che, sul piano delle idee, quelle dei sostenitori di un’altra globalizzazione o di un’altra economia siano posizioni suggestive. Riconoscere “la natura diversificata delle attività umane” significa infatti riconoscere che ci sono altre attività oltre al lavoro. E che quindi il lavoro (nelle sue forme storiche tradizionali) non è più il solo destino, il solo fondamento dell’esistenza. Quasi fosse la sanzione da scontare per il “Peccato originale”.  Per di più appare una operazione sempre più arbitraria applicare alla nostra epoca gli schemi interpretativi utilizzati nel passato. Oggi, ad esempio, i pensionati dipendono dai lavoratori attivi. Se dovessimo dare credito al paradigma economico in auge da un paio di secoli la loro vita vale soltanto il tempo di lavoro che gli attivi accettano di cedere loro. Il che ridurrebbe il valore “sacro” della vita e della dignità umana ad un puro problema di costo. Assumendo questa dialettica si accantona disinvoltamente il problema dell’esistenza di principi da rispettare, perché subentrerebbe solo una logica di mercato da applicare. Ma se, appunto, basta la “mano invisibile” a risolvere tutto, perché stare a perdere tempo?  Perché disputare ed interrogarsi sui principi?

“La vita è azione e non produzione”, sosteneva invece Aristotile. Secondo Hanna Arendt e Jurgen Habermas, vi sono solo quattro tipi di attività: quelle basate sull’amicizia, sulla famiglia, sull’amore; quelle produttive, che rendono possibile la riproduzione allargata delle condizioni di vita individuali e sociali; quelle legate alla formazione personale ed all’apprendimento; quelle inerenti all’attività politica. Se è così perché non mettere almeno sullo stesso piano utilizzazioni differenti del tempo di vita? L’accettazione di attività differenti, tutte egualmente degne, si fonda sul presupposto che non esista un’unica razionalità, dominante, onnipresente. Si fonda sulla consapevolezza che è una convenzione basata sul nulla la teoria che ci debba essere una “razionalità” economica che deve fare  premio su tutto e su tutti. Perché mai il “ragionevole” non dovrebbe venire prima del “razionale”?

Resta comunque il fatto che l’iperindividualismo calcolatore a cui ci trascina la “razionalità” mercantile è il contrario della pienezza dell’individuo. E’ la morte della libertà, perché è lo stordimento provocato dall’incessante coro della pubblicità, dall’assalto dei venditori, dal progressivo istupidimento dei programmi televisivi, mentre giriamo come criceti nella piccola ruota della nostra vita activa.  Irrimediabilmente condannati ad uccidere il tempo per  trasformarlo in merce.

L’economia è progressivamente diventata una sorta di superstizione che ci ha portato, quasi senza che ce ne accorgessimo, a scambiare una ideologia per una verità scientifica. Fino al punto di trasformarsi in una gabbia nella quale tendiamo persino a rimuovere (e comunque ad esorcizzare) il pensiero della morte. Fino a scansare la consapevolezza che di fronte alla morte le due passioni più potenti non sono mai la ricchezza ed il potere, ma la ricerca, la domanda di senso della vita e l’amore (o la riconoscenza verso altre persone). Che, dunque, è soprattutto il dono che esprime nel modo migliore il legame e la solidarietà tra gli essere umani. Mentre, al contrario, la funzione dell’economia tende ad eliminare il dono. O, comunque, a prescinderne. Con  il risultato di erodere pericolosamente questo fondamentale aspetto dell’antropologia umana.

Perciò se riuscissimo a diventare tutti più ragionevoli dovremmo puntare con maggiore impegno sull’economia solidale. Cioè sull’economia associativa di cui scrive Archibugi. Oltre tutto non dovrebbe essere così arduo capire che i “lavori socialmente utili” sono sempre preferibili alla produzione di “beni e consumi inutili”.  Quanto meno perché i primi non inquinano mai ed invece i secondi inquinano sempre. E non solo sul piano ecologico. Per questo dobbiamo chiederci: “l’economia solidale può coesistere con l’economia di mercato”? La risposta non può che essere: sicuramente si. In proposito il saggio di Archibugi fornisce una grande mole di argomenti. Naturalmente si può anche pensare che la vera vocazione dell’economia solidale e del dono sia quella di soppiantare l’economia mercantile. Con realismo, non si può però non riconoscere che questo esito appare alquanto improbabile. In ogni caso, non a portata di mano. Il che, ovviamente, non esclude che possa essere modificata la proporzione tra economia del dono ed economia mercantile. Che si debba valorizzare l’altruismo rispetto all’egoismo individualista. Che si possa incoraggiare la solidarietà rispetto all’interesse.
 
Bisogna sapere, tuttavia, che gli ostacoli non mancano ed il cammino è in salita. Per procedere occorre infatti persuadere le persone, con una azione politico culturale che oggi appare largamente in controtendenza, che è meglio anteporre il desiderio di essere a quello di avere. Non solo per ragioni  morali, ma anche economiche. C’è inoltre un’altra condizione perché l’economia solidale possa espandersi. Essa consiste nella capacità di attivare appropriate politiche pubbliche. Proposito che, a sua volta, si scontra con il dilagare dell’antipolitica. Fenomeno che non induce certo all’ottimismo.

Nulla impedisce, naturalmente, che debba essere fatto il necessario perché, nel tempo, la situazione possa evolvere positivamente. Proprio per assecondare questa evoluzione sarebbe però necessario riprendere la lezione di Karl Polanyi (nell’insuperato saggio di antropologia economica e di economia comparata, intitolato “La grande trasformazione”) che sottolineava la necessità di rimettere l’economia al suo posto. Inglobandola cioè nel sociale.


Franco Archibugi

L’economia associativa. Sguardi oltre il Welfare State e nel post-capitalismo
Edizioni di Comunità (pag. 485, € 32)

* Franco Archibugi è professore ordinario all’Università di Napoli. E’ inoltre presidente del Planing Studies Centre ed è stato consulente di diversi organismi internazionali (Undp, Un-Ece, Oecd, Commissione Europea).

Venerdì, 8. Giugno 2007
 

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