L'alternativa alle misure del centrodestra

Maggiore stabilità nei prossimi 50 anni. Alterazioni prodotte dalle misure governative. Possibili interventi di carattere solidaristico per i lavoratori intermittenti, una nuova combinazione tra età anagrafica ed età contributiva, incentivi per l’apprendimento continuo.

1. PREMESSA

Obiettivo di questa nota è quello di valutare la necessità e la congruità della proposta del governo Berlusconi in materia previdenziale. Nella nota sono discussi essenzialmente due punti. Il primo riguarda gli aspetti quantitativi che definiscono il quadro della spesa pensionistica, sui quali si è basato il governo per sostenere la necessità di accelerare l’intervento in campo pensionistico, con misure che si collegano alla manovra di bilancio attualmente in discussione. Nel secondo punto sono analizzate le misure che lo stesso governo ha proposto per tenere sotto controllo il profilo della spesa pensionistica nei prossimi decenni. Riguardo a tali misure, è però necessario tenere distinta l'efficacia nel limitare l'ampiezza della cosiddetta “gobba”, messa in evidenza dalle proiezioni sulla spesa pensionistica nel periodo tra il 2010 e gli anni immediatamente successivi al 2030, dall'impatto complessivo sul funzionamento del sistema contributivo introdotto con la riforma del governo Dini. In particolare, è opportuno verificare se con queste misure non si ricreino diversità di trattamento per classi di età o di anzianità tra loro vicine, dopo quasi un decennio in cui gli interventi in questo campo hanno avuto come obiettivo prioritario l’armonizzazione delle regole.

2. INVECCHIAMENTO DELLA POPOLAZIONE E INTERVENTI SUI SISTEMI PENSIONISTICI.

Il rapido invecchiamento della popolazione è la principale ragione per cui in quasi tutti i paesi ci si è posti il problema di modificare le regole dei sistemi pensionistici, nella previsione che la quota di risorse da destinare a questa parte della spesa per la protezione sociale potesse crescere in misura eccessiva e, quindi, diventare economicamente e politicamente insostenibile. Le proiezioni demografiche su orizzonti temporali di medio e lungo periodo sono perciò un riferimento essenziale, non solo per cogliere la portata del fenomeno, ma anche per trarre indicazioni sulla congruità dei parametri di funzionamento che regolano i flussi finanziari di un sistema previdenziale. Per limitare l’attenzione alla situazione italiana, si possono prendere a riferimento le ultime previsioni elaborate dall’Istat, a cui si è fatto ricorso anche nel 2001, in occasione della programmata verifica governativa sugli andamenti della spesa previdenziale (1). Da queste proiezioni emerge che l’evoluzione della struttura della popolazione in corso nel nostro paese non ha uguali in altri paesi dell'Unione europea per il concorrere di diversi fattori, tra cui i principali sono: l’inizio del pensionamento delle coorti molto ampie dei nati nell'immediato dopoguerra, l’aumento delle aspettative di vita al momento del ritiro dal mercato del lavoro, il brusco calo dei tassi di fecondità manifestatosi negli ultimi decenni. La combinazione di questi elementi è previsto che dia luogo nei prossimi anni a una consistente diminuzione della popolazione in età di lavoro e a un corrispondente aumento degli ultra 65-enni, con una tendenza delle dinamiche attuali talmente netta che una ripresa nel numero delle nascite e un più elevato saldo migratorio potranno modificarne solo marginalmente l’esito futuro (2). In questa evoluzione, la struttura della popolazione subisce modifiche di tutto rilievo. Il peso delle classi di età comprese tra i 20 e i 59 anni passa dall’attuale 56,3% al 44%, mentre gli ultrasessantenni, che oggi sono il 23,9% del totale, arriverebbero nel 2050 a rappresentare il 40,5% della popolazione. Il sostanziale spostamento verso le età più anziane è sintetizzato dai forti incrementi sia del cosiddetto indice di dipendenza degli anziani, ovvero gli ultrasessantacinquenni in rapporto alle persone in età di lavoro (15-64 anni), sia del dell’indice di vecchiaia, cioè il rapporto tra la popolazione di 65 e più anni e quella fino a 14 anni di età (3) . Modifiche così rilevanti della struttura demografica hanno ovviamente un forte impatto economico e influenzano in modo diretto gli equilibri finanziari di importanti funzioni della protezione sociale, come la previdenza, la sanità e i sostegni di cura alle persone. Per quanto riguarda in particolare la spesa per pensioni, essendo la stessa una prestazione in moneta, quindi meno influenzata rispetto alle altre funzioni dai costi per l’organizzazione del servizio, la discussione sui possibili rimedi si è direttamente orientata ai criteri con cui modificare la maturazione delle prestazioni e il finanziamento delle stesse. Nel nostro paese, l’idea di dovere effettuare nuovi interventi dopo le riforme degli anni novanta è stata sostenuta anche da diversi esperti e commentatori politici che in questi anni hanno ripetutamente accusato di inerzia i governi perché esitavano ad affrontare il problema che, al contrario, a seconda dei punti di vista, avrebbe necessitato un’accelerazione delle riforme già fatte o, addirittura, un radicale cambiamento dei metodi di funzionamento (4). In realtà, dopo la legge finanziaria del 1998, allorché il governo Prodi decise di allineare definitivamente i trattamenti dei dipendenti pubblici a quelli dei dipendenti privati, la previdenza italiana non è stata più oggetto di interventi di rilievo. Le recenti misure di riforma proposte in alcuni paesi - in particolare in Francia e Germania che come l’Italia hanno una situazione molto difficile dei conti pubblici - oltre ad una crescente attenzione per l’argomento emersa in sede europea (5) hanno però spinto il governo italiano a tornare sulla questione, prima con una delega e, successivamente, con un emendamento che ha ampliato i contenuti della delega, incorporando le linee guida elaborate negli ultimi mesi dal centrodestra in tema di riforma della previdenza.

3. LA DINAMICA DELLA SPESA PER PENSIONI IN ITALIA.

Per avere un quadro della situazione finanziaria del sistema pensionistico italiano, da cui ha preso le mosse l’ipotesi di riforma del governo, occorre che siano ben chiari alcuni punti. Questa valutazione può essere effettuata sulla base dei dati elaborati dalla Ragioneria Generale (RGS) e del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale (NVSP) distinguendo tre fasi temporali. La prima fase riguarda il periodo che va dal 1989 al 2002, anni per i quali possono essere già osservati alcuni degli effetti prodotti dalle riforme dello scorso decennio. Nell’insieme, i dati indicano che nel periodo vi è stato un rallentamento tendenziale dei ritmi di crescita della spesa complessiva, non solo in termini nominali per la minore inflazione, ma anche in termini reali. Una misura della stabilizzazione relativa della spesa pensionistica è data dall’andamento della sua incidenza sul PIL che, dopo una crescita sostenuta fino al 1993, ha mostrato una sostanziale staticità negli anni successivi. Nel 2002, ultimo anno della serie, il rapporto tra spesa pensionistica e PIL che si era riportato nel biennio precedente intorno al 13,5% e risalito di uno 0,4% a seguito sia della crescita molto bassa dello stesso prodotto lordo, che dei provvedimenti sulle maggiorazioni delle pensioni minime adottati dall’attuale governo nella precedente finanziaria.

Nonostante sia difficile individuare con precisione il ruolo esercitato da ogni singola misura nel contenimento della spesa, l’insieme degli effetti delle riforme degli anni novanta appare piuttosto consistente. Come principali fattori, sono comunque da citare: il nuovo meccanismo di indicizzazione sensibile solo ai prezzi e che, oltre certi livelli di prestazione, garantisce una copertura parziale; la modifica delle pensioni di invalidità, che risale a un periodo precedente le riforme degli anni ’90; l’innalzamento delle età medie di pensionamento, tanto di anzianità quanto di vecchiaia; alcune modifiche nel calcolo dei trattamenti in regime retributivo; la minore incidenza di pensioni erogate anticipatamente per gestire eccedenze di lavoro da ristrutturazioni. I dati disaggregati indicano che la dinamica della spesa differisce per categorie di assicurati, con i dipendenti privati che registrano tassi di variazione inferiori alla media e le pensioni dei dipendenti pubblici che crescono maggiormente. Per quanto riguarda i lavoratori autonomi, si segnala un rallentamento nel settore agricolo determinato dalla contrazione del flusso verso il pensionamento e, al contrario, una tendenza a crescere più della media per le pensioni degli artigiani e dei commercianti. Se dunque nel complesso le misure già operanti sono riuscite a contenere una dinamica della spesa troppo accentuata, avvicinandone i ritmi di crescita a quelli del PIL, è però opportuno anche chiedersi quale potrebbe essere l’evoluzione nel prossimo decennio, in modo da avere un’idea più precisa sull’effettiva necessità e l’urgenza di nuovi interventi.

A tale proposito, si può ancora fare riferimento alle analisi presentate negli ultimi rapporti dal NVSP. Da esse emerge che nei prossimi dieci anni la spesa totale al netto delle indicizzazioni dovrebbe crescere a tassi prossimi al 2% annuo, con la conseguenza che se la crescita reale del PIL si collocasse intorno a questo livello (6), il rapporto tra spesa pensionistica e PIL resterebbe sostanzialmente stabile. Va precisato che in questo intervallo di tempo, tende a riprendere con più vigore la dinamica della spesa per i dipendenti pubblici che negli ultimi anni era rallentata per effetto dell’allineamento dei requisiti di accesso alla pensione a quelli dei dipendenti privati. Nelle proiezioni continua a crescere sopra la media anche la spesa per le pensioni dei lavoratori autonomi, che ha iniziato dal 1993 a salire a un ritmo più che doppio rispetto alla spesa totale. Ciò si deve alla maturazione dei fondi dei lavoratori autonomi che determina flussi di pensionamento consistenti di soggetti a carriera piena, con trattamenti mediamente più elevati. In complesso, nella seconda metà del prossimo decennio, terminati gli aggiustamenti dell’età di pensionamento, i tassi di crescita della spesa pensionistica dovrebbero risalire ma a livelli molto più bassi rispetto a quelli sperimentati nella prima metà degli anni novanta. Questa dinamica è frutto di una tendenziale stabilità nel numero di pensioni e di un incremento costante delle pensioni medie, dovuto alla maggiore durata delle carriere all’atto del pensionamento. Quando dal medio periodo si passa a considerare l’evoluzione nel lungo termine, si può utilizzare come riferimento la già citata analisi del gruppo europeo di esperti sull’invecchiamento operante nell’ambito dell’EPC. E’ da sottolineare che le proiezioni sviluppate sulla dinamica futura della spesa non hanno considerato solo i cambiamenti demografici ma anche le possibili modifiche nei tassi di partecipazione alla forza lavoro della popolazione e dei tassi di disoccupazione. Ciò equivale a dire che la sostenibilità finanziaria dei sistemi di protezione sociale non viene a dipendere tanto dal peso della popolazione anziana, quanto dalla sua incidenza sulle persone attive e, ancor più, sugli occupati. Nelle proiezioni, sono state perciò introdotte ipotesi sugli andamenti tendenziali di queste variabili (tasso di partecipazione e di disoccupazione) e sono stati costruiti due indici di dipendenza economica, uno “potenziale”, dato dal rapporto tra le persone di 15 o più anni non appartenenti alla forza lavoro e gli appartenenti alla forza lavoro, e uno “effettivo” ottenuto invece dal rapporto tra persone di 15 o più anni non occupate e numero totale delle persone occupate. Il valore di questi indicatori è ovviamente maggiore del tasso di dipendenza demografica poiché solo una parte della popolazione in età di lavoro è realmente attiva. Tuttavia, nell’arco dei cinquant’anni su cui è fatta la proiezione, la variazione percentuale degli indici di dipendenza economica risulta molto più contenuta rispetto all’indice demografico (7) e, per alcuni paesi, tra cui l’Italia, tale variazione appare ancora più ridotta, poiché maggiore è lo spazio per l’incremento dei tassi di attività e per la riduzione dei tassi di disoccupazione, che sono spinti dai maggiori vincoli dal lato dell’offerta dovuti alla stessa riduzione delle persone in età di lavoro. Dai risultati si ricava che nei prossimi cinquant'anni la spesa per pensioni in rapporto al PIL dovrebbe crescere di circa tre punti percentuali nella media dei Paesi europei, anche se si segnalano notevoli differenze nel profilo temporale e nella dimensione delle variazioni per ogni Paese. Le proiezioni riguardanti l’Italia si sono basate sul modello della Ragioneria Generale dello Stato (8), che considera un aggregato di spesa composito, comprendente i normali trattamenti di vecchiaia, le invalidità, i prepensionamenti, le pensioni ai superstiti e ogni altra forma di sostituzione del reddito per le persone oltre i 55 anni di età. L’esito della proiezione indica che l’Italia, pur avendo inizialmente un peso abbastanza elevato di spesa per pensioni sul PIL, è però tra i paesi che mostrano la maggiore stabilità nel rapporto, con un percorso che sale di circa due punti percentuali nella fase intermedia (intorno al 2030) per poi riprendere la discesa e arrivare a un livello pressoché analogo a quello attuale.

In altre parole, le proiezioni sull’arco di cinquant’anni confermano che il nostro paese ha un profilo tendente alla stabilizzazione della spesa, grazie agli effetti di lungo periodo del sistema contributivo; inoltre, il divario iniziale della quota di spesa per pensioni sul PIL a sfavore dell’Italia, sebbene persista per un periodo abbastanza lungo, tende negli ultimi due decenni a sparire approssimando la media generale. E’ interessante aggiungere che nelle proiezioni del confronto europeo viene messo in luce anche il ruolo esercitato dai diversi fattori nel determinare l'andamento del rapporto tra spesa per pensioni e PIL. Tali fattori sono ricollegabili rispettivamente all’invecchiamento della popolazione, alla variazioni del tasso di occupazione, alla modifica dei requisiti per accedere alla pensione e agli eventuali cambiamenti nel metodo di calcolo delle prestazioni. La scomposizione della variazione totale del rapporto tra spesa pensionistica e PIL secondo questi quattro fattori mostra che nella media europea l’effetto maggiore si deve alla dipendenza demografica e, parzialmente, alle modifiche nei requisiti di accesso. Contrastano la tendenza espansiva la riduzione delle prestazioni e, in minore misura, l’aumento del tasso di occupazione. Rispetto a questi dati medi, l’Italia registra valori piuttosto diversi, con una forte influenza negativa del tasso di dipendenza demografica, contrastato solo in parte dall’applicazione di criteri di accesso al pensionamento più restrittivi e, in misura molto più consistente dall'aumento del tasso di occupazione e dalla riduzione del valore medio dei trattamenti pensionistici rispetto ai redditi da lavoro.

4. LA DELEGA PREVIDENZIALE E IL SUCCESSIVO EMENDAMENTO DEL GOVERNO

Le decisioni prese dal governo all’indomani della prevista verifica degli effetti finanziari della riforma pensionistica effettuata dalla Commissione Brambilla, che peraltro aveva confermato nel rapporto conclusivo la maggior parte dei punti elencati in precedenza (9), sono andate in una direzione decisamente diversa dai suggerimenti dettati dalla stessa Commissione. Il governo, infatti, ha presentato una legge delega che ha avuto un percorso accidentato, dal momento che all'inizio essa mancava della copertura finanziaria per le misure contenute. Da ciò è derivata la necessità di un primo emendamento del governo, che ha proposto una procedura decisamente insolita e forse anche in contrasto con il dettato della legge di bilancio, rinviando l’attuazione dei provvedimenti onerosi a successive leggi finanziarie. Lo scorso ottobre, il governo ha presentato un secondo emendamento con contenuti aggiuntivi che introducono modifiche sostanziali all’attuale normativa previdenziale, sia per la fase transitoria, sia per l’andata a regime del sistema contributivo. Per una valutazione complessiva della proposta governativa, i contenuti della delega e quelli dell’emendamento alla delega vanno visti congiuntamente, sia perché agiscono complessivamente su più punti della normativa, sia perché nei due dispositivi si combinano in varia misura e con segni diversi gli effetti finanziari. Per cominciare dalle misure originariamente previste nella delega, uno dei punti più discussi è senz'altro rappresentato dall'ipotesi di ridurre fino a cinque punti percentuali gli oneri contributivi dovuti dal datore di lavoro sui nuovi assunti. In relazione a questo provvedimento, va innanzi tutto rilevato che esso contrasta in modo netto con le regole dell'attuale sistema pensionistico che si ispira tanto all'armonizzazione dei trattamenti quanto al mantenimento di una diretta relazione tra contributi versati e misura della prestazione pensionistica. Il contenuto della delega altera cioè il quadro previsto per realizzare gli obiettivi di equità e uniformità dei rendimenti all'interno di una generazione e tra successive generazioni. A regime, essa determinerebbe una differenza di cinque punti tra l’aliquota di finanziamento e quella di computo, con un onere che ricadrebbe sulla fiscalità generale e che riguarderebbe solo i trattamenti dei lavoratori dipendenti, poiché la condizione prevista per i lavoratori autonomi resterebbe invariata. La differenza, che si riflette sul costo del lavoro, crea anche uno svantaggio duraturo per i lavoratori in essere rispetto alle leve di nuova assunzione, con possibili effetti sul turn-over della manodopera e, soprattutto, con ripercussioni negative sulle prospettive di prolungare l'attività per i lavoratori più anziani. Da ciò emerge un'incoerenza di fondo tra questo dispositivo e altre misure che mirano all'attivazione dei lavoratori alla soglia della pensione. In altre parole, uno sgravio differenziato sugli oneri contributivi rischia di spiazzare ancora di più l’occupazione dei lavoratori più anziani in termini di costo del lavoro. Va aggiunto che sotto il profilo tecnico l’applicazione della decontribuzione presenta anche altri problemi, perché essa non avrebbe a riferimento l'impresa che assume - come è prassi per gli incentivi territoriali e occupazionali - ma competerebbe al singolo lavoratore che diventa titolare di una agevolazione contributiva permanente. Poiché non è detto che il dispositivo che prevede la decontribuzione debba rimanere per sempre nel sistema, si potrebbe avere nei prossimi anni una situazione totalmente anomala nel mercato del lavoro, dove i lavoratori pagano aliquote diverse in base all'annata di assunzione: una situazione che contrasta con ogni logica di utilizzo degli incentivi economici e che avrebbe anche qualche rilievo costituzionale. Da ultimo non può essere nemmeno trascurato il fatto dell'onerosità del provvedimento e dei problemi di bilancio che esso creerebbe per l'Inps. La decontribuzione per i nuovi assunti, infatti, secondo i calcoli effettuati dalla Ragioneria Generale sulla delega presentata lo scorso anno alla Camera dava luogo a minori entrate per 780 milioni di euro al terzo anno, al lordo degli effetti fiscali, nell’ipotesi che, in sede di legge finanziaria, fosse stata adottata una riduzione di cinque punti per le generazioni assunte nel successivo triennio. La quantificazione di questo onere è stata peraltro una delle ragioni di stallo della delega che, come ricordato in precedenza, non aveva inizialmente previsto coperture, o meglio, aveva grossolanamente indicato negli incrementi occupazionali e nel relativo aumento delle basi imponibili la fonte di compensazione. Un altro punto molto controverso della delega è quello che riguarda l'incentivazione per la prosecuzione dell’attività lavorativa. La norma dà la possibilità al lavoratore che sceglie di rinviare il pensionamento oltre i requisiti minimi di beneficiare di una totale esenzione contributiva, che entrerebbe per intero nella busta paga non essendo assoggettata a prelievo fiscale. Circa questa proposta, va innanzi tutto ricordato che uno schema, più limitato e meno conveniente, è già presente da qualche anno nel nostro ordinamento ma ha finora raccolto scarso interesse da parte dei lavoratori. Tra i principali punti critici per l'applicazione del provvedimento, bisogna poi considerare la difficoltà a imporre per legge il trasferimento al lavoratore di una quota dei contributi non versati. Imporre dall'esterno obblighi relativi alla fissazione della retribuzione, anche se si tratta del trasferimento di una quota di contribuzione dovuta dal datore, non è infatti semplice e non è nemmeno garantito che il risultato sia stabile nel tempo, dal momento che l'ammontare complessivo è difficilmente distinguibile dalla retribuzione lorda che, nel sistema italiano di contrattazione dei salari, è prerogativa di un accordo negoziale tra le parti. La questione può essere criticata anche sotto il profilo delle convenienze. In primo luogo, la finanza pubblica che dal provvedimento trae un beneficio insignificante. Stando ai calcoli della RGS, l’esito di questa misura sul fabbisogno dello Stato è infatti positivo ma di entità molto limitata, pari a circa 80 milioni di euro annui nel triennio 2005-2007. Ciò in ragione del fatto che il risultato complessivo dipende dalla concorrenza di due fattori: uno rappresentato dalle prosecuzioni indotte dall’incentivo, che garantiscono alle casse pubbliche la differenza tra il trattamento pensionistico da erogare e la mancata contribuzione; l’altro dal numero di persone che, con la normativa vigente, avrebbero comunque continuato a lavorare e quindi a contribuire. Sempre in termini di convenienza, se si accetta che non si crei confusione tra contributi trasferiti e definizione della retribuzione lorda, anche i datori di lavoro escono alla pari dall’applicazione dell’incentivo.


Da ultimo, ma di sicuro non meno importante, non si capisce come la misura possa convenire ai lavoratori. Affinché questo punto sia chiaro, occorre ricordare che per la stragrande maggioranza delle pensioni di anzianità, al raggiungimento dei requisiti, il valore attuale dei futuri trattamenti è tanto più alto quanto prima un individuo si ritira e ne beneficia. Chi continua, per ogni giorno di lavoro in più, ha una perdita in termini di valore attuale della pensione. L’incentivo previsto dal governo congela la pensione maturata, per cui è vero che il lavoratore incassa la contribuzione, ma non matura nessun aumento reale di pensione. Un ammontare identico di pensione, rivalutato solo per l'inflazione, verrà perciò pagato per un numero atteso di anni inferiore; da un punto di vista attuariale un lavoratore perde perciò soldi, anche se l’aumento del salario derivante dall'aggiunta dei contributi è esentato dal prelievo fiscale. Circa i meccanismi di convenienza, è poi da sottolineare che il dispositivo previsto dal governo potrebbe risultare ancora meno motivante per i lavoratori dato che essi, in forza di una norma dell'ultima finanziaria, al compimento del cinquantottesimo anno di età possono già cumulare un reddito da lavoro con l'intera pensione.

Le numerose obiezioni mosse ai contenuti della delega, sono state ultimamente sovrastate da altre critiche dirette a uno dei punti centrali della manovra governativa, che è comparso nel recente emendamento: vale a dire l'introduzione dei 40 anni di contribuzione per maturare il diritto alla pensione di anzianità a partire dal 2008 e degli altri limiti di età anagrafica imposti anche ai requisiti del nuovo regime. Per analizzare questi punti è bene distinguere tra modalità pensionamento in base al vecchio sistema retributivo e al nuovo regime contributivo. Partendo da quest'ultimo, occorre ricordare che il sistema contributivo introdotto dalla riforma Dini ha previsto una fascia flessibile per il pensionamento che andava dai 57 ai 65 anni e un requisito minimo di durata assicurativa di 5 anni, per tenere conto anche di carriere brevi caratterizzate però da una regolare contribuzione. Un ulteriore limite previsto dal sistema è quello di aver maturato a calcolo una pensione del 20% superiore all’assegno sociale, in modo da disincentivare i ritiri in età anticipate quando l'ammontare della pensione è relativamente basso e può essere incrementato con qualche anno di permanenza al lavoro. L'introduzione dei 40 anni di contribuzione, o in alternativa di limiti inferiori di età anagrafica pari a quelli validi per i trattamenti di vecchiaia nel sistema retributivo, considerando che la scolarità media è in aumento e che c’è una maggiore discontinuità nel lavoro, equivale a riproporre di fatto un’età centrale di uscita intorno ai 63 anni. Ciò vuol dire che la fascia di età flessibile dai 57 ai 65 anni diventa per tre quarti inoperante e il sistema torna ad essere in pratica rigido, perdendo una delle caratteristiche molto apprezzate della Riforma Dini. La flessibilità, infatti, corrisponde anche a una visione più matura delle scelte dell’individuo. La mediazione è tra un'attenzione alla tutela per il reddito delle persone anziane come decisione pubblica e una maggiore rispetto delle scelte individuali. In altri termini, è giusto che lo stato si preoccupi che un anziano abbia le risorse per vivere dignitosamente, ma se una persona è in grado di fare un’altra attività meno rigidamente regolata, che gli rende la vita più agevole, e decide che la pensione maturata a 57-58 anni è sufficiente, con le regole della “Dini” è nella condizione di scegliere liberamente. La regola introdotta con il contributivo teneva poi conto anche del fatto che vi sono lavoratori che faticano a mantenere il proprio lavoro oltre certe soglie di età, per cui passando dall'assenza di un limite anagrafico inferiore ai 57 anni già si creava un gradino non irrilevante per le attuali condizioni di mercato del lavoro. A questo punto, se per ritirarsi dal lavoro, servono più o meno a 63 anni, significa che viene introdotto un ulteriore gradino di sei anni, cioè un periodo più lungo di quello che ha rappresentato storicamente la durata media di un prepensionamento. In questa nuova situazione, senza altri interventi seri sul mercato del lavoro per favorire la prosecuzione della carriera degli ultracinquantenni, molti lavoratori continuerebbero a rischiare di essere estromessi dall'attività lavorativa e di non avere un salario, senza avere diritto alla pensione perché non hanno maturato i requisiti. Non è perciò fuori luogo pensare che, come è già accaduto in altri paesi europei dove sono state adottate età rigide di pensionamento, serviranno altri strumenti monetari per sostenere il reddito di questi lavoratori: strumenti che però attualmente in Italia non ci sono. Se si guarda all'applicazione dei nuovi requisiti di pensionamento ai trattamenti calcolati con il sistema retributivo, nel quale rimane attivo l'istituto dell'anzianità, qualche motivazione più plausibile per un intervento potrebbe essere trovata. Un’obiezione ragionevole, ad esempio, e che se si è accettato che con l’allungamento medio della vita venissero elevati i limiti di età della pensione di vecchiaia, per le stesse ragioni si può sostenere che anche il limite per le pensioni di anzianità debba essere gradualmente allungato. Poiché però con la riforma Dini si era già raggiunta un mediazione ragionevole, basata sugli anni di anzianità o su un mix tra anzianità contributiva ed età, visti anche gli andamenti dei conti della previdenza nel prossimo decennio, nulla premeva perché si facesse un intervento così radicale, a partire da un dato istante nel tempo coincidente con l'inizio del 2008. Ciò peraltro induce a comportamenti distorti, in quanto da qui ad allora ci saranno molte più uscite anticipate. Inoltre, come mostrano le proiezioni aggiornate della RGS, questa manovra non solo mantiene stabile la spesa pensionistica sul PIL, ma crea una temporanea riduzione del rapporto, che dura per qualche anno, perché bloccando da un giorno all’altro le uscite dal sistema previdenziale prevale quello che viene chiamato “effetto numero”, cioè rallenta la crescita del numero di pensioni da pagare, ma con il passare del tempo, il rapporto tende a risalire perché il flusso dei lavoratori bloccati matura i nuovi requisiti e, soprattutto, la spesa registra il cosiddetto “effetto importo”, dato che i trattamenti pensionistici maturati con una durata contributiva più lunga saranno di ammontare più elevato.

5. ALCUNE CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Per concludere, tenendo conto di quanto si è visto nella prima parte circa gli andamenti della spesa pensionistica e considerando gli effetti negativi e le molte incoerenze presenti nelle misure previste nella delega previdenziale del governo, si possono formulare alcune ipotesi di lavoro che potrebbero forse servire anche come spunto per l'agenda del sindacato, chiamato dallo stesso governo a esprimere una propria posizione sulla materia. In primo luogo, come dimostra il rapporto redatto lo scorso anno nell’ambito delle procedure di cooperazione europea (10), il sistema previdenziale italiano passato al regime contributivo offre nel lungo periodo garanzie di sostenibilità finanziaria maggiori rispetto ai sistemi pensionistici di quasi tutti gli altri paesi. Piuttosto - lo segnala lo stesso rapporto - c’è un problema serio che riguarda la cosiddetta “adeguatezza” dei redditi pensionistici degli anziani e, quindi, la necessità di intervenire a favore delle parti più deboli del sistema, ossia le lavoratrici e i lavoratori con carriere discontinue e meno brillanti. La sostenibilità, peraltro, è un termine solitamente impiegato per valutare l'andamento del debito pubblico, la cui determinazione dipende dalla tendenza del debito a stabilizzarsi o meno rispetto al PIL. E’ evidente che in tal caso, la situazione è diversa se il debito si stabilizza al 150% del PIL o ad esempio al 60%, come prevedono i parametri di Maastricht, perché di questo risultato ne risentono le condizioni di flessibilità del bilancio pubblico. Per le pensioni, quando c’è uno squilibrio strutturale nella composizione per età della popolazione come in Italia, per reggere la situazione è necessario mettere in conto un periodo abbastanza lungo – almeno fintanto che l’attuale denatalità ridurrà il flusso di coloro che passano la soglia dei 65 anni e, di conseguenza, il valore dei rapporti di dipendenza - nel quale la spesa pensionistica peserà in misura cospicua sul PIL. Un’evoluzione come questa non è però necessariamente drammatica e può reggersi anche con tassi medi di crescita normali, intorno al 2%. A differenza di quanto sostiene chi trascura che i sistemi economici crescono, non è infatti detto che le persone che lavorano devono ridurre il proprio potere d’acquisto per tenere in vita i pensionati e anche una distribuzione dei redditi che assegna una quota del 15% alle pensioni è un dato che può coesistere con redditi reali pro-capite in aumento delle persone attive. La finanza pubblica italiana sta però attualmente attraversando un momento molto critico e, quindi, anche la cosiddetta gobba pensionistica potrebbe in qualche misura essere considerata un peso troppo gravoso da sostenere per le casse pubbliche. In realtà, a suo tempo la commissione Onofri istituita dal governo Prodi aveva già proposto che la spesa sociale e la stessa spesa per pensioni dovessero anch’esse avere un ruolo nel risanamento della finanza pubblica. L'ipotesi era che si sarebbe ottenuto come risultato una diminuzione della spesa corrente per gli interessi sul debito e che, attraverso accordi di politica dei redditi, i benefici attesi da questo sforzo sarebbero negli anni successivi ricaduti anche sulla spesa sociale. I risparmi ottenuti con le politiche di risanamento dai governi di centro sinistra sono ben più consistenti dei due punti di deficit che dovrebbe generare la cosiddetta gobba. Perciò non è insensato pensare che almeno una parte di questa “riserva”, ottenuta anche grazie al fatto che i lavoratori hanno accettato una radicale riforma delle pensioni, possa essere utilizzata proprio per far fronte alla gobba. In questo senso, l’aggravante delle misure proposte dal governo Berlusconi è che esse toccano generazioni che già sono state chiamate a rivedere le loro aspettative pensionistiche. Nel gioco degli accordi di politica dei redditi, l’attuale governo si sta cioè comportando come chi non vuole più rispettare le regole. Anche il rapporto finale della Commissione Onofri chiedeva ai lavoratori di tenere cristallizzato il rapporto tra la spesa per la protezione so

Lunedì, 1. Dicembre 2003
 

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