La via per tornare all’unità d’azione

Per affrontare i radicali mutamenti sociali degli ultimi anni serve un cambio di passo. Alcuni punti essenziale per elaborare una “piattaforma per il cambiamento” da proporre a tutto il sindacato confederale, che parta dalla nuova voglia di partecipazione emersa nella società

Costatare come la nostra società e l’economia siano da tempo immerse in una profonda trasformazione è affermazione incontestabile, ma è anche, ormai, quasi una litania stancante per molti che di quel cambiamento faticano a percepire il senso e la direzione. E che spesso ne temono le conseguenze.

 

Si tratta di dinamiche ben comprensibili: i processi evolutivi sono tanto più complessi e faticosi quanto più profondi e radicali; ed è indubbiamente ciò che caratterizza questo inizio di secolo. Poi avvengono accelerazioni improvvise ed impreviste; saperle decifrare tempestivamente e orientarle socialmente (o politicamente) è il banco di prova della valenza degli attori sociali (o politici) e della qualità delle classi dirigenti.

 

Anche di ciò gli avvenimenti più recenti ci danno conto. Penso alla recenti elezioni amministrative, all’insospettato protagonismo di massa che esse hanno evidenziato e alle potenzialità di ulteriori novità che il loro esito ha reso evidenti. Penso anche, allungando lo sguardo, allo straordinario sommovimento che investe la sponda sud–est del Mediterraneo (tutte le Cancellerie e i commentatori hanno, significativamente, avvertito l’esigenza di dichiarare la propria sorpresa di fronte a tali eventi). Penso ai fermenti inusitati che soprattutto le giovani generazioni stanno animando in Spagna, in Grecia. E penso anche alla nuova vitalità di movimenti di contestazione delle vecchie politiche economiche che si stanno manifestando fin dentro il cuore della vecchia Europa (agli ecologisti tedeschi, al dibattito liberatosi attorno alla prospettiva dei Referendum in Italia, ecc.).

 

Ciascuna di queste vicende è determinata da ragioni specifiche ed evolve secondo dinamiche proprie; nessuna lettura superficiale e generica è consentita e comunque non è nelle intenzioni di chi scrive. Ma non v’è dubbio che la parola “cambiamento” ha assunto in questi ultimi giorni un significato più pregnante e reale, anche limitando l’orizzonte della riflessione agli accadimenti che si verificano nella nostra Italia, come qui interessa fare.

Il cambiamento è ora percepito come possibile e leggibile nei suoi contenuti e nelle sue conseguenze; anche la percezione che il cittadino mostra di avere di sé in quanto agente del cambiamento è un dato nuovo, dopo anni di speranze e attese che parevano destinate ad una eterna frustrazione. Nel senso comune la determinazione all’agire pare prendere il posto del disagio e della semplice denuncia.

 

A scanso di equivoci si impone un ulteriore richiamo alla prudenza e alla cautela: non sto descrivendo processi incontrovertibili e conclamati; si tratta piuttosto di un tentativo di interpretazione di vicende che pure hanno una indubbia evidenza. D’altronde chi guarda con passione e coinvolgimento alle vicende socio–politiche della propria comunità ha l’obbligo di interpretare i “segni” del proprio tempo, e trarne idee per il futuro possibile.

Dunque: la politica italiana si è rimessa in movimento; molti affermano – e forse è vero –  che è iniziata l’era “post–berlusconiana”, e forse si sta stemperando anche lo scetticismo che ha a lungo accompagnato presso l’opinione pubblica l’agire della opposizione politica.

Ma è soprattutto alle prospettive della politica economica e alle sue ricadute sociali che interessa in questa sede volgere l’attenzione; in particolare all’azione del Sindacato Confederale e della Cgil.

Nel corso dell’ultimo decennio – la lunga stasi determinata dalla cappa del berlusconismo –  la Cgil ha tenuto vivi vari fronti di iniziativa, di denuncia e di aggregazione attorno a diversi momenti di mobilitazione; anche esponendosi ad accuse, per lo più immotivate, di deriva massimalistica. Ma, come ha rivendicato Susanna Camusso nelle conclusioni al Comitato Direttivo Confederale del 10 e11 maggio scorsi, era fondamentale “in una stagione come l’attuale essere una organizzazione sindacale e continuare a mantenere una funzione sindacale…”. Rivendicazione giustamente orgogliosa, tanto più che – lo dico con grande rammarico – altri hanno scelto, stando ai fatti, la strada delle interlocuzioni privilegiate per lucrare qualche vantaggio in termini di ruolo, di peso politico; non mi pare, infatti, che quanto avvenuto in questi anni sul fronte endo–sindacale possa essere considerato “ordinaria dialettica”, fisiologica in regime di pluralismo.

 

Ora però, di fronte a quegli innegabili elementi di novità di cui abbiamo detto, ai fermenti sociali che si manifestano e alle opportunità che ne derivano, è indispensabile, a mio avviso, che la tensione al cambiamento connoti con maggiore evidenza anche la nostra (me lo si consenta) identità e le nostre proposte. E’ indispensabile che risulti visibile, esplicita, la nostra determinazione a interpretare, a guidare il cambiamento, ora possibile. Serve un “cambio di passo”. Serve una sintonia più evidente tra la nostra identità e la nostra “piattaforma per il cambiamento”. Ricorro non a caso alla nozione di “piattaforma per il cambiamento” perché a me pare sia questa, ora, la sfida.

 

Anche gli obiettivi su cui la Cgil si è meritoriamente mobilitata nei mesi scorsi (la crescita, la lotta al precariato, il fisco, le pensioni…) è utile siano ricollocati nel nuovo contesto e si propongano ai lavoratori, ai giovani, ai cittadini con una più evidente organicità. Perciò mi suscita qualche perplessità che il Comitato Direttivo Confederale della Cgil abbia eluso la necessità di una nuova piattaforma, limitando l’impegno dell’organizzazione alla definizione di una proposta di “modello contrattuale”. Temo che l’impegno assunto dal Direttivo CGIL sia impari rispetto al livello della sfida, e che la tempestività del nostro riposizionamento di fronte a questo vero e proprio “passaggio di fase” si proponga con urgenza, per aggregare nuovi consensi e potenziare l’efficacia della iniziativa futura; penso, cioè, che proprio di una vera e propria piattaforma ci sia necessità.

 

E ogni piattaforma – o sappiamo per antico mestiere – deve essere organizzata attorno a chiare e selezionate priorità; alcune si impongono con evidenza osservando la società italiana di oggi e, in essa, la condizione del mondo del lavoro:

 

Una insopportabile iniquità nella distribuzione del reddito, innanzitutto. Vale per i salari,vale per le pensioni e vale, in modo particolare, per le nuove generazioni quando riescono ad entrare – e con quanta fatica! – nel mondo del lavoro. C’è nel paese una evidente questione salariale che va posta in termini espliciti. Una questione che, per la sua portata, non troverà soluzioni significative nella riformetta fiscale di cui parla la maggioranza di governo dopo la sconfitta elettorale, se mai si farà: qualche limatura alle aliquote Irpef per una partita di giro che ritocchi al rialzo l’Iva potrebbe addirittura tradursi in ulteriore perdita di potere d’acquisto per salari e pensioni. Di più: per quanto il governo in carica favoleggi di alleggerimento della pressione fiscale, ciò che si annuncia è una manovra di aggiustamento pluriennale del valore di 40 miliardi di euro; dove è prevedibile che “metta le mani” Tremonti? Si può forse confidare nella volontà dei nostri governanti di condurre una efficace lotta alla evasione, all’economia sommersa e agli sprechi?

 

D’altra parte sarebbe velleitario e irragionevole pensare di aggredire il problema aprendo una indiscriminata stagione di rivendicazioni salariali in una fase di grande sofferenza e difficoltà finanziaria per molte imprese. A maggior ragione, dunque, è necessario dotarsi di una piattaforma di medio–lungo periodo, un progetto ambizioso e coraggioso per accompagnare il sistema economico–produttivo verso una fase di nuova vitalità, improntata a criteri di sostenibilità ed equità sociale. Ma l’agenda per un simile progetto va dettata ora, tutti gli attori economici, politici e sociali devono essere posti con forza di fronte ad una questione che, peraltro, è l’altra faccia della mancata crescita e non certo la sua causa. Tutti gli osservatori più autorevoli lo dicono – e per tutti Mario Draghi – la valorizzazione del capitale sociale è, sul lungo termine, un ingrediente necessario per la produttività e la crescita del sistema; al contrario la sua frustrazione fiacca il paese e l’economia.

 

L’altra faccia del problema è la insostenibile condizione di incertezza, precarietà, esclusione in cui sono relegate le giovani generazioni nel lavoro e nella transizione al lavoro. In verità sussiste una percezione più diffusa e matura del valore strategico della questione (anche grazie alle molte iniziative di mobilitazione supportate o animate dalla Cgil), ma ancora stenta a delinearsi un “pacchetto” organico di misure normative e di obiettivi negoziali capaci di invertire la progressiva marginalizzazione dei nuovi lavoratori/trici nella dialettica sociale reale. Le numerose recenti mobilitazioni, caratterizzate da vivacità e fantasia, hanno suscitato simpatia, ma solo raramente effettivo coinvolgimento dell’opinione pubblica e dello stesso mondo sindacale. E anche la pratica negoziale consolidata a volte ha determinato la diffusione della sciagurata pratica dei “doppi regimi”, per non dire dell’avvallo che parte rilevante del sindacato confederale ha concesso, nel corso dell’ultimo decennio, alla sistematica e progressiva de–strutturazione del sistema delle tutele per i nuovi ingressi nel mercato del lavoro, compiuta per via legislativa sotto l’egida, ciecamente ideologica, del peggior ministro del Lavoro che la storia della Repubblica ricordi.

 

L’attuale stato delle relazioni sindacali evidenzia una ulteriore questione, tutt’altro che nuova, ma che nella condizione di oggi, a fronte del risveglio di protagonismo che si sta manifestando, si propone con rinnovata urgenza: non si può più oltre espropriare i lavoratori di ogni possibilità di intervenire attivamente e consapevolmente nel determinare le conclusioni dei negoziati sindacali. Siamo ben oltre la storica dialettica fra “sindacato degli iscritti” e “sindacato del movimento”, una disputa, questa, che oggi potrebbe tutt’al più appassionare un ristretto ceto di funzionari o di delegati di lungo corso, mentre in ogni ambito della vita politica e delle relazioni sociali si manifesta una crescente – e benedetta – domanda di partecipazione, una rivendicazione di soggettività. Il giustamente glorioso sindacato confederale italiano può rimanere impaniato in una disputa quasi esoterica fra stati maggiori, a fronte di una esigenza tanto semplice da leggere e tanto dirompente per forza intrinseca?

 

Forse è un destino da ex, ma ho letto come una boccata di aria fresca il contributo che alcuni ex dirigenti Cisl – Pierre Carniti innanzitutto – hanno di recente offerto in merito. Se mi è consentito un suggerimento, credo che la Cgil dovrebbe porre il tema a tutta voce e con questa semplicità e linearità; toccherà ad altri esprimere opinioni, convergenti o no, con altrettanta nettezza, e assumere responsabilità di fronte a tutti i lavoratori e all’intera opinione pubblica. A partire da qui, forse, potrebbe decollare un confronto proficuo, trainato dalla forza delle cose.

 

La questione del “modello contrattuale”, è ovvio, è molto più complessa: riguarda la valenza solidaristica degli obiettivi, le priorità da fissare con realismo e intelligenza, il rapporto fra i due livelli negoziali (chiave di volta di un sistema effettivamente “confederale” di gestione delle relazioni). La stessa questione democratica necessita di essere codificata e organizzata, non solo enunciata in termini di principio come qui si sta facendo; e so bene la complessità della questione. Su tutti questi aspetti il confronto fra le Confederazioni dovrà svilupparsi con grande apertura e disponibilità reciproca, mettendo in campo ciascuno le proprie opzioni, ma anche massima duttilità. Ma non v’è dubbio che, comunque, un tale confronto costituirebbe di per sé un grande passo avanti rispetto all’attuale stallo, il cui unico effetto è che i lavoratori sono di fatto espropriati di ogni possibilità di incidere con efficacia sulla determinazione di misure e trattamenti che incidono sulle loro condizioni di vita e di lavoro. Uscire da questa intollerabile “impasse” è ormai una necessità inderogabile.

 

Infine, a proposito di cambio di fase nella vita del paese e nei sistemi di relazione che ne connotato la vita sociale ed economica, a me pare sarebbe molto significativo che la Cgil promuovesse, nell’ambito del sindacalismo confederale e nel paese, una grande discussione sui valori che animano l’art. 46 della Costituzione. Si superi definitivamente ogni diffidenza, ove ancora sussista; a ben vedere il tema ci appartiene: ai meno giovani ricordo le elaborazioni di Bruno Trentin sul “piano di impresa” e ricordo che più di un ventennio fa la Cgil dedicò un Congresso alla strategia della codeterminazione. Sono certo che nelle biblioteche di tutte le sedi della Confederazione sono conservati ed esposti gli atti di importanti convegni dedicati a queste tematiche. Partecipazione non è sinonimo di subalternità, non è abdicazione alla autonomia di proposta e di iniziativa. Anche la pratica del conflitto, quando se ne ravvisi l’opportunità o la necessità nell’ambito del processo partecipativo, comporta un di più di consapevolezza e di responsabilità. A ben vedere un percorso di autentica partecipazione è coerente con il passaggio di fase che è legittimo intravedere nei più recenti avvenimenti della vita del paese e da cui ha preso spunto questa modesta proposta. Anche tale scelta richiede, per divenire pratica reale, un quadro normativo promozionale ed efficace, oltre che la disponibilità e l’interesse convinti degli attori sociali. Vale a dire che coinvolge e chiama a responsabilità la politica, oltre che gli attori sociali.

 

Quello che auspico, dunque, non è un aggiustamento tattico di antiche pratiche. Serve, si diceva, un cambio di passo consapevole e forte; la Cgil ha nel proprio Dna i geni adeguati per proporlo innanzitutto a tutto il sindacato confederale, ai lavoratori italiani, al paese. Vorrà farlo? E potrà attivarsi, su quella base, un nuovo percorso di unità del mondo del lavoro, tale da spazzare via piccoli opportunismi e antiche abitudini? Più che auspicabile è, a mio avviso, necessario. L’alternativa è di trovarci esposti ad un duplice rischio: una sostanziale afasia di fronte  alle ricadute sociali delle prossime prevedibili manovre di aggiustamento finanziario (i segni di ripresa produttiva non ci mettono al riparo dal rischio incombente di un possibile tracollo finanziario); e la conseguente perdita di credibilità anche nostra in quanto agenti di cambiamento. Intendo dire che il rischio di farci sorprendere da processi che si sono avviati e paiono destinati ad accelerarsi non è semplicisticamente esorcizzabile. D’altronde, come sempre nella storia sociale, quando i tempi sono difficili si può governare il breve termine solo se si è in grado di offrire una prospettiva lungimirante, credibilmente ispirata a criteri di rinnovamento e di equità.

Giovedì, 16. Giugno 2011
 

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