La vittoria del capitale

Secondo i dati del Fondo monetario la quota di Pil destinata alla remunerazione del lavoro è scesa nell’Europa continentale dal 73,1% del 1980 al 63,6% del 2005. La globalizzazione, non regolata da adeguate politiche, ha spostato i rapporti di forza faticosamente costruiti nel secolo scorso

Come far virare a sinistra l’effetto dei processi di globalizzazione era in titolo di un contributo che, attraverso E&L, ritenemmo di poter dare alla formazione del programma col quale l’Unione guidata da Prodi si sarebbe presentata alle ultime elezioni politiche. Nel pur ridondante programma che fu poi presentato, non vi è traccia dei temi e delle argomentazioni poste da quel contributo, né tanto meno la proposta di interventi volti a governare quei processi. Eppure, la tesi secondo la quale la globalizzazione produce effetti di destra che dovrebbero porre qualche problema per le forze politiche di orientamento progressista e laburista si è confermata fondata, si potrebbe dire drammaticamente fondata, in quanto determinata da fenomeni e tendenze di lungo respiro che non possono essere invertite, e neppure arrestate, nell’arco temporale di qualche anno.

La principale conferma sugli effetti redistributivi della globalizzazione è venuta da una analisi del Fondo monetario internazionale nella quale si evidenzia, tra l’altro, come la quota di Pil destinata alla remunerazione del lavoro sia scesa nell’Europa continentale dal 73,1% del 1980 al 63,6% del 2005. A causa di questa caduta, le retribuzioni reali medie di quanti lavorano sono rimaste sostanzialmente stazionarie da almeno dieci anni, il che significa ovviamente che per una quota consistente il potere d’acquisto si è addirittura ridotto. Non sono disponibili dati disaggregati, ma non mancano indicatori che inducono a ritenere anche l’Italia coinvolta quanto, e forse anche più, di altri Paesi da queste tendenze redistributive.
 
Una delle più nette indicazioni è data dall’andamento dei mercati azionari che proprio in queste settimane vanno stabilendo, o si accingono a stabilire, nuovi record storici delle quotazioni. Il valore delle azioni – si sa – è dato dalla redditività che da esse ci si attende. In questi anni il loro rendimento è già sensibilmente salito, ma l’orientamento al rialzo non manifesta alcun sintomo di essere giunto in prossimità di un capolinea. I bilanci delle società quotate che proprio in queste settimane vengono approvati espongono in grandissima maggioranza, come già da qualche anno, utili e dividendi in crescita. Una crescita coerente – chiunque potrebbe spiegare – col fatto che l’economia mondiale è in forte espansione, i commerci si intensificano, e persino il Pil italiano è riuscito a lasciarsi alle spalle gli anni della stagnazione.

La differenza rispetto ai decenni passati sta nel fatto che all’aumento del valore attribuito al capitale investito, rappresentato in prima approssimazione dai titoli azionari, non ha corrisposto alcun aumento del valore attribuito all’altro fattore della produzione, cioè al lavoro. I singoli lavoratori di quella crescita non si sono quasi accorti. Il loro potere d’acquisto, come già ricordato, è fermo ormai da anni, qualche leggero miglioramento essendo stato compensato dalla quota di precari che tonifica i dati sulla occupazione, ma comprime la retribuzione media di quanti la statistica considera occupati.

I mezzi di informazione evitano per lo più la trattazione di questi temi, impegnandosi piuttosto nella celebrazione delle virtù del liberismo e dell’autonomia dei mercati finanziari. Ciò nondimeno la individuazione delle loro cause non è né arcana, né complessa.

Nella prima metà del secolo passato il lavoro rivendicò ed ottenne (e non fu certo facile) il riconoscimento, tra i fattori della produzione, di una dignità almeno pari a quella che veniva attribuita al capitale. Grazie a quelle conquiste, la seconda metà del secolo è stata contrassegnata dalla dialettica tra capitale e lavoro per la spartizione dei frutti generati dalla crescita della produttività dovuta al progresso tecnico ed alla continua razionalizzazione dei processi produttivi. Ne derivò un’epoca di forte sviluppo non solo economico, ma anche e soprattutto sociale e civile con una progressione di innalzamento del benessere diffuso quale il mondo non aveva mai conosciuto.

Ora quella dialettica si è fortemente squilibrata; non avviene più ad armi pari. Le liberalizzazioni degli ultimi vent’anni consentono al capitale che deve essere impiegato nei processi produttivi di scegliere nel mondo intero la più conveniente combinazione esistente tra regime fiscale, vincoli ambientali, costi logistici, regole antinfortunistiche ed, ovviamente, costi diretti ed indiretti del fattore lavoro. Per contro, nei Paesi più evoluti sulla via del progresso materiale e civile, il lavoro ha perso la forza che gli derivava dall’essere indispensabile per realizzare ogni produzione, proprio perché l’impresa ha una libertà di scelte alternative che il lavoro in nessun caso può avere. L’imprenditore può scegliere di produrre dove i carichi fiscali sono più lievi perché non esiste o quasi alcuna forma di solidarietà sociale, dove le regole di salvaguardia ambientale sono più permissive e dove, soprattutto, le maestranze, i tecnici, i servizi costano meno. Il lavoratore, per contro, di fatto non ha scelta: se a sostegno delle proprie rivendicazioni sciopera, l’imprenditore non si troverà più nella impossibilità di produrre, ma potrà sempre trasferire la sua attività, o la parte di essa a maggiore intensità di manodopera, in qualche altro Paese.
 
Per questo motivo i processi di globalizzazione consentono alle imprese non solo una drastica riduzione dei costi, ma anche e soprattutto di acquisire pressoché interamente a profitti il beneficio di produttività che ne deriva in quanto la forza contrattuale del lavoro, direttamente o indirettamente, è stata spiazzata dalle condizioni alle quali il lavoro stesso viene offerto nelle aree del mondo che solo da poco si sono avviate verso lo sviluppo economico e civile. La stagnazione dei redditi reali da lavoro, la diffusione del precariato anche al dilà dei contratti atipici, la svalutazione del lavoro espressa dai contratti di solidarietà che prevedono aumenti di orari a parità di remunerazione, buona parte dell’economia in nero e persino la scandalosa frequenza degli incidenti altro non sono che singoli alberi della foresta della globalizzazione e di un liberismo dogmatico che tanto ha beneficiato il capitale quanto poco, o niente, ha portato al lavoro.

I liberisti avevano promesso una storia diversa. Avevano prefigurato un mondo nel quale i Paesi più evoluti avrebbero rinunciato alle produzioni a più bassa tecnologia e più basso valore aggiunto a beneficio dei Paesi più arretrati che così avrebbero potuto affrancarsi comunque dal sottosviluppo e dall’indigenza. I Paesi più sviluppati, nello stesso tempo, avrebbero potuto dedicarsi maggiormente alle produzioni più avanzate, specialistiche, innovative così accrescendo sviluppo e benessere diffuso. Questi liberisti, o almeno quelli tra loro intellettualmente onesti, dovrebbero dare spiegazioni realistiche e convincenti dei motivi per i quali le cose sono andate e stanno andando tanto diversamente.

 

 

 

Giovedì, 10. Maggio 2007
 

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