La via stretta per uscire dal declino

Un accordo tra governo e parti sociali, l’ammodernamento dell’apparato produttivo e la ripresa di iniziative politiche nell’area euro che puntino a forme di coordinamento delle politiche fiscali e monetarie diverse dal Patto di Stabilità, sono pre-condizioni per la difesa dei diritti sociali e la crescita
1. L'accordo del 1993 sulla concertazione
L'accordo del 1993 tra governo e parti sociali introdusse la politica dei redditi nella gestione dell'economia italiana. Esso contribuì in maniera decisiva all'ingresso dell'Italia nell'area dell'euro, i cui vantaggi sono stati grandissimi. La moneta è stata protetta dai violenti movimenti speculativi che caratterizzano i mercati in epoca di liberalizzazione finanziaria internazionale e i saggi d'interesse italiani si sono uniformati a quelli degli altri Paesi europei.
 
In sostanza, l'accordo ha prodotto moderazione nelle rivendicazioni salariali attraverso l'aggancio della dinamica salariale di primo livello al tasso di inflazione scelto come obiettivo, piuttosto che al tasso effettivo. La moderazione salariale ha permesso non solo il rientro dall'inflazione, ma anche il risanamento (sia pure non totale) dei conti pubblici, attraverso la riduzione dei tassi d'interesse.
 
I sacrifici dei lavoratori dipendenti sono stati consistenti: nell'intero decennio successivo agli accordi la dinamica estremamente contenuta delle retribuzioni nominali lorde, insieme alla pressione fiscale e alla dinamica dei prezzi, ha fatto sì che solo nel 2003 le retribuzioni nette potessero appena riacquistare il livello reale che avevano nel 1990. Tali sacrifici hanno apportato vantaggi a tutti i cittadini, consentendo all'Italia di evitare i rischi delle svalutazioni d'ampiezza latino-americana e quelli di default del debito pubblico, eventi che avrebbero comportato lo smantellamento dello stato sociale. Si è così evitato che le condizioni di vita dei lavoratori risultassero peggiori di quelle attuali.
 
L'importanza degli accordi del luglio del '93 va quindi ribadita e i conseguenti sacrifici delle famiglie degli operai e impiegati vanno rivendicati, per così dire, con orgoglio, in quanto hanno scongiurato, attraverso il contenimento dell'inflazione e il risanamento finanziario, il rischio che l'Italia restasse fuori dal processo europeo di unificazione monetaria.
 
Ma, se le nostre riflessioni vogliono (come vogliono) riguardare non tanto il passato, quanto il futuro, e contribuire a delineare una strategia d'azione politica, occorre sgombrare fin d'ora il campo da un possibile equivoco, in merito al ruolo della moderazione salariale. Ci riferiamo alla tesi, più volte affermata, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni '90, che la moderazione salariale e, più in generale, la flessibilizzazione del mercato del lavoro servissero anche per promuovere la competitività delle produzioni italiane sui mercati internazionali. Questa idea è stata sconfessata dai fatti. L'Italia ha, purtoppo, perso quote di mercato, al livello mondiale, sia nelle produzioni a contenuto tecnologico avanzato, sia nei settori del made in Italy, in cui tradizionalmente eccelleva, proprio a partire dalla fase in cui hanno avuto luogo il processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro e la stagione della moderazione salariale. Inoltre la tesi che la flessibilità promuove la competitività si basa su una concezione della concorrenza in termini di costo, che mal si combina tanto con la storia delle economie di successo, quanto con le teorie della crescita e della produttività più accreditate, secondo cui la competitività e la crescita di un Paese dipendono dalla qualità e dal contenuto tecnologico ed innovativo delle sue produzioni, piuttosto che da fattori di costo e di prezzo. Su questi aspetti ritorneremo nel seguito.
 
 
2. Un nuovo accordo tra governo e parti sociali?
La coalizione che ha vinto le ultime elezioni può avere interesse a stipulare un nuovo accordo con le parti sociali. Tale accordo appare oggi altrettanto necessario, anche se i suoi obiettivi sono diversi da quelli del 1993. Nella situazione attuale, se si vuole evitare uno smantellamento forzato di quello che resta dello Stato sociale, è necessario puntare su un aumento del tasso di crescita dell'economia, portandolo a superare almeno il 2%. E' un obiettivo raggiungibile, dato il quadro macroeconomico internazionale. L'economia mondiale sta crescendo a tassi che non si realizzavano da trenta anni. Nel 2004 e nel 2005, essa è cresciuta, in termini reali, a saggi annui prossimi al 5%, mentre il commercio internazionale è cresciuto a un tasso annuo del 10,3% nel 2004 e del 7% nel 2005. I dati relativi ai primi mesi del 2006 confermano gli andamenti positivi, mostrando anzi un ulteriore rafforzamento della crescita economica mondiale, che sta avendo ripercussioni soddisfacenti anche sul commercio internazionale.
 
Le prospettive future continuano ad essere favorevoli, nonostante le incertezze legate alle tensioni internazionali, alle guerre e all'alto prezzo del petrolio. E' ragionevole prevedere che, almeno fino alle Olimpiadi del 2008, la Cina, che ora produce il 15% del PIL mondiale, continuerà a crescere ai tassi elevatissimi degli anni recenti (intorno al 10% in termini reali), spingendo gli altri Paesi emergenti a crescere, come stanno già facendo, a tassi superiori al 7%. Seguendo l'andamento dell'economia mondiale anche il commercio internazionale dovrebbe continuare ad espandersi ai tassi sostenuti registratisi di recente.
 
 
3. L'economia dell'area dell'euro e quella italiana
Benchè i suoi tassi di crescita restino lontani da quelli delle economie emergenti, l'economia dell'area dell'euro sta finalmente beneficiando di tale situazione. Nel 2004 essa aveva già mostrato che stava uscendo dalla fase recessiva, cominciata nel 2001. Il suo saggio di crescita era passato dai valori inferiori all'1% del 2002 e del 2003 a un valore pari al 2,1% del 2004. Nel 2005 tuttavia, specie nei primi due trimestri, c'era stato un nuovo rallentamento, che aveva riportato i saggi a valori vicini all'1%. Nei due trimestri successivi si sono però realizzati saggi pari all'1,6% e all'1,7%, mentre nel primo trimestre del 2006 è stato registrato un saggio pari all'1,9%.
 
L'andamento moderatamente positivo della crescita economica è stato accompagnato da quello favorevole della crescita delle esportazioni, i cui volumi sono aumentati secondo le seguenti percentuali calcolate su base annua:
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Primo trimestre 2005                1%
Secondo trimestre 2005     4,1%
Terzo trimestre 2005     6,7%
Quarto trimestre 2005     5,5%
Primo trimestre 2006    10,8%
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(Fonte: Bollettino Mensile della Banca Centrale
Europea, Luglio 2006, Tavola 7.5)
 
Tra i Paesi dell'area dell'euro la Germania ha avuto risultati particolarmente buoni per quanto riguarda le esportazioni, crescendo, come mostra la Tabella qui riportata, a saggi superiori a quelli dell'area dell'euro:
 
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 2003     2004     2005   
Area  dell'euro           1,1%   6,5%   3,8%
Germania   2,4%   9,3%   6,3%
Francia - 1,7%   3,1%   3,1%
Italia - 2,4%   3,0%   0,3%
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(Fonte: Bollettino Economico della Banca d'Italia,
marzo 2006, numero 46, Tavola 5, pagina 21)
 
L'Italia invece, confermando una tendenza negativa che ha iniziato ad operare dalla prima metà degli anni Novanta, mostra difficoltà ad approfittare dell'aumento del commercio internazionale. La crescita delle esportazioni italiane continua ad essere inferiore a quella dell'area dell'euro, un dato allarmante che conferma la tendenza della nostra economia a perdere quote di commercio internazionale. Secondo i dati proposti dal Bollettino Economico della Banca d'Italia (marzo 2006), la quota dell'Italia sulle esportazioni mondiali, valutata a prezzi costanti, dal 1995 ad oggi è passata dal 4,6% al 2,7%, laddove quella tedesca nello stesso periodo è cresciuta, passando dal 10,3% all'11,7%. Questa perdita di competitività rappresenta un problema molto grave per il futuro della nostra economia e per il tenore di vita che il Paese potrà offrire ai suoi cittadini negli anni a venire.
 
 
4. Competitività, flessibilità e politiche industriali
Due sono i fattori che hanno principalmente contribuito alla perdita di competitività internazionale dell'Italia: le linee di tendenza che hanno caratterizzato negli ultimi decenni lo sviluppo industriale del nostro Paese e la focalizzazione quasi esclusiva delle politiche d'intervento sulla flessibilizzazione del mercato del lavoro.
 
Per quanto riguarda il primo punto, l'Italia fin dagli anni '70 ha imboccato la strada di una prevalente specializzazione delle nostre esportazioni nei settori tradizionali (pur accompagnata da una buona performance nei settori della meccanica). Tale scelta, ormai da oltre un decennio, si è rivelata perdente, per un doppio ordine di ragioni. In primo luogo, perche' la crescita del commercio internazionale si è concentrata nei settori ad alta tecnologia, che la nostra industria ha 'inspiegabilmente' abbandonato (mentre una certa, sia pur limitata presenza era ancora riscontrabile fino agli inizi degli anni '70); in secondo luogo, perchè nei settori tradizionali risentiamo della concorrenza dei Paesi emergenti, il cui costo del lavoro è talmente basso che un livello paragonabile non sarebbe da noi conseguibile, per quanto oltre ci si volesse spingere sulla strada della moderazione salariale.
 
La pressione sul costo del lavoro e l'aumento della flessibilità, purtroppo, appaiono ad alcuni settori della nostra industria come gli unici sostituti concepibili rispetto alle politiche di svalutazione, ormai non praticabili dopo l'ingresso nell'area dell'euro. Come abbiamo detto, la linea da perseguire sarebbe piuttosto quella dell'aumento della domanda globale e del riposizionamento della nostra industria sui mercati internazionali attraverso lo sviluppo dei settori tecnologicamente avanzati. Il contenimento del costo del lavoro, in quest'ottica, potrebbe essere invocato al più come un intervento-tampone, non certo come la chiave di volta di una strategia di recupero della competitività internazionale.
 
Per quanto riguarda il secondo punto, anche volendosi limitare ad una politica di recupero della competitività di costo, la variabile rilevante su cui agire, come tutti sanno, non è il costo del lavoro in quanto tale, ma il costo del lavoro per unità di prodotto, che si ottiene dividendo il costo del lavoro (o il salario) per la produttività del lavoro. La produttività del lavoro, a sua volta, è data dal prodotto diviso per il numero di lavoratori che contribuiscono alla sua produzione.
 
 Sul terreno della produttività del lavoro, l'Italia aveva registrato, fino alla prima metà degli anni '90, una dinamica positiva, anche nei confronti internazionali. Ma dal 1997 tale dinamica ha subito un brusco rallentamento, con valori addirittura negativi in alcuni anni. Le spiegazioni di questo brusco e negativo cambiamento possono essere molteplici. Qui non intendiamo fornire una spiegazione complessiva del fenomeno, ma ricordare alcuni aspetti che certamente hanno avuto influenza.
 
In primo luogo, vi è l'effetto statistico dovuto all'emersione del sommerso, avvenuta in questi anni: un certo volume di produzione era attribuito solo a una parte dei lavoratori che effettivamente vi contribuivano, in quanto un'altra parte di essi rimaneva invisibile alle rilevazioni statistiche. Con l'emersione, la stessa produzione è suddivisa su un numero maggiore di lavoratori e, quindi, la produttività per lavoratore sembra diminuire, ma nei fatti essa era stata in precedenza sovrastimata.
 
In secondo luogo, vi è stata in questi anni una crescita dell'occupazione non interamente spiegabile con l'emersione. Tale crescita può essere stata in parte stimolata dalla proliferazione dei contratti di lavoro "flessibili". In particolare, l'incidenza percentuale dell'occupazione temporanea (contratti di lavoro a tempo determinato, collaborazioni e prestazioni di lavoro occasionale) sul totale dell'occupazione dipendente è raddoppiata tra il 1993 e il 2005, passando dal 6,2 al 12,1% (Fonte: Banca d'Italia, Bollettino Economico n.46, marzo 2006, su dati ISTAT, RFL).
 
E' possibile che il carattere provvisorio dei nuovi rapporti di lavoro abbia avuto un effetto negativo sulla produttività: la previsione della mancanza di continuità del rapporto potrebbe indebolire gli incentivi, sia per l'impresa (attraverso la minore spesa per la formazione dei lavoratori) sia per i lavoratori stessi, ad acquisire il capitale umano specifico, cioè le competenze specifiche legate al processo produttivo. Tali competenze sono una componente essenziale della crescita della produttività. La "fragilità contrattuale" che caratterizza buona parte della nuova occupazione creata negli ultimi anni potrebbe così rivelarsi un boomerang.

 
5. Le politiche economiche nell'area dell'euro
Un ultimo elemento che qualifica positivamente il quadro macroeconomico internazionale riguarda gli indicatori dello stato delle aspettative degli operatori economici. A partire dalla seconda metà del 2005, questi indicatori hanno assunto, dopo molti anni, in tutta l'area dell'euro, valori che fanno sperare in un aumento degli investimenti e della domanda globale (si veda la Tavola 5.2 del Bollettino mensile di Luglio 2006 della Banca Centrale Europea). Al riguardo, particolarmente incoraggianti appaiono i dati dell'economia tedesca, il cui PIL rappresenta un terzo di quello dell'area dell'euro. Il consolidamento della crescita dell'economia tedesca farebbe assumere alla crescita dell'area dell'euro quei caratteri di stabilità e permanenza che ancora mancano.
 
Le persistenti difficoltà di stabilizzazione e consolidamento della crescita delle economie dell'area dell'euro ripropongono il problema, particolarmente rilevante per la definizione delle linee di azione politica, dell'utilizzo delle diverse forme di politica economica in un'area geografica, come quella che ha adottato l'euro, che ha in sé elementi di forza che le potevano consentire già da tempo di realizzare saggi di crescita superiori a quelli verificatisi.
 
Diversamente dagli Usa, il cui deficit commerciale tocca punte del 7% del PIL, l'area dell'euro beneficia di un surplus commerciale di ampie dimensioni, che, prima dei recenti aumenti dei prezzi del petrolio, oscillava stabilmente intorno al 2% del PIL. La presenza di questo surplus rende tecnicamente possibile, da tempo, il perseguimento di una politica fiscale espansiva, foriera di maggiore crescita e minore disoccupazione.
 
Purtroppo, il modo in cui l'Unione monetaria è stata realizzata ha impedito che questa terapia fosse applicata. Le norme che regolamentano l'Unione Europea, modificabili solo all'unanimità, fissano per il bilancio gestito dalla Commissione Europea un tetto massimo di poco superiore all'1% del PIL. Tale ammontare di spesa è bassissimo (quello del bilancio federale degli USA oscilla tra il 25 e il 30% del PIL di quel Paese) e rende impossibile l'uso di una politica fiscale unica a livello sovranazionale europeo.
 
La politica fiscale quindi è ancora nelle mani dei governi nazionali. Nell'area dell'euro, inoltre, la presenza di una moneta unica rende indispensabile un coordinamento tra la politica monetaria sovranazionale e quelle fiscali dei singoli governi. La forma di coordinamento scelta è quella rigida del Patto di Stabilità e di Crescita, il quale limita drasticamente la possibilità di utilizzare tale strumento di politica economica a livello nazionale. Il risultato è che, a causa delle normative vigenti a livello comunitario, non è possibile usare quelle soluzioni tecniche di politica economica che possono consentire un adeguato sfruttamento dei potenziali di crescita e un maggior benessere sociale.
 
Una linea d'azione politica che deve essere quindi intrapresa nei Paesi dell'area dell'euro è il rilancio di iniziative che puntino al completamento del processo di riforma istituzionale in ambito europeo. I Paesi dell'area dell'euro, già da tempo, hanno assoluta necessità di rivedere quelle norme (sottoposte all'unanimità e, quindi, al diritto di veto da parte di qualunque altro Paese dell'Unione), che impediscono di sfruttare a pieno le loro potenzialità di crescita. Tali iniziative possono avere probabilità di successo se, prendendo atto che non tutte le economie appartenti all'Unione Europea hanno le stesse esigenze (si veda qui il saggio di Panico e Rizza pubblicato su questa rivista), si formano aggregazioni tra Paesi per promuovere le riforme a "velocità diverse", cioè spingendo più avanti nell'area dell'euro le riforme istituzionali o il processo di coordinamento tra le politiche monetarie e fiscali rispetto a quanto abbiano intenzione o necessità di fare Paesi come l'Inghilterra o quelli entrati di recente nell'Unione Europea.
 
E' inoltre essenziale che tali iniziative vedano la partecipazione attiva dei cittadini e delle istituzioni che li rappresentano. La partecipazione democratica è fondamentale per lo sviluppo in ambito europeo di un processo di riforma che si contrapponga alle attuali tendenze, che danno a molti l'impressione che la politica dell'Unione Europea sia fortemente influenzata dalle pressioni che provengono dai gruppi economici privati e sia conseguentemente caratterizzata da un deficit di democrazia e da poca attenzione alle istanze sociali. L'avvio di un'azione sindacale e politica a livello europeo è fondamentale per ottenere maggiore democrazia, maggiore attenzione ai problemi sociali e politiche economiche flessibilmente coordinate, che sfruttino adeguatamente le potenzialità di crescita delle economie, riducano la disoccupazione e aumentino il benessere collettivo.
 
 
6. Le risorse finanziarie disponibili
Le informazioni presentate nelle sezioni precedenti mostrano che ci sono i presupposti affinchè anche l'economia italiana possa riprendere un andamento soddisfacente. Per rendere concrete queste possibilità è però necessario che il nostro Paese interrompa la tendenza a perdere competitività internazionale, riammodernando l'apparato produttivo.
 
Questo risultato non può essere raggiunto attraverso un processo spontaneamente innescato dalle forze di mercato. Per intraprendere processi virtuosi, che, oltre a fare aumentare la produttività, selezionino produzioni innovative in grado di imporsi sui mercati internazionali, non attraverso una concorrenza di prezzo, ma attraverso la qualità dei prodotti, bisogna realizzare una politica industriale attiva ed efficace, capace di guidare le scelte imprenditoriali, individuando strategicamente progetti e aree da beneficiare e coordinandosi con le politiche di sviluppo locale, specie con quelle che gestiscono i fondi europei concessi per le "regioni obiettivo 1".
 
Queste linee d'azione richiedono un'inversione ad U rispetto a quelle che hanno ispirato la politica industriale del nostro Paese negli ultimi decenni. Esse inoltre richiedono un impegno finanziario importante da parte della pubblica amministrazione.
 
I gravi problemi finanziari che affligono il bilancio dello Stato rendono complesso il problema del reperimento delle risorse per la gestione di tali scelte. La situazione del debito pubblico italiano impone una politica di rientro rapido nei parametri del Patto di Stabilità. Nonostante la sua "stupidità", il Patto va rispettato. L'elevato rapporto debito-PIL del nostro Paese c'impone tale scelta. Segnali contrari sarebbero interpretati negativamente dai mercati finanziari, che già hanno iniziato a penalizzare il debito pubblico italiano, richiedendo per esso tassi di interesse più elevati di quelli richiesti per il debito pubblico di altri Paesi. Questi primi aumenti si sono verificati alla vigilia di un periodo di tassi crescenti in tutta l'area dell'euro.
 
I saggi d'interesse praticati dalla BCE sulle operazioni principali di rifinanziamento delle istituzioni finanziarie monetarie (cioè le banche e altre istituzioni simili) è andato aumentando dal giugno 2003 ad oggi secondo quanto contenuto nella tavola qui di seguito riportata:

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6 marzo 2003                 2,00% 
6 dicembre 2005    2,25%
8 marzo 2006    2,50%
15 giugno 2006    2,75%
4 agosto 2006    3,00%
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(Fonte: Bollettino Mensile della Banca Centrale
Europea, Luglio 2006, Tavola 1.2, pagina S 7)
 
Gli operatori dei mercati finanziari prevedono che i saggi d'interesse aumenteranno ancora nei prossimi mesi. I contratti da loro già firmati per operazioni a termine sui saggi d'interesse a brevissima scadenza consentono di affermare (si veda il Bollettino mensile della Banca Centrale Europea, luglio 2006, Grafico 12 e pagina 30) che gli operatori stanno prevedendo che nella primavera del 2007 i saggi d'interesse praticati dalla BCE sulle operazioni principali di rifinanziamento delle istituzioni finanziarie monetarie passeranno dal 3% attuale a valori superiori al 4%.
 
Gli aumenti dei tassi d'interesse a scadenza brevissima si riflettono sui tassi di interesse sul debito pubblico. I tassi medi pagati nell'area dell'euro sul debito pubblico a scadenza decennale sono passati dal 3,2% del luglio 2005 al 4,2% del luglio 2006 (si veda il Bollettino mensile della Banca Centrale Europea, luglio 2006, Grafico 10, pagina 29). Se dovessero effettivamente realizzarsi gli aumenti previsti dagli operatori, dovremmo attenderci nei prossimi mesi un ulteriore aumento dei saggi d'interesse sul debito pubblico di tutti i Paesi dell'area dell'euro. Tale aumento potrebbe superare un punto percentuale (probabilmente, un punto percentuale e mezzo) e graverebbe pesantemente sui bilanci pubblici nazionali, particolarmente su quello dell'Italia, dove la dimensione del debito pubblico, pari al 106% del PIL (quasi il doppio di quelle francesi e tedesche che sono vicine al 60%), rendebbe ancora più costosi i pagamenti di interesse da parte dell'erario.
 
Se stimiamo che in Italia l'aumento di un punto percentuale del saggio d'interesse pagato in media sul debito pubblico costa all'erario circa 20 miliardi di euro, possiamo comprendere (anche considerando che solo una parte di tale aumento costituisce una maggiore spesa immediata per l'erario) quanto siano ristretti i margini di manovra per il finanziamento delle politiche industriali innovative e quanto sia grave la situazione del nostro Paese per l'elevato rischio di un "avvitamento verso l'alto" del debito pubblico italiano dovuto al fatto che i mercati finanziari internazionali, valutando negativamente le capacità delle nostre autorità di governo di tenere sotto controllo i conti pubblici, richiedano aumenti dei saggio d'interesse sui titoli di Stato italiani superiori a quelli richiesti per gli altri Paesi dell'eurosistema.
 
Appare evidente che in queste condizioni le preoccupazioni del governo in materia fiscale sono giustificate. Il rientro nei vincoli imposti dal Patto di Stabilità è indispensabile, non solo per il rispetto degli impegni assunti in sede europea, quanto soprattutto per evitare reazioni negative dei mercati finanziari, che imporrebbero riduzioni di spesa ancora più gravose per i lavoratori e per gli strati sociali meno abbienti. Gli andamenti crescenti dei tassi d'interesse dovrebbero quindi spingere i lavoratori a richiedere ai partiti di governo il risanamento dei conti pubblici, come previsto dagli accordi presi in sede europea, e un'iniziativa politica che aggreghi i Paesi dell'area dell'euro e che proponga forme più flessibili di coordinamento tra le politiche fiscali e monetarie, che consentano margini d'azione più ampi per le politiche nazionali.
 
 
6. Conclusioni
Un accordo tra governo e parti sociali appare oggi necessario come nel 1993, non per entrare nell'euro, ma per garantire al nostro Paese un aumento della crescita economica, senza la quale non c'è possibilità di difendere le conquiste sociali e quelle del mondo del lavoro. L'ammodernamento dell'apparato produttivo e la ripresa di iniziative politiche rispetto ai Paesi dell'area dell'euro, iniziative che puntino a forme di coordinamento delle politiche fiscali e monetarie diverse dal Patto di Stabilità e all'approvazione di accordi che rilancino l'unione politica, sono due pre-condizioni per la difesa dei diritti sociali dei cittadini. La partecipazione attiva dei lavoratori, dei cittadini e delle istituzioni che li rappresentano a queste iniziative è essenziale per raggiungere i risultati desiderati, promuovendo in ambito europeo un processo di riforma che non sia caratterizzato, come alcuni oggi ritengono che succeda, da un deficit di democrazia e da poca attenzione alle istanze sociali.
Martedì, 5. Settembre 2006
 

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