L'appello alla ragione di Amartya Sen

In "Identità e violenza" analizza il modo di porsi delle culture (e delle religioni) nel mondo contemporaneo e critica i modelli, come quello inglese, che tendono a mantenere comunità etniche distinte invece di cercare di integrare ogni singolo cittadino indipendentemente dalla sua cultura o fede
Identità è violenza? A leggere l'ultimo libro di Amartya Sen, verrebbe quasi voglia di accentare quella "e", tanto forte (e convincente) è il suo argomentare sul legame tra le odierne ossessive rivendicazioni identitarie e l'esplodere della violenza. C'è, secondo Sen, una pericolosa semplificazione in questi richiami all'identità: una riduzione delle molteplici radici, attitudini e potenzialità che convivono in un individuo o in una comunità, a una prevaricante quando non esclusiva "appartenenza", che si è soliti chiamare "cultura" (quasi sempre identificata con la religione). In funzione di questa appartenenza - naturalmente della sua difesa e affermazione contro altre, ugualmente prevaricanti ed esclusive - dovrebbe organizzarsi tutto il resto del molteplice patrimonio intellettuale e materiale di un individuo o di una comunità. Proprio da qui traggono alimento talune radici delle tante violenze di cui siamo spettatori (se abbiamo la fortuna di non esserne anche coinvolti).

"La politica dello scontro globale è spesso vista come un corollario delle divisioni religiose o culturali esistenti nel mondo. Il mondo, anzi, è visto sempre di più, quanto meno implicitamente, come una federazione di religioni o di civiltà, ignorando così tutti gli altri modi in cui gli esseri umani considerano se stessi. All'origine di questa idea sta la curiosa supposizione che l'unico modo per suddividere in categorie gli abitanti del pianeta sia sulla base di qualche sistema di ripartizione unico e sovrastante. La suddivisione della popolazione mondiale secondo le civiltà o secondo le religioni produce un approccio che definirei 'solitarista' all'identità umana, approccio che considera gli esseri umani membri soltanto di un gruppo ben preciso (definito in questo caso dalla civiltà o dalla religione, in contrapposizione con la rilevanza un tempo attribuita alla nazionalità o alla classe sociale)." (p. VIII)
Come un tempo erano i conflitti di interesse tra le nazioni e le classi sociali a generare guerre e violenza, oggi si leva l'allarme sull'incombente - anzi, già cominciato - scontro planetario tra civiltà. Il pensiero corre subito a Samuel Huntington e al suo troppo celebre libro che ha lanciato l'idea dello "scontro di civiltà". Sen non ci delude, e ne attacca a fondo la tesi, che svolge

"una funzione parassitaria rispetto alla forza dominante di una classificazione unica che prende a parametro i cosiddetti confini tra civiltà, che guarda caso ricalcano quasi esattamente le divisioni religiose." (p. 12, corsivi di A.S.)

La stessa domanda se esista o meno uno scontro di civiltà è mal posta, fondata come è sul presupposto che

"l'umanità possa essere classificata in via preferenziale in civiltà distinte e separate, e che le relazioni tra esseri umani differenti possano essere in qualche modo considerate, senza nuocere più di tanto alla comprensione, in termini di rapporti tra civiltà differenti." (p. 13, corsivi di A.S.)

Questa idea aberrante è tributaria di una visione confusa della storia, che ignora non solo le differenze interne delle varie "civiltà", ma anche le loro interazioni intellettuali e materiali nello spazio e nel tempo. Il guaio è che di questa visione distorta cadono vittima anche coloro i quali, con le migliori intenzioni, si propongono di contestarla dedicandosi alla ricerca di un "dialogo tra civiltà": obiettivo nobile ed elevato, perseguito tuttavia nella medesima ottica distorta che riduce

"le molte sfaccettature degli esseri umani a una dimensione soltanto, mettendo la museruola a quella varietà di legami che, per molti secoli, hanno fornito terreno fertile e variegato a interazioni transnazionali, in campi come le arti, la letteratura, la scienza, la matematica, i giochi, la politica e altre sfere di interesse comune per gli esseri umani." (p. 14)
 
Il problema si fa particolarmente arduo quando si affronta il cosiddetto "fondamentalismo islamico", magari con la retta intenzione di respingere una visione conflittuale dell'islam, ma con l'incapacità

"di vedere i musulmani in qualsiasi forma che non sia unicamente il loro essere islamici, combinando questo atteggiamento con i tentativi di ridefinire l'islam, invece di considerare la natura multidimensionale e la diversità degli esseri umani di religione islamica." (…) "La religione di un individuo non deve essere necessariamente la sua identità esclusiva e onnicomprensiva. L'islam in particolare, in quanto religione, non cancella la facoltà per i musulmani di effettuare scelte responsabili in molti ambiti dell'esistenza." (pp. 16 e 17)

"Scelte responsabili", appunto, nell'ambito di una pluralità di opzioni possibili insite nella condizione umana, e dunque nell'identità insoppribilmente plurale di ciascun individuo. Certo, nessuno parte dal nulla, ciascuno è comunque "situato" in un luogo, una tradizione, una rete di rapporti sociali determinati. Ma questo

"non significa che le associazioni antecedenti di un individuo, di qualunque tipo esse siano, debbano rimanere indiscusse, irrifiutabili e permanenti. L'alternativa alla 'scoperta' dell'identità non è una scelta effettuata da un punto di partenza sgombro di ogni identità (come sembrano sottendere polemicamente alcuni esponenti della corrente comunitarista), ma una scelta che continua a esistere in qualsiasi posizione ingombra che si trovi a occupare. Scegliere non significa saltare dal nulla per atterrare in  un determinato 'dove', scegliere è ciò che può consentirci di passare da un posto a un altro." (p. 38, corsivi di A.S.)

Al recente Festivaletteratura di Mantova ad Amartya Sen, intervenuto per presentare il suo libro, è stato chiesto cosa ne pensava della tragedia di Hina, la giovane pachistana uccisa dal padre per aver compiuto "scelte" difformi dall'eredità culturale-religiosa della famiglia. Non è un problema di identità, ha risposto Sen, ma un crimine:

"la cultura di partenza è sì importante, ma il tentativo di qualcuno di limitare la libertà, il diritto che una persona ha di scegliere come vivere è un problema di diritti umani, non di cultura. Ognuno di noi deve scegliere l'identità e la vita che vuole vivere, non si può prendere la cultura come spiegazione di comportamenti violenti di violazione dei diritti umani." (L'intera intervista può essere recuperata da www.corriere.it/Speciali/Spettacoli/2006/Mantova/index 5.shtml; interessante anche l'intervista su http://peacelink.org/migranti/articles/art_18577.html, da "Liberazione")
 
È dall'altezza di questa visione che Sen sottopone a critica stringente, in varie parti del libro, il multiculturalismo; o meglio, quello che il multiculturalismo è diventato: da affermazione di diritti umani, in base ai quali non possono esservi discriminazioni per ragioni di cultura, religione o razza, a una sorta di pluralismo ("federazione") di monoculture.

La critica di Sen non resta sospesa nel cielo della teoria, ma attacca modelli reali ben precisi. Ad esempio quello britannico, dove la visione "federativa" ha avuto grande successo, al punto di estendere le scuole confessionali aggiungendone altre (islamiche, induiste, sikh…) a quelle cristiane preesistenti. Semmai, osserva Sen, sarebbe stato più ragionevole ridurre queste ultime perché, chiudendo i bambini dentro siffatti recinti, si nega loro l'opportunità di usare e coltivare la ragione, proprio in un momento nel quale è massima la necessità di allargare gli orizzonti della comprensione delle altre persone e degli altri gruppi, e in cui la capacità di prendere decisioni ragionate riveste particolare importanza (vedi in particolare pagine 114 ss. e 158 ss.).

"Molti di questi istituti (le nuove scuole confessionali, ndr) stanno nascendo proprio in un momento in cui il fatto di dare la priorità alla religione rappresenta una delle maggiori fonti di violenza a livello mondiale (per non parlare degli esempi analoghi nella stessa Gran Bretagna, con le divisioni tra cattolici e protestanti in Irlanda del Nord, esse stesse non disgiunte dalla segmentazione scolastica). Il primo ministro Tony Blair ha certamente ragione quando fa notare che 'quelle scuole garantiscono un forte senso dell'etica e dei valori'. Ma istruzione non vuol dire solamente immergere i bambini, anche quelli giovanissimi, nell'ethos dei padri. Vuol dire anche aiutare i bambini a sviluppare la capacità di ragionare sulle decisioni nuove che qualsiasi persona adulta sarà chiamata a prendere." (pp. 162-3)

"Capacità di ragionare": questo appello alla ragione - che, come dimostra Sen, non è patrimonio esclusivo dell'Occidente, anzi… - corre insistente lungo tutte le pagine del libro: appello non a una ragione astratta, ma alla facoltà concreta degli individui di districarsi nelle loro condizioni e di scegliere le proprie opportunità, assumendone anche le relative responsabilità (sarebbe interessante fare qui un confronto fra la ragione del cosmopolita e illuminista Amartya Sen e la ragione proclamata nella lezione di Regensburg dal neoellenista Joseph Ratzinger).
 
Il problema non è limitato alla scuola, e nemmeno ai soli musulmani. Per restare all'esempio britannico - ma il discorso vale ovunque - la tendenza a considerare i leader religiosi induisti o sikh come portavoce, rispettivamente, della popolazione britannica indù o sikh, non può che avere alla lunga un esito nefasto.

"Invece di incoraggiare i cittadini britannici di diverse origini a interagire gli uni con gli altri nella società civile, e a partecipare alla vita politica britannica in quanto cittadini, l'invito è ad agire 'attraverso' la propria 'comunità'." (p. 166).

Emblematico, per citare un altro esempio addotto da Sen, è il caso dell'Iraq, dove a un intervento militare "arbitrario e basato su informazioni sbagliate", si è aggiunto un approccio politico dei capi dell'occupazione il quale,

"impostato sulle differenze confessionali (…), ha gettato benzina in abbondanza su un incendio già divampato. La visione dell'Iraq come una somma di comunità, con gli individui considerati semplicemente nella loro qualità di sciiti, o sunniti o curdi, domina largamente nei reportage dei mezzi di informazione occidentali, ma è un atteggiamento che rispecchia anche il modo in cui si è sviluppata la politica irachena dopo la caduta di Saddam." (p. 183)

Con i risultati che conosciamo. Era parsa la via più semplice, ma

"la via più facile nel breve periodo non è sempre il modo migliore per costruire un futuro di un paese, specialmente quando la posta in palio è straordinariamente importante, nel caso specifico l'esigenza, per una nazione, di essere un insieme di cittadini, invece che una collettività di confessioni religiose." (p. 184)
 
Mi fermo qui, sperando di avere colto quello che mi è sembrato il motivo conduttore del libro. Naturalmente Sen non si accontenta di esporre un ragionamento, ma lo sostiene con una straordinaria ricchezza di riferimenti storici e culturali, in una prosa brillante e ricca di ironia. Ricordo in particolare il capitolo III, nel quale mostra con dovizia di esempi storici come i concetti di democrazia, razionalità, tolleranza non siano esclusivi dell'Occidente (vedi pp. 50 ss.); il capitolo V, che ci pone davanti alle responsabilità dell'Occidente colonialista per la conflittualità attuale; e ancora il bellissimo capitolo VII, nel quale analizza criticamente i vari modi di porsi davanti alla globalizzazione e situa la problematica della violenza nel quadro delle terribili disuguaglianze che tormentano il nostro mondo, additando le vie politiche concrete per creare "un mondo possibile", capace di "superare la memoria del suo tormentato passato e vincere le insicurezze del suo difficile presente." (p. 188)

Per farla corta, il libro va letto, è bello e importante, scritto bene, e spesso anche divertente. Soprattutto mi è parso un ottimo vademecum per un "retto pensare", da tenere a portata di mano anche per evitare di dire stupidaggini quando si affrontano problematiche delicate come quelle poste da Amartya Sen alla nostra attenzione.
 
Amartya Sen
Identità e violenza
Traduzione di Fabio Galimberti
Editori Laterza, Bari 2006
Pagine 222, euro 15,00

Domenica, 8. Ottobre 2006
 

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