L'America latina fra riformismo e populismo

Il riformismo progresssita praticato da Lula in Brasile cambia profondamente lo scenario politico del subcontinente, mentre nuove forme di populismo si affermano dal Venezuela alla Bolivia in un processo di cambiamento complesso che merita una grande attenzione da parte della sinistra europea

 

 

Dopo la sconfitta di Chavez al referendum(un terzo del suo elettorato ha detto no) che avrebbe dovuto garantirle la presidenza vitalizia, imitando Castro al potere da quasi cinquant’anni, e l’annuncio - peraltro atteso – della definiva rinuncia dello stesso Castro, altre domande si sono aggiunte alle precedenti circa il futuro politico dell’America Latina.

 

Soprattutto dopo il rischio di conflitto armato tra Ecuador e Colombia, causato dall’intervento armato colombiano che ha portato all’uccisione del numero due delle Farc, Raùl Reyes in territorio ecuadoriano ai primi di marzo.La risposta ecuadoriana, seguita dal Venezuela, è stata l’aver disposto uomini e mezzi bellici, alla frontiera della Colombia, nonchè la rottura delle relazioni diplomatiche.Ai più questa mossa era apparsa teatrale; infatti, la successiva riunione a Santo Domingo del Gruppo di Rio, l’associazione dei paesi latino americani, ha portato ad abbassare la tensione con una stretta di mano e l’abbraccio del colombiano Uribe con i suoi omologhi, Correa dell’Ecuador e del Venezuela, Chavez.

 

Anche gli inquietanti segnali di secessione di alcune ricche regioni boliviane rischia di aprire altri conflitti in Bolivia, dove il presidente Morales intende pesantemente impedire che ciò avvenga.

Il recente viaggio della segretaria di stato Usa, Rice, ad alcuni paesi latino americani e non ad altri, seppur si tratti di visite-addio della rappresentante di un presidente a fine mandato, solleva altri interrogativi circa l’acuirsi di tensioni che mantengono desta l’attenzione sull’America meridionale, politicamente divaricata tra il gruppo dei paesi moderati e altri più attratti dal socialismo venezuelano.

 

Dopo anni di dominazione militare al servizio di interessi economici Usa, in particolare, una completa ed esauriente descrizione delle differenze e analisi di tali realtà, richiederebbe ben altro spazio. Mi limiterò, quindi, a indicare quelle che ritengo essere le principali, permanenti caratteristiche e differenze tra il programma di Lula in Brasile, condivise da quasi tutti i paesi del continente, e altri dove sono stati eletti presidenti di sinistra, che hanno formato il gruppo dei paesi socialisti bolivariani, e cioè i presidenti di Venezuela, Bolivia, Ecuador e Nicaragua: Chavez, Morales, Correa e il redivivo rieletto presidente Ortega.

 

I programmi dicono molto sugli orientamenti dei nuovi governi eletti, o rieletti, negli ultimi due anni.

Del programma di Lula si può dire, esemplificando, che è per molti aspetti simile alle consolidate esperienze di socialismo democratico, con molte analogie di tipo europeo.Data la sua natura gradualista e riformista, richiede naturalmente tempi non brevi per realizzarsi e condizioni di auto-sostenibilità nel tempo.

 

Le strumentali critiche di certa sinistra europea e latino-americana alla politica di Lula, non “abbastanza di sinistra”, al di là di tutto, trascurano il semplice fatto che il Brasile è un paese enorme; cinque volte il secondo paese più grande del  Mercosur, l’Argentina. Complesse e difficili da affrontare le secolari eredità di disuguaglianze nella distribuzione del reddito, nella negazione degli elementari diritti di cittadinanza, sopratutto nei confronti della grande massa dei poveri, oltre 50 milioni, per lo più afro-brasiliani.

 

Un fatto è comunque certo. La realizzazione dei programmi di inclusione sociale promessi da Lula durante l’ultima campagna elettorale, e che Lula sta portando avanti nel più tranquillo e dinamico secondo mandato, ricco di risultati economici che lo pongono ormai a candidarsi addirittura all’ingresso al G8, sono di tale dimensione che, quando Lula terminerà il mandato, sono in molti ad invocare il “miracolo” della creazione di un nuovo Lula capace di continuarne la politica.

 

In effetti, sono in molti a chiedersi in Brasile chi potrà esserne il successore. Il suo carisma e la sua attuale popolarità non saranno cosa facile da ritrovare nei possibili successori. E questo rivela un altro dei problemi latino-americani non ancora del tutto risolti: l’esigenza del leader carismatico, messianico e, quindi, della figura del “Caudillo”, si chiami questo Morales, Castro, Chavez, Lula, Kirtchner, Menem, Zapata, Bolivar, Càrdenaz e altri…  

 

Molti nel PT, il Paetito del lavoro,brasiliano avevano insistito per un terzo mandato. Ma per questo è necessario modificare la costituzione, e Lula, non era disponibile a cambiare la costituzione, ripetendo l’ errore di Chavez. Taluno, esagerando, ma in fondo non tanto, indicava in ottant’anni il tempo necessario per cambiare un paese come il Brasile. E a questo punto bisogna anche ricordare che lo sport più diffuso in Brasile non è il calcio, ma l’evasione fiscale, in dimensione tale da ridicolizzare quella italiana. Così si ritorna ancora al vero nodo: come trasformare un paese tanto complesso, squilibrato e ingiusto, e con quali investimenti, senza dover sempre ricorrere alle figura messianiche?

 

Trattandosi di un paese a sviluppo intermedio, con profonde differenze fra i diversi settori e regioni, con drammatici problemi di giustizia sociale, è ugualmente prioritario ottenere anche uno sviluppo equilibrato, la tutela dell’ambiente e delle etnie originarie, la difesa del manto forestale, fra i più estesi e importanti del mondo.

 

Nonostante le critiche al Brasile di Lula (ultime quelle sui biocarburanti, critiche destituite di fondamento perché la materia prima utilizzata è la canna e non i cereali), è a questo paese che si guarda nonostante tutto da parte ei paesi dell’intero continente. Anche perché – non va dimenticato - che chi ha affondato l’Alca, l’odiato progetto Usa del libero mercato continentale, è stato Lula, come non va dimenticato che è stato il Pt di Lula che a Porto Alegre, molti anni fa, inaugurò la grande e fertile stagione del “Bilancio Municipale  Partecipato”, democratica elaborazione dal basso delle priorità della programmazione municipale, approvate in apposite assemblee cittadine.

I risultati che vanno consolidandosi sembrano confermare che il Brasile sia modello per quasi tutti i presidenti recentemente eletti, in uno straordinario anno di elezioni democratiche, che hanno cambiato il volto dell’intero subcontinente.

 

Detto questo di Lula e del Brasile, e venendo soprattutto al cosiddetto modello Chavez-Morales, i presidenti dei paesi con abbondanti riserve energetiche, questi sembrano invece puntare all’immediata redistribuzione delle elevate entrate valutarie della vendita del petrolio e del gas, per una politica ancora una volta populista, rapidamente efficace nel trasferire essenziali risorse direttamente alle masse dei poveri, nell’intento di accorciare i tempi  e soddisfare così le emergenze popolari più immediate.

 

In un continente dove è ancora fortemente vivo il ricordo del “peronismo”, dal nome  del presidente dell’Argentina Juan Domingo Peròn, questo non deve sorprendere.A lui si richiamano ancora i Kirchner, marito e moglie, ex il primo e nuova presidente la moglie Cristina Fernàndez, a riprova della forte impronta lasciata dall’uomo che, con alterne vicende, ha segnato la politica in Argentina dal 1945 in poi, e che continua ancor oggi a segnare la politica argentina.

 

A quel tempo l’Argentina esportava enormi quantità di carne e grano, soprattutto verso l’affamata Europa del 1945. I guadagni derivanti da quelle esportazioni spiegano l’ascesa del populista Peròn, come anche la sua caduta, al momento in cui l’Europa ritornava all’auto-sufficienza alimentare nel 1950. Per l’esilio l’ambiguo Peròn sceglieva – e non poteva essere diversamente – la Spagna di Franco.

 

Le fortune di quel modello esportatore agro-alimentare torneranno per un momento ancora in auge nel 1979 quando, a dispetto dell’embargo occidentale all’Unione Sovietica per l’invasione dell’Afghanistan, l’Argentina violò l’embargo e rifornì di abbandonati derrate alimentari l’Urss.

Gesto non perdonato e subito fatto pagare dagli Usa con l’appoggio logistico alla Tatcher nella guerra per la riconquista delle Isole Malvines Falkland, “liberate” dai militari nazional-fascisti argentini..  

 

Questo breve richiamo alle controverse vicende del peronismo è obbligatorio per capire cosa rimane di alcune convulse vicende passate sulla scena latino americana. Ancora oggi si confrontano aspetti che durano nel tempo con quanto di nuovo è apparso, soprattutto con l’elezione di Lula e di altri presidenti di cento-sinistra e di sinistra.

 

Si tratta di un nuovo processo di democratizzazione che sembra aver voltato per sempre pagina nella convulsa storia del continente. Ricco di risorse, ma ancora povero di un forte tessuto democratico e civile( il conflitto FARC – Governo colombiano e i sequestri di civili innocenti come la Betancourt da parte dei guerriglieri ne è una prova), al quale le nuove democrazie stanno, finalmente, ponendo mano con la costruzione di una Unione continentale, a partire dal Mercosur e, in prospettiva, a una vera unione sul tipo nordamericano ed europeo.  

 

E, quindi, quale dei due modelli - si potrebbe così definire la domanda - è più efficace e necessario allo sviluppo economico, politico e civile del sub continente latino-americano, e in tempi  ragionevolmente brevi? Quello riformista, graduale e capace di costruire strutture economiche forti e partecipate, in un quadro democratico consolidato? Oppure quello distribuzionista, ancora sedimentato di giustizialismo, permesso dalla rendita delle ricche risorse naturali?

 

La storia argentina, brevemente ricordata, direbbe che ciò non è possibile.

Anzi, la situazione di fame e miseria diffusa, con profonde disuguaglianze tra le classi, spinge come sempre per la seconda soluzione. Guarda con favore e consenso alle decisioni paternalistiche, alle scorciatoie, alle soluzioni semplici e immediate, seppure incapaci di auto-sostenersi nel tempo.

 

Il rilancio del populismo alla Peròn da parte dell’ex paracadutista golpista Chavez, ora castrista e distribuzionista, grazie alle ingenti quantità di petrolio venduto all’estero, prevalentemente agli Usa,  il dichiarato “nemico dei popoli latino americani!” raccoglie sicuramente ampio consenso fra le masse diseredate venezuelane.

 

Al 75° posto per lo sviluppo umano nel mondo, il Venezuela di Chavez è un grande paese dalle ricche risorse naturali, specie energetiche, con 5.000 dollari di reddito pro-capite, 12 % di disoccupazione, ma segnato da uno sviluppo fortemente squilibrato e da una pesante diseguaglianza nella distribuzione del reddito.

 

La controprova dell’insostenibile disuguaglianza e della urgenza di cambiare le cose per Chavez, è la feroce opposizione delle classi medio-alte, a loro volta tentate da soluzioni golpiste, messe in atto qualche tempo fa con l’appoggio americano. Farla finita con Chavez, è la dichiarata volontà di queste forze che non tollerano le sue opzioni populiste, filo castriste e socialiste. Mentre guardano con fastidio al consenso popolare ottenuto da Chavez con la politica redistribuzionista.

 

Chavez, politico realista, intende però aderire a pieno titolo al Mercato sudamericano, Mercosur, per sfuggire così all’isolamento, convinto che dal vecchio Castro, e dalla esaurita e malconcia Cuba, poco gli può venire in aiuto ai suoi progetti.Mentre, al contrario, i progetti di integrazione continentale necessitano dell’apporto energetico, come era stata per l’Europa del dopoguerra, la costituzione della CECA, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Programmi di sviluppo sono già attivi in Venezuela, grazie alla disponibilità di risorse, attraverso “missioni all’interno”, cioè tentativi di innescare processi di sviluppo su aree determinate, beneficiando di una realtà ricca di creatività politica e democratica che proviene dalla nuova realtà continentale.

 

Tornando alla Bolivia (9 milioni di abitanti, mille dollari di reddito pro-capite, disoccupazione statisticamente rilevata al 6%, 113° posto nello sviluppo umano), Morales, da poco più di un anno eletto alla presidenza del paese, e ancora alla ricerca di una definitiva collocazione internazionale, sembra orientato a seguire il modello venezuelano di Chavez. Con qualche variazione, tuttavia, non marginale rispetto al tema populista: quello del riscatto degli indigeni (oltre il 55% della popolazione, tra le etnie Quechua e Aymara), di cui è autentico rappresentante.

 

Morales, richiama e conferma certo altre somiglianze con il Venezuela di Chavez: una su tutte: accorciare i tempi, affinché re-distribuendo risorse, grazie alla  disponibilità di gas e alla congiuntura favorevole dei prezzi energetici, si possa avviare il superamento delle drammatiche condizioni di povertà, fornendo di che vivere ai più umili dei cittadini, anche attraverso il riequilibrio territoriale, da cui scaturiscono le tendenze scissionistiche.

 

Non deve peraltro essere dimenticato che anche Lula ha percorso, almeno in parte, questa strada.

Attraverso il programma “Bolsa Famiglia”, e cioè una parte del programma governativo “Fame Zero”, ha distribuito a milioni di famiglie brasiliane un assegno mensile per alimenti di prima necessità - assegno condizionato alla frequenza della scuola dell’obbligo dei figli delle famiglie che beneficiano dell’aiuto.

 

Insomma, il populismo rimane radicato in queste realtà, e non è difficile ottenerne il superamento se non attraverso tempi ragionevolmente lunghi e uno sviluppo sostenibile, al cui obiettivo le risorse energetiche venezuelane e boliviane e l’energico sviluppo industriale brasiliano possono offrire la spinta di cui l’America latina necessita.

 

 

 

 

 

 

      

 

 

 

Giovedì, 27. Marzo 2008
 

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