Le donne amano la vita

Stanchezza e indigrazione sono i sentimenti provocati dall'indegna campagna contro la legge sulla regolamentazione dell'aborto. Una campagna che tenta di utilizzare i concetti della lotta contro la pena di morte per colpevolizzare le donne e riportare la società indietro di mezzo secolo. Una petizione per contrastarla

Stanchezza e indignazione, sentimenti contrastanti ma saldati assieme di fronte all’attacco alla legge sulla regolamentazione dell’aborto. Stanchezza e indignazione di fronte alla necessità di ricominciare a lottare per quanto ritenevamo acquisito con una legge equilibrata, scritta sul filo della prevenzione, della tutela della salute della donna, del rifiuto degli aborti clandestini, e confermata da un referendum di grande mobilitazione e risultato. Stanchezza e indignazione di fronte alla manipolazione di uno strumento come la moratoria, che propone una incredibile assimilazione con la straordinaria conquista – tutta di matrice italiana, innegabile successo della diplomazia e della politica estera del nostro Paese – del rifiuto della morte come possibile, massima, sanzione comminata da uno Stato. In molte di noi prevale ancora la volontà di allontanare il calice amaro. Invece bisogna conoscere, perché è il mezzo migliore per stanare le ambiguità, le contraddizioni, le assurdità di una campagna di stampa, ormai politica, montata da un noto giornalista.

La moratoria sull’aborto per esteso risulta essere una ‘moratoria internazionale per l’abolizione della pena di aborto’. Sappiamo da dove deriva questa formula. E’ l’adattamento di quella utilizzata per fermare i boia. Qui, si vogliono fermare le donne. Le donne come i boia? Purtroppo temiamo che sia questo il pensiero sottostante. Non tutte le donne, ovviamente. Ma certo quelle che abortiscono o hanno abortito. Infatti, sullo sfondo compare la scritta che "l’aborto è un omicidio". Ogni e qualsiasi aborto, anche quello terapeutico. E la legge consente – ce lo siamo forse dimenticato? – solo aborti terapeutici (anche nei primi novanta giorni di gravidanza si parla di "serio pericolo per la salute fisica o psichica" della donna, "in relazione o al suo stato di salute o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari o alle circostanze in cui é avvenuto il concepimento o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito").
 
Ma procediamo ancora. Ciò che si chiede è l’abolizione della pena di aborto. Cosa significa pena? Certo non si intende qui la sofferenza. Magari si potesse sopprimere la sofferenza, la pena, appunto, quella fisica e quella che si conficca nel cuore delle donne. Quando si parla di pena si deve risalire ancora alla morte, alla pena di morte. E la pena di morte è la punizione massima: la soppressione della vita come giudizio all’esito di un processo di riconoscimento di colpevolezza. E nel caso dell’aborto? E’ talmente inaudita la conclusione che si fatica a scriverla: l’aborto come condanna esercitata dalla donna su se stessa.
 
E lasciamo stare che, sempre scrivendo sullo spartito della moratoria contro la pena di morte, si qualifica anche questa moratoria come di valenza internazionale, finendo per alimentare un ulteriore paradosso, visto che la regolamentazione dell’aborto è competenza degli Stati nazionali e che le fonti internazionali ed europee hanno finora sempre sostenuto la necessità di proteggere la salute fisica e mentale delle donne.

Ma come si permettono? La moratoria non è solo una campagna pubblicitaria che si colloca in aperta collisione con la legislazione esistente. E’ un orribile strumento di colpevolizzazione delle donne, un tentativo di farle tornare a  prima degli anni ’70. E in tutto questo i medici – la maggior parte dei quali obiettori di coscienza – e la sanità scompaiono. Come se non esistessero. E lo stesso i consultori familiari, alla faccia della funzione determinante della prevenzione. Che non è, si badi bene, una parola buona e una carezza per convincere la donna a non abortire, ma è diffusione dell’educazione sessuale nelle scuole, fin dal momento, sempre più anticipato, in cui diventa necessaria; è diffusione delle tecniche di prevenzione delle gravidanze non volute. E poi ancora, che non è controllo eugenetico della specie, come se le donne fossero dei novelli mostri nazisti, ma esami prenatali efficaci e la possibilità da parte delle donne di proteggere la vita nella sua forma più piena, fermando da subito la gestazione di un figlio o una figlia condannati a una vita di malattia e patimenti. La possibilità. Non l’obbligo. Non dimentichiamoci che lo spauracchio dell’eugenetica è lo stesso fatto valere per limitare la procreazione medicalmente assistita. Ma se questo è il timore, allora quello che la moratoria non dice è che si vorrebbero impedire le analisi prenatali, che si vorrebbe tornare agli anni in cui si attendeva la nascita per sapere se sarebbe nato un bambino o una bambina, per sapere se era sano o gravemente malato. E’ questo che si vuole? Fermare la ricerca? Impedire le scelte delle donne sul proprio corpo? Colpevolizzare le donne?

Chiediamo di fermare questa campagna. O almeno chiediamo che venga spiegata per quello che è. E chiediamo di diffondere i dati sui trenta anni di applicazione della legge. Quanta amarezza nel constatare quanto troppo spesso, nel nostro Paese, si tradiscono i ruoli istituzionali e la libertà diventa la foglia di fico per calpestare le leggi e, in questo caso, le conquiste di civiltà, frutto dell’impegno del movimento delle donne.

Non si tratta di schierarsi per la vita o per la morte. Noi donne che difendiamo la legge, a trenta anni esatti dalla sua approvazione, siamo per la vita, per la maternità amorevole e consapevole. Molte di noi hanno lottato per ottenere la legge e ridurre il più possibile la piaga dell’aborto clandestino. Altre sono troppo giovani per averlo fatto. Assieme ricominceremo. Sapendo che ci occupiamo di sofferenza, di scelte angosciose, del dramma di decidere che fare dopo aver saputo che il feto è malato. Sapendo che dobbiamo di nuovo spiegare che la regolamentazione per legge dell’aborto non significa mai, in nessun caso, nemmeno nei casi più gravi, obbligo di abortire. Così come sarebbe improprio parlare di diritto di abortire. Che occorre delicatezza, comprensione, informazione, conoscenza. Tutto il contrario di imbracciare l’arma dell’aborto considerato come delitto.
 

(Donata Gottardi è Deputata al Parlamento Europeo per il Gruppo PSE)

Firma la petizione

Sabato, 23. Febbraio 2008
 

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