La tutela del lavoro nell'Unione europea

Lo strano europeismo del Governo italiano
1.- È difficile per l'osservatore italiano, che nella tarda primavera del 2002 voglia scrivere di "tutela del lavoro nell'Unione europea", prescindere dalla critica situazione di conflitto tra le Parti sociali nel nostro Paese: non foss'altro perché l'attuale fase di divisione sindacale e l'assenza di una autentica concertazione sociale sembrano rendere ardua persino l'impresa di garantire e rendere efficaci elementari tutele, come sono alcune di quelle dettate dalle istituzioni comunitarie.
 
La difficoltà è accentuata dal fatto che il Governo in carica afferma con disinvoltura che alcuni provvedimenti già adottati ed altri in cantiere, peggiorativi di normative precedenti, sono coerenti con norme e programmi comunitari, e che in ogni caso essi contribuiscono ad allineare il nostro sistema di tutele a quello "più flessibile" di altri Paesi, poco importa se si tratti di Stati membri dell'Unione europea oppure, se risulti più suggestivo, degli Stati uniti o del Giappone. Tale esercizio dialettico viene ripetuto dai rappresentanti del Governo e del Ministero interessato con ammirevole perseveranza e creativa fantasia, sia nei mezzi di comunicazione popolare che nei più solenni luoghi ed atti istituzionali.
 
Questa vocazione artistica ha trovato significative espressioni in varie occasioni: tra quelle che hanno causato le polemiche più accese in sede sindacale si ricordano la recezione della Dir. n. 99/70, relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, e la discussione intorno al Libro Bianco del Ministero del Lavoro e alle deleghe legislative sul mercato del lavoro (e, in particolare, sul significato di "dialogo sociale" o sulla modifica dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori). In queste occasioni, così come rispetto ad altre materie, ugualmente rilevanti, il Governo ha dato mostra di un orientamento euroscettico che non si riduce all'interpretazione restrittiva di questa o quella norma comunitaria, ma si spinge fino a ridimensionare i principi stessi dell Unione europea, mortificando il senso di appartenenza ad una Comunità più ampia di diritto, di cui sembra giusto cogliere i vantaggi e i benefici (ad esempio i finanziamenti) ma decisamente sbagliato rispettare gli obblighi.
 
Il ridimensionamento delle regole comunitarie è peraltro funzionale a quello delle regole interne, qualificate in genere come rigidità, da ridurre o eliminare dopo una paziente opera di comparazione con altri sistemi, di cui vengono con dovizia forniti riferimenti normativi o statistici. In genere si tratta di una comparazione condotta tra "segmenti" di istituti, cogliendo "fior da fiore" tra quelli ritenuti più rassicuranti, e per lo più sulla base del solo confronto testuale di singole disposizioni di legge, opportunamente enucleate dal complessivo contesto di tutela (che spesso è anche di fonte contrattuale, e implica per lo più il coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori, anche in sedi di codeterminazione, nonché delle amministrazioni interessate, in forma attiva, e come erogatrici di servizi oltre che di aiuti o indennità.

2.- Val la pena di annotare che questa forma di comparazione serve assai poco quando si tratta di trasporre direttive comunitarie negli ordinamenti interni, o di rispettare in genere il "comune patrimonio normativo dell'Unione europea". Gli Stati membri hanno infatti l'obbligo di recepire le direttive in tutte le loro parti. Sul punto la Corte di Giustizia non sembra lasciare molti spazi ai legislatori nazionali: essa ha infatti affermato che "uno Stato membro soddisfa tutti gli obblighi che gli incombono in virtù di una direttiva solo qualora tutte le disposizioni della medesima siano state espressamente integrate nella sua normativa" (Corte Giust., sentenza 8 luglio 1992, in causa 270/91). Si noti che la Corte usa il termine "integrate", che si adatta bene, dunque, anche a previsioni non dettagliate ma di principio, che abbondano nella Dir. 1999/70, relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, direttiva 99/70 e nell'accordo quadro ad essa allegato.
 
Con riferimento a quest'obbligo, si fa notare che – a differenza della nuova legge tedesca sul contratto a termine, anch'essa emanata per recepire la Dir. 1999/70, relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato – la nuova legge italiana, nella sua formulazione complessiva, si discosta in certi punti cruciali dall'impianto complessivo del dettato comunitario (in cui non può non assumere valore giuridico il testo dell'accordo allegato alla direttiva.
 
Il riferimento è, in particolare, ai seguenti aspetti:
a) la possibilità di ricorso al lavoro precario, che la direttiva e l'accordo consentono non sempre e in ogni caso, ma solo "in alcune circostanze", fermo restando che "i contratti di lavoro a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro": il che pare corrispondere a quel rapporto fra regola (assunzione a tempo indeterminato) ed eccezione (lavoro a termine) che dovrebbe ancora vigere nel nostro ordinamento, anche se la posizione del Governo fa pensare che non sia più così. A differenza che nella legislazione tedesca, infatti, nella legislazione italiana il lavoro a termine sembra essere parificato a quello a tempo indeterminato, diventando una sorta di regola "parallela", fruibile sempre e comunque a discrezione del datore di lavoro. Né si dica che simile interpretazione tradirebbe l'intenzione del legislatore: al contrario, essa è confermata dalla (originaria) relazione di accompagnamento allo schema di decreto legislativo, ove testualmente si afferma che la "nuova normativa trasforma in una regola quella che è stata finora un'eccezione";
 
b) la clausola di non regresso, che la legge italiana – a differenza della legge tedesca – mostra di non rispettare ("bella forza", diranno alcuni: in Germania, prima della recente legge di recezione della direttiva comunitaria non c'era alcuna protezione legale, se non quella di fonte giurisprudenziale, anche di rango costituzionale, che aveva comunque enucleato alcune ipotesi dalla locuzione "motivi sostanziali", mutuata dalla giurisprudenza sui licenziamenti individuali. Per "clausole di non regresso" intendiamo quelle norme – poste a chiusura di varie direttive (come quelle sulla tutela della salute e della sicurezza, sul lavoro dei minori, sul lavoro a tempo parziale, sui congedi parentali, sull'orario di lavoro, in particolare in certi settori, sull'onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso) – che hanno la precipua funzione di evitare che la fase di recezione delle direttive sia l’occasione utile a vanificare gli scopi dell'armonizzazione, e della garanzia dell'effetto utile delle direttive, specie quando l'armonizzazione normativa fa perno sul principio di non discriminazione (come è il caso delle direttive sul lavoro a tempo parziale e a tempo determinato). Le clausole di non regresso, senza dubbio più facili da interpretare ed applicare quando accompagnano direttive dal contenuto più analitico, danno più filo da torcere all'interprete quando sono poste a chiusura di discipline poco prescrittive e molto di principio, come sono in genere quelle di genesi contrattuale e di impianto procedurale, che però sono anche quelle più esposte al rischio di un'applicazione assai differenziata nei diversi ordinamenti nazionali. È proprio per evitare tali rischi che l'interpretazione va condotta anche sulla base dei testi degli accordi collettivi allegati alle direttive, che contribuiscono a ricostruire l'effetto voluto dal legislatore comunitario assorbendo la volontà manifestata dalle parti sociali negli accordi;
 
c) connesso ai ricordati obblighi degli Stati membri è l'obbligo del giudice nazionale, "nell'applicare il diritto nazionale, di interpretarlo quanto possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva per conseguire il risultato perseguito da quest'ultima e conformarsi pertanto all'art. 189, 3o comma del Trattato (Corte Giust., sent. 26 settembre 1996, Proc. penale a carico di Luciano Arcaro);
 
d) non meno importante è, infine, l'obbligo degli Stati di garantire la portata e l'efficacia del diritto comunitario, in particolare vigilando a che le sanzioni adottate dai legislatori nazionali in caso di violazioni di norme e principi comunitari "abbiano carattere di effettività, di proporzionalità e di capacità dissuasiva" (Corte Giust., sent. 21 settembre 1989, Commissione/Grecia; nonché sent. 10 luglio 1990, Auklagemyndigheden/Hansen.
 
In altri termini, il legislatore nazionale può introdurre modifiche in peius di norme previgenti solo a condizione che tali modifiche non finiscano per vanificare di fatto il contenuto precettivo delle regole comunitarie (Corte Giust. Amsterdam Bulb, 1977; Von Colson, 1984). Gli Stati, insomma, godono di una "discrezionalità vincolata": in altre parole, pur in un contesto di libertà di scelta delle forme sanzionatorie e/o repressive, essi sono comunque obbligati a rendere effettivo il comune patrimonio normativo dell’Unione europea, orientandosi verso soluzioni che, anche quando non si sostanzino in rimessioni in pristino, o riparazioni in natura, rispondano pur sempre all'esigenza di assicurare una compiuta vigenza a norme di rango primario.
Il vincolo peraltro si irrigidisce quando si tratti di prescrizioni minime: qui la corretta lettura del principio di proporzionalità impone un innalzamento delle soglie minimali di difesa, richiedendo una maggiore attitudine protettiva alla sanzione preposta. Esula, tuttavia (e ritorno all'uso corretto della comparazione) ai fini del giudizio sulla proporzionalità e del grado di deterrenza dei diversi profili sanzionatori, qualsivoglia confronto comparativo tra ordinamenti diversi (come sostenuto, invece, dal Governo italiano, in occasione della recezione delle norme comunitarie sul contratto a termine, per giustificare modifiche peggiorative delle tutele precedenti), dovendo basarsi il giudizio relativo alla completa e integrale recezione delle norme esclusivamente sull' affidabilità dello strumento compulsivo prescelto e sulla comparazione all'interno dello stesso ordinamentale tra misure volte alla tutela di situazioni giuridiche di fonte comunitaria e misure poste a salvaguardia di posizioni fondate sul diritto interno (in questo senso le violazioni del diritto comunitario devono essere sanzionate in termini analoghi a quelli previsti per le violazioni del diritto interno "simili per natura ed importanza" (CGE, sent. 21 settembre 1989, cit.; nonché sent. 10 luglio 1990, cit.

3.- Fatte queste premesse, credo che valga la pena chiederci se gli orientamenti euroscettici del Ministro Maroni, e del governo in carica, siano solo frutto di opportunismo o se invece esprimano un malessere più radicato delle società nazionali, e in particolare di quella italiana, verso l'Unione europea. In fondo; si potrebbe obiettare: – cos'è cambiato nei rapporti tra l'Italia e la Comunità/Unione europea? In fondo – si potrebbe aggiungere – restiamo sempre la stessa Italia che era "europeista" a parole ma che, nei fatti, collezionava condanne per mancata o incompleta trasposizione delle direttive, o per violazione di principi posti a tutela della concorrenza e del mercato (come quelli sugli aiuti di Stato: l'ultima condanna, datata marzo 2002, riguarda l'uso improprio dei contratti di formazione lavoro).
 
È vero: ora siamo anche il Paese oggetto di attenzioni da parte della Direzione Mercato Interno, della Commissione, per presunto contrasto della L. 21 dicembre 2001, n. 443 (nota come "legge obiettivo"), con norme di direttive comunitarie (la Dir. n. 89/665 e la Dir. n. 93/37), concernenti le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori. Quel che di "nuovo" traspare dagli orientamenti euroscettici del Governo italiano è una più generale situazione di tensione nei rapporti tra Governi nazionali e Unione europea, proprio in un momento determinante dell'integrazione europea qual è l'attuale: successivo al positivo debutto della moneta unica e proiettato verso l'approfondimento istituzionale (con i lavori della Convenzione europea) e l'allargamento dell'Unione.
 
Queste tensioni sembrano esprimere una "voglia di fuga" dal diritto comunitario (non solo del lavoro) e dall'insieme di regole che l'Unione europea impone agli Stati. Una fuga per molti aspetti impossibile nei fatti, ma spendibile a parole, soprattutto in una campagna elettorale senza fine, come oggi viene intesa l'azione di governo. Per un altro verso, la "voglia" di fuga dalle regole comuni, o di un loro ridimensionamento, sembra acquistare in Italia maggior fondamento dopo la riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, con la trasformazione "in senso federale" dello Stato.
Non c'è dubbio, infatti, che nella definizione dei meccanismi di distribuzione e di esercizio delle competenze vanno considerate attentamente le conseguenze che derivano dall'appartenenza all'Unione europea e dalla riforma costituzionale: il "ritaglio" delle competenze dello Stato "verso il basso", attraverso la configurazione delle Regioni quali enti tendenzialmente a fini generali, forniti di potestà legislativa in principio parificata a quella dello Stato, non può non tenere conto della progressiva erosione di quelle stesse competenze "verso l'alto", se non si vuole relegare l'ambito di intervento statale ad una "risultante occasionale" di due sottrazioni. Ora, non potendo invadere oltre misura potestà normative proprie della Regione (anche se i fatti dimostrano il contrario, a giudicare dai ricorsi di alcune Regioni alla Corte costituzionale aventi ad oggetto alcune norme della legge finanziaria e della "legge obiettivo") al Governo non resta che lanciar sassi sull’Unione europea, ma senza caricare troppo il tiro.
 
L'operazione è più raffinata delle invettive del Ministro Bossi, e passa attraverso una complessiva rilettura del sistema delle tutele del lavoro dell'Unione europea nel suo complesso (principi, efficacia, modalità applicative, sanzioni) da adattare opportunamente agli obiettivi di governo, e su cui cercare il consenso degli "ospiti" del programma di intrattenimento chiamato "dialogo sociale".
 

4.- Un' applicazione di questa rilettura è data dal Libro Bianco del Ministero del Lavoro (ripreso in più punti dalla relazione al disegno di legge delega sul mercato del lavoro). Prendendo spunto dalla necessità di conciliare tra loro la "valorizzazione della potestà legislativa regionale" (a seguito della modifica del Titolo V della parte seconda della Costituzione) "e il principio di coesione sociale", e facendo riferimento ai principi enunciati nella Carta di Nizza, il Libro Bianco è sembrato auspicare una "normativa-cornice di carattere nazionale" che assicurasse "un sufficiente grado di tutela minima" (pp. 29-30 del Libro Bianco). Ma "l'imperativo di salvaguardare sempre e comunque i 'livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale' (art. 117 Cost.) ", implicherebbe "uno sforzo progettuale che comporterà necessariamente la rivisitazione di tutti gli istituti che compongono attualmente la legislazione nazionale in materia di mercati e rapporti di lavoro" (p. 30).
 
Questa proposizione ha suscitato varie perplessità tra gli esperti e nel mondo sindacale; e per vari motivi. Anzitutto perché dava un'interpretazione riduttiva della natura e dell'efficacia del diritto comunitario (in genere, non solo) del lavoro. In secondo luogo perché faceva coincidere "i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale" con una presunta "tutela minima" di fonte comunitaria, da ritagliarsi su essenziali enunciazioni di principio, quali sono quelle contenute nella Carta di Nizza, ignorando così un complesso acquis comunitario, che i Trattati e la stessa Carta di Nizza impongono di rispettare. Infine perché autorizzava le Regioni a pensare di poter riscrivere esse stesse ampi capitoli del diritto del lavoro, sulla traccia del rivisitato diritto nazionale, e magari di poter introdurre nuove flessibilità aggiuntive in quest'opera di micro-codificazione e di "grandi aspettative" di protagonismo regionale.
 
A tale equivoco induceva oltretutto un'interpretazione estensiva dell'espressione "tutela e sicurezza del lavoro", materia, come si sa, di competenza concorrente in base al nuovo art. 117 della Costituzione. A tal proposito il Libro Bianco sembrava ritenere che la potestà legislativa delle Regioni non riguardasse soltanto il mercato del lavoro, in una logica di ulteriore rafforzamento del decentramento amministrativo in atto, "bensì anche la regolazione dei rapporti di lavoro, quindi l'intero ordinamento del lavoro" (p. 28), enucleandolo dall'"ordinamento civile", attribuito invece dall'art. 117 alla competenza esclusiva dello Stato. Questo orientamento ha favorito dichiarazioni a favore di una "regionalizzazione" della tutela del lavoro in senso generale, e quindi del diritto del lavoro, non più concepito come diritto di prevalente fonte statale.
 
Un'applicazione di questo ragionamento, aggiungevano alcuni, avrebbe potuto riguardare anche la tutela in caso di licenziamenti individuali. Poiché non era chiaro cosa dovesse essere regolato dalla fonte statale (nel rispetto dei principi comunitari) e con quale grado di definizione e intensità, avrebbe potuto allora ritenersi "essenziale" – e quindi rimesso alla legislazione esclusiva dello Stato – solo il principio della giustificazione del licenziamento (come previsto dall' art. 30 della Carta di Nizza, ignorando però la più stringente previsione dell'art. 24 della Carta sociale del Consiglio d'Europa, da considerarsi oggi nella valutazione dei principi e delle norme inderogabili, essendo la Carta sociale richiamata espressamente dal Trattato sull'Unione europea, all'art. 6, e dal trattato della Comunità europea, all'art. 136, nonché dalla stessa Carta di Nizza), restando invece affidate alle Regioni le tecniche di reintegrazione o di risarcimento.
 
Questo ragionamento ha trovato sostenitori convinti anche tra i Presidenti delle Regioni, alcuni dei quali hanno sostenuto che le Regioni sono ormai abilitate a legiferare per modificare, nei propri territori, l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori nonché i procedimenti di tutela giurisdizionale, come l'arbitrato nelle controversie di lavoro (cfr. in proposito il documento della Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province autonome: "Prime osservazioni sul d.d.l. delega in materia di occupazione e mercato del lavoro", del 21 gennaio 2002, in preparazione dell'audizione delle Regioni al Senato).
 

5.- La rilettura in chiave minimalista del sistema di tutele del lavoro dell'Unione europea riverbera dunque effetti negativi sul raccordo tra fonti (comunitarie, nazionali e regionali). I risultati sono spesso indesiderati e imbarazzanti: essi vanno ben oltre le soglie del federalismo cd. "di tipo competitivo" e tendono a sminuire la funzione dello Stato come garante unitario dell'attuazione delle norme e delle disposizioni comunitarie. Il che non è consentito dalle istituzioni comuni, soprattutto nella materia del lavoro, dove la frammentazione e differenzazione estrema delle tutele si traduce in più frequenti rischi di dumping sociale, come tali sanzionati dalla Commissione e dai giudici comunitari.
 
Si aggiunga che una rilettura del genere – a voler usare correttamente il metodo comparato – non trova riscontri in nessun ordinamento federale dell'Unione europea. Né in Germania né in Spagna, ad esempio, viene messa in discussione la potestà normativa dello Stato in materie come quelle su menzionate: né le Comunità autonome spagnole, né i Länder tedeschi intervengono nel rapporto tra lavoratore e datore di lavoro, in quanto, appunto, rapporto tra privati, ma nemmeno sull'esercizio e le manifestazioni dell'autonomia collettiva, anch'essa sicuramente ricompresa nell'ambito privatistico dell'autonomia contrattuale. Altrettanto dovrebbe essere nel nostro ordinamento, come opportunamente fa rilevare il CNEL nelle "Osservazioni e proposte" approvate dall'Assemblea del 24 gennaio 2002, peraltro mai ufficialmente condivise dal Governo.
 
Quel che manca nella rilettura minimalista dei principi, comunitari e nazionali, è la corretta valutazione dei vantaggi derivanti dall'assetto federale complessivo dell’Unione europea. Le norme costituzionali interne, e quelle comuni dell'Unione europea, di fatto attribuiscono al potere centrale il compito di definire, nel rispetto dei vincoli costituzionali nazionali ed europei, la soglia di quel che deve essere sottratto alla mutevolezza delle scelte regionali. Ma questa soglia misura, a sua volta, il grado di differenziazione e disuguaglianza accettabile dall'ordinamento interno. Che a ben vedere non è poca cosa.
  
Giovedì, 11. Luglio 2002
 

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