Lavoro, da dove ricominciare

Idee per un programma / Due domande sul lavoro che non si potranno lasciare senza risposta: eliminare l'eccessiva precarietà e sostenere in modo diverso da ora chi il posto l'ha perso
Costruire il programma per la prossima legislatura. Non è facile, "perché ci vuole orecchio"- direbbe Jannacci. La società poliedrica in cui viviamo non si accontenta più di grandi racconti onnicomprensivi trasmessi dal centro. Essere partiti con una campagna di ascolto è quindi un primo passo nella giusta direzione. Raccogliere risposte senza porre domande presenta però un rischio. Che alla fine restino troppe domande senza risposta.

Non solo. Il programma deve anche - direbbero le tifoserie delle curve - "farci sognare". Ma è difficile che il sogno possa spingersi molto in là, con le casse dello Stato disastrate e con l'immaginario collettivo ancora ingombro delle macerie dell'ultimo sogno berlusconiano, "meno tasse per tutti", che si è rivelato irrealizzabile ma intanto ha costretto sulla difensiva chiunque si ponga un problema di risorse.
Se poi si pensa a un programma in tema di lavoro vi si ritrova il concentrato di tutte le difficoltà: il massimo di aspettative e di speranze, ovvero di domande, sul terreno di elezione dei più acuti conflitti sociali, che rendono complicata qualunque risposta. Si sarebbe tentati di stare alla larga, se non fosse che con il Novecento - ce lo ricorda magistralmente Romagnoli - "le culture, le religioni, le ideologie prevalenti hanno attribuito al lavoro la virtù di connotare l'identità degli individui: chi non lavora non ha, ma soprattutto non è".

Due sogni si aggirano per l'Italia di questi tempi, a proposito di lavoro. Per il lavoro che c'è, bonificare tutto il terreno della precarietà, stabilizzare e elevare la qualità. Per quello che non c'è, dare un sussidio ai disoccupati. Sono queste le risposte che si raccolgono in prevalenza.

Si può fare? Per decidere fin dove si può arrivare, e in quale direzione, si deve ragionare in modo molto preciso e molto concreto.
 
Quanto alla precarietà, c'è un problema preliminare di definizione. Che cosa connota come precario un lavoro?

La discontinuità è un primo indizio, ma non basta. Il basso reddito sembrerebbe un connotato sicuro, ma c'è dell'altro: un'infima qualità del lavoro serve a completare il quadro. Precario, insomma, è un lavoro che non assicuri una condizione di vita dignitosa, che non consenta di immaginare un futuro, che sia degradante.
L'area del lavoro che presenta queste caratteristiche è molto ampia. Bonificarla, cioè assicurare un reddito dignitoso, consentire un futuro e salvaguardare la dignità, è indubbiamente un programma bello e ambizioso. Ma la politica, come può contribuire a realizzarlo?

Una sana consapevolezza dei limiti della politica porta a dire che difficilmente può servire a realizzare un sogno, mentre i sogni le servono per trovare la strada. In questo caso, ad esempio, è ormai dato per acquisito che dopo la riforma berlusconiana del mercato del lavoro ci sia bisogno di un lavoro propedeutico di sgombero delle macerie, di demolizione e rimozione dei manufatti abusivi costruiti dall'ideologia. Ci si deve però convincere che in questo senso è quasi più importante il lavoro da compiere sul terreno culturale di quello sul terreno legislativo che spetta più propriamente alla politica: il primo risultato a cui puntare è quello di ripristinare la verità dei fatti.

Un fatto è che al nostro paese non fa difetto la flessibilità. E', ed era già prima che arrivassero Berlusconi e Maroni, il mercato del lavoro più flessibile d'Europa: una persona in età lavorativa in Europa ha mediamente il 40% di probabilità in più che in Italia di trovare un lavoro stabile a tempo pieno. Piuttosto, è ingiusto e segmentato, discrimina le donne (in Italia solo due donne su dieci, di età tra i 15 e i 64 anni, lavorano stabilmente a tempo pieno), i giovani, gli anziani, i meridionali.

Un altro fatto ormai dimostrato è che moltiplicando le tipologie di lavoro non si aiutano le imprese (mettendo a loro disposizione una scelta più ampia) a intraprendere la via del lavoro regolare: nella migliore delle ipotesi si lasciano le cose come stanno, chi era in nero ci rimane, chi eludeva continua a eludere. Si offrono solo nuove occasioni di elusione o di oppressione e, quel che è peggio, si infligge un altro duro colpo alla cultura della legalità e del rispetto della persona umana.

Si è anche dimostrato falso, ma in questo caso anche i più faziosi si stanno arrendendo all'evidenza come dimostra l'appello di Berlusconi alla "corresponsione" (lapsus freudiano a metà strada tra corresponsabilità e concertazione), che la contrattazione collettiva faccia danni e debba perciò essere ridotta a più miti pretese e lasciare il posto all'autorità della legge per impedire che ciò avvenga. Non è vero né per gli imprenditori né per i lavoratori, è invece il modo più diretto e più vicino alla realtà delle cose per affrontare e risolvere il conflitto tra gli opposti interessi di chi compra e di chi vende il lavoro.

Ricominciamo da qui. Forse non è molto, ma comporta qualche impegno concreto. Non inventare nessuna nuova formula astrusa, o tipologia inedita. Dare fiducia alla contrattazione. Semplificare il corpo normativo per dare certezza e stabilità a lavoratori e imprese (è il lavoro che aveva cominciato Massimo D'Antona quando lo hanno ammazzato ed è anche il filo che lo lega a Marco Biagi, al di là delle tante diversità).

Ciò significa che non si dovranno scrivere norme dettagliate e puntigliose, neanche con le migliori intenzioni, come è accaduto al governo di centro-sinistra quando ha ritenuto di impedire alla contrattazione di sbagliare in danno dei lavoratori. Né si potrà commettere l'errore opposto di lasciar fare, disinteressandosi da quanto avviene al tavolo della contrattazione. I risultati sarebbero in entrambi i casi disastrosi, per tutti. La contrattazione deve avere l'ultima parola ma deve essere seguita e assistita. In particolare vanno incoraggiate (e incentivate) le imprese che adottano soluzioni che migliorano la qualità nell'organizzazione del lavoro; vanno incoraggiati (e sostenuti economicamente) i lavoratori che intendono ridurre il loro tempo di lavoro per un maggiore impegno su altri fronti (non solo e non necessariamente in famiglia, con le discriminazioni di genere che sappiamo, ma nel volontariato, nella formazione permanente, nella produzione culturale anche non a scopo di lucro, nell'accompagnamento e nel tutoraggio dei più giovani). Non dimentichiamo che norme di questo tipo erano in vigore nella passata legislatura ma sono state lasciate decadere senza toccare i fondi stanziati. Eppure costavano assai poco.

Per cominciare, un atto di governo che forse non scatenerebbe entusiasmi ma darebbe un segnale chiaro potrebbe essere quello di favorire e sostenere attivamente l'apertura di un tavolo negoziale per rivedere, tra le forme di lavoro non standard, il tempo parziale e il tempo determinato. Il sostegno attivo potrebbe tra l'altro consistere nell'investire risorse per incentivare le soluzioni che scelgono la qualità e nel definire (con procedure d'urgenza) tutti gli interventi legislativi necessari per rendere legittime e operative le soluzioni individuate.
 
A proposito di sussidio ai disoccupati, l'idea si presta a due considerazioni di segno quasi opposto. Si potrebbe dire che muovere un passo in questa direzione proprio mentre i paesi che hanno compiuto da più tempo questa esperienza ne stanno riconsiderando i limiti (la "trappola" di incentivare i disoccupati a restare più a lungo nella condizione dalla quale li si vorrebbe aiutare ad uscire) non appare particolarmente geniale. Si deve però riconoscere che il nostro paese è l'unico, tra tutti i paesi avanzati, dove non è previsto neppure un minimo sussidio al reddito di chi ricerca attivamente un'occupazione non avendo mai lavorato; così come, è l'unico in cui, per chi il lavoro lo ha perduto, non si prevede nessuna misura di sostegno attivo alla ricerca di una nuova occupazione ma ci si limiti a fornire un sussidio economico, un tempo forse perfino generoso ma ormai ridotto a poca cosa. Il presupposto è che si preferisce concentrare tutto l'aiuto economico sul capo-famiglia disoccupato, ma il risultato è che si costringono gli uni e gli altri, padri e figli, i giovani alla ricerca di un lavoro e i disoccupati adulti, a subire i ricatti o le lusinghe di chi offre un lavoro in nero di infima qualità.

E' ora di mettere mano a questa vistosa anomalia. Per cominciare, si potrebbero immaginare norme stringenti in primo luogo per impegnare le imprese che riducono personale (oggi del tutto svincolate da qualunque responsabilità una volta che abbiano affidato il disoccupato alle cure della Cassa Integrazione o della mobilità) ad accompagnare fattivamente la ricerca di lavoro dei disoccupati, anche prevedendo un eventuale aggravio contributivo qualora lo stato di disoccupazione si prolunghi eccessivamente. Chi perde il lavoro, inoltre, dovrebbe essere inserito a tutti gli effetti nei programmi di intervento dei Centri per l'Impiego (gli stessi, in definitiva, cui si rivolgono i giovani in cerca di lavoro) che dovrebbero attrezzarsi, ben più di quanto non facciano attualmente, per misure specifiche a favore dei disoccupati adulti, la cui ricerca di un lavoro risulta spesso più difficoltosa di quanto non lo sia per un giovane.

Con queste premesse sarebbero date anche le pre-condizioni perché si possano estendere alcune esperienze - oggi condotte solo a scala locale, quasi a titolo sperimentale - di sostegno al reddito di chi è coinvolto in programmi di ricerca e inserimento lavorativo (formazione, orientamento, tirocini).

In questo campo adottare misure a carattere generale è difficile e pericoloso. Illudendo i giovani di poter godere di un minimo reddito si può finire per spingerli all'emarginazione ovvero a forme di collusione, in posizione di massima debolezza, con gli imprenditori più furbastri (e meno capaci). Nell'un caso come nell'altro, li si porta, pur di avere qualcosa, a rinunciare ad essere qualcuno.

Ora che i Centri per l'Impiego delle Province ce la stanno mettendo tutta (in molte parti del paese) per diventare vere e proprie agenzie per accompagnare verso il lavoro le persone che lo cercano, possono anche dotarsi di uno strumento in più e sostenere il reddito dei soggetti che avvicinano e inseriscono in programmi mirati.

Non so se dietro progetti minimali come questi si possano ancora intravedere i sogni di cui oggi si parla. Alla luce della realtà con cui oggi facciamo i conti, segnerebbero tuttavia una piccola rivoluzione. Come tutte le rivoluzioni, impossibile senza un generoso sforzo soggettivo.
Martedì, 24. Maggio 2005
 

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