Lavoro, l'arbitro non può espellere il giudice

Il rinvio alle Camere della legge sulle controversie è pienamente giustificato. Il disegno implicito è trasformare la giustizia in un procedimento amministrativo: forse una prova generale della riforma preannunciata

La disposizione più corposa della sgangherata legge-omnibus rinviata alle Camere dal Presidente della Repubblica è quella che concerne la soluzione stragiudiziale delle controversie individuali di lavoro. Candida come una colomba, la norma è astuta come un serpente, ma non può nascondere tutta la sua insidiosità. In larga misura, infatti, è stata smascherata dalla motivazione dell’autorevole richiesta di riesame parlamentare.

      

Dal documento risulta che si vorrebbe ottenere il contenimento della litigiosità giudiziaria in materia di lavoro mediante il rilancio dell’istituto dell’arbitrato basato sulla rinuncia preferibilmente preventiva alla via giurisdizionale accompagnata, magari, dall’autorizzazione a decidere secondo equità, ossia con licenza di derogare a tassative norme legali. Una rinuncia che di preferenza viene effettuata in una con la stipulazione del contratto di lavoro, ossia al momento dell’assunzione che in genere coincide col momento di massima debolezza contrattuale del lavoratore. Né la situazione cambierebbe se la contrattazione collettiva mettesse a disposizione dei singoli, come già succede nel pubblico impiego, la possibilità di devolvere ad arbitri la controversia prevedendo le modalità procedurali per attivare il meccanismo decisionale alternativo; e ciò perché la rinuncia ad avvalersi dell’autorità giudiziaria ordinaria resterebbe pur sempre una scelta individuale.

 

Le perplessità manifestate dal Presidente Giorgio Napolitano sono totalmente condivise da chi scrive. Anche perché non c’è dubbio alcuno che la vittima sacrificale più illustre di un’opzione legislativa favorevole al primato della giustizia privata in materia di lavoro non può non essere la norma-simbolo dello statuto dei lavoratori quale è l’art. 18 che conserva il pathos sufficiente per riempire piazze e prime pagine dei giornali ogniqualvolta sia oggetto di aggressione diretta o, come oggi, indiretta. Mai infatti un collegio arbitrale potrebbe disporre del potere coercitivo necessario per emanare un ordine di reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato.

 

Tuttavia, il disegno del legislatore d’inizio primavera 2010 è più ampio e più micidiale di quanto non si sia finora messo in luce. Ciò che si prefigura è l’amministrativizzazione della giurisdizione. Mi scuso per l’orrenda e quasi impronunciabile terminologia, ma di questo si tratta. Si tratta non solo di ridurre il contenzioso giudiziario in materia di lavoro, privilegiando lo strumento dell’arbitrato, ma di ridurre il contenzioso tout court in base ad una concezione della giurisdizione che finisce per assimilarla a procedimenti di natura amministrativa. Come è possibile? E’ semplice: rinvigorendo gli organi della certificazione dei contratti di lavoro previsti dalla cosiddetta “legge Biagi”; spostandoli dalla periferia in cui sono tuttora emarginati per collocarli nel cuore del corpus normativo che noi chiamiamo diritto del lavoro e farne lo snodo centrale della sua applicazione senza arretrare di fronte alla prospettiva di sfrattarne il giudice ordinario. Infatti, le valutazioni espresse dai certificatori del contratto di lavoro vincolano anche il giudice cui si vorrebbe vietare esplicitamente di discostarsene.

 

Il tempo trascorso ha dimostrato che la volontarietà dell’avvio della certificazione ne ha favorito la pratica ininfluenza. Bisognava perciò cercare l’incentivo adeguato a generalizzarla e si è creduto di trovarlo nell’uso su vasta scala delle clausole compromissorie nei contratti di lavoro, rimettendo ai certificatori il compito di autenticare la concorde volontà delle parti.

 

Come dire che la grande, e anzi la tre volte grande, riforma della giustizia desiderata dal premier trova qui una prova tecnica di settore che ne anticipa il significato complessivo: come i PM, anche i giudici del lavoro rappresentano una patologia ed è pertanto ragionevole diffidarne, come del resto ne diffidava apertamente il Libro bianco del 2001. Il che però apre un problema di costituzionalità, perché non si può ammettere che sia di fatto sottratta alla cognizione del giudice togato la dinamica di un’intera esperienza come quella legata ai conflitti di lavoro.

Giovedì, 1. Aprile 2010
 

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