Lavoro, indietro di cinque anni

Il mercato meno inclusivo dell’area Ocse si è anche confermato il più discriminatorio. Almeno verso i giovani e verso il sud, un po’ meno verso le donne. E’ anche questo un effetto della scelta del governo di affrontare la crisi senza fare quasi nulla

Per gli aedi del “nuovo miracolo italiano”, ovvero dei mirabolanti successi del nostro paese nel contrasto della crisi (“siamo i migliori dell’area Ocse”!), la diffusione dei dati mensili Istat sulle forze di lavoro è stato un boccone alquanto amaro da digerire. La notizia che ha più colpito, stando ai commenti, è l’aumento dei disoccupati alla cifra record dal 2004. Non è però la peggiore, né la più importante tra quelle che sono venute alla luce con i dati Istat.

 

Nel resto del mondo il dato sulla disoccupazione è solo un dato di contorno rispetto a quello, essenziale, sull’andamento degli occupati. Serve a dare un’idea della pressione sul mercato del lavoro e quindi del potere contrattuale dei salariati. In più, nel resto del mondo dove ad ogni disoccupato corrisponde, quasi senza eccezioni, un sussidio (che viceversa in Italia tocca all’incirca al 20% dei disoccupati), segnala il possibile aggravio per i conti pubblici. Quanto ai risvolti sociali, è evidentemente un dato significativo ma coglie solo una parte del problema: rispetto ai disoccupati; i “senza lavoro” sono infatti un insieme molto più ampio, che in alcuni paesi, come nel nostro, può essere addirittura quattro o cinque volte maggiore.

 

Si deve poi aggiungere che il dato italiano sulla disoccupazione è difficilmente paragonabile, perfino a quello Eurostat, cui pure è uniformato come metodologia di rilevazione, per il semplice fatto che da noi esiste un istituto come la cassa integrazione che sussidia chi, “temporaneamente” (almeno sulla carta), si trova senza un’occupazione ma non ha perso il rapporto di lavoro. Disoccupati per il resto del mondo (ovvero inattivi, giacché non sono “alla ricerca attiva di un lavoro”, come è invece richiesto che siano secondo la definizione tecnica di disoccupato), nelle nostre statistiche figurano invece tra gli occupati. La differenza, nelle situazioni ordinarie, non è particolarmente rilevante ma quando, come nel caso della crisi attuale, riguarda centinaia di migliaia di persone diventa sensibile. Al punto che se si sommassero ai disoccupati rilevati dall’Istat i beneficiari della cassa integrazione ne risulterebbe un dato sulla disoccupazione non più inferiore alla media europea ma almeno allineato se non superiore.

 

Più della disoccupazione, si è detto, conta però il dato sull’occupazione. E qui vengono gli aspetti più preoccupanti, quelli che meriterebbero maggiore attenzione, senza sciocchi funambolismi dialettici per “indorare la pillola”. Sul finire del 2009 in Italia gli occupati scendono al di sotto di quota 58 (in percentuale sulla popolazione in età lavorativa tra i 15 e i 65 anni). Si torna quindi indietro di un quinquennio, al periodo 2003-2005: per una singolare coincidenza, la maggioranza di governo era la stessa. In quegli anni, vale la pena di ricordarlo, aveva segnato una battuta di arresto la crescita iniziata nel 1997, ovvero nell’anno (un’altra singolare coincidenza) del pacchetto Treu, traduzione del primo Patto per il Lavoro tra governo e sindacati (tutti) del 2006. In cinque anni il tasso di occupazione era passato da un imbarazzante 51%, fanalino di coda europeo, al 57% (2002). Un trend che aveva fatto sperare addirittura nell’aggancio della meta europea fissata nel 2000 a Lisbona, in un’epoca di europeismo ambizioso, ricco di progetti e di obiettivi, non ancora rinchiuso su se stesso e ridimensionato: arrivare al 70% di occupati sulla popolazione in età lavorativa nel 2010. Una crescita di sei punti in cinque anni, se mantenuta costante, avrebbe consentito quel miracolo.

 

A quell’obiettivo si voleva puntare ancora quando, nel 2003, si era varata la seconda riforma, stavolta targata Berlusconi (la legge 30, attribuita a Biagi). Sarà che nel frattempo c’era stata la crisi delle torri gemelle, ma il sogno si è infranto, la crescita dell’occupazione si è arrestata per tre anni. Solo nel 2006 si è rimessa in moto per raggiungere il 59% nel 2008. A meno di un trimestre dal fatidico 2010 siamo costretti a rimuovere collettivamente quel sogno e quella ambizione. Siamo spaventosamente lontani.

 

Che cosa è successo? Chi ha perso il lavoro? Le risposte sono addirittura banali, a dispetto delle contorsioni dialettiche della propaganda. Hanno perso il lavoro i precari. Non sono stati rinnovati i contratti a termine, né le collaborazioni a progetto. Ai (finti) autonomi, o “professionisti senza albo”, non sono state affidate altre “commesse” (finzione speculare). Al Mezzogiorno, che arrancava sotto il peso della debolezza del tessuto produttivo, con i piedi nel fango del sommerso, è arrivato l’ennesimo colpo alle ginocchia.

 

Nonostante questo, non si è ritenuto fosse il momento adatto per mettere mano alle riforme; non lo hanno affermato solo dal versante del governo ma lo hanno confermato dall’opposizione e soprattutto lo hanno “rivendicato” i sindacati nelle espressioni più radicali: “primum vivere, fuori i soldi per le casse in deroga”. Per le promesse di giustizia (un sistema universalistico di copertura dal rischio della disoccupazione) i tempi sarebbero stati maturi più in là, a crisi passata. Invece, la crisi sta passando, nelle sue manifestazioni esteriori più evidenti e più drammatiche, senza che nulla sia cambiato nei fattori profondi di ingiustizia, di esclusione, di discriminazione, di inefficienza.

 

Siamo dunque di nuovo ad affrontare, anche partendo dall’andamento dell’occupazione, la questione, ridotta ai suoi termini essenziali, della politica economica del governo Berlusconi-Tremonti a fronte della crisi. Può darsi che aver scelto di non agire in profondità, di non riformare, di non investire e di non mobilitare grandi risorse, sia stato un segno di grande sagacia e di incrollabile fiducia, ben riposta, nelle capacità e nelle abilità dell’imprenditoria nazionale. Con buona pace di quei popoli della terra che si affidavano a leader politici che cercavano soluzioni nuove, mobilitavano risorse enormi, davano vita a scenari inediti, la via italiana per uscire dal tunnel potrebbe risultare la più efficace.

 

Se però, ammesso che si possa avanzare un simile dubbio, non fossimo i più furbi della terra, se la strada imboccata dai leader cui è stata data fiducia si dovesse rivelare illusoria e fallimentare, potremo anche attutire i colpi, magari già dal 2010, ma non ci risolleveremo. Per un paese che da quindici anni cresce regolarmente meno della media Ocse, sarebbe una prospettiva drammatica. Tale da far consigliare ai propri figli l’espatrio.

 

Non aver scelto la “via alta” per la ristrutturazione, aver tagliato le spese in istruzione, aver chiesto sconti e rinvii sul rispetto dei parametri ambientali e aver dilapidato risorse preziose per un regalo fiscale ai possessori delle case con più alta rendita (mentre Obama lanciava il più massiccio investimento in conoscenza, soprattutto nel sistema scolastico, e ambiente della storia Usa) si rivelerebbe così un disegno insensato, autolesionistico, un serio colpo per il futuro del nostro Paese.

 

Quel che è certo è che questa “via bassa” è anche una “via iniqua”. Il mercato del lavoro meno inclusivo dell’area Ocse si è anche confermato il più discriminatorio. Almeno verso i giovani e verso il sud, un po’ meno verso le donne. Ebbene sì. Nella sventura è successo che le donne abbiano perso il lavoro un po’ meno degli uomini e che quindi il divario si sia un po’ ridotto. Magra consolazione, in un trend discendente. Se fosse anche un segnale per capire da dove ripartire, la si potrebbe considerare pur tuttavia una buona notizia.

Martedì, 5. Gennaio 2010
 

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